lunedì 2 marzo 2015

Recensione: Expelled from Paradise

EXPELLED FROM PARADISE
Titolo originale: Rakuen Tsuihō - Expelled from Paradise
Regia: Seiji Mizushima
Soggetto: Nitroplus, Toei Animation
Sceneggiatura: Gen Urobuchi
Character Design:  Masatsugu Saito
Mechanical Design: Junya Ishigaki, Makoto Ishiwata, Masatsugu Saito. Takayuki Yanase
Musiche: NARASAKI
Studio: Graphinica
Formato: lungometraggio cinematografico (durata 104 min. circa)
Anno di uscita: 2014


Evidentemente i tempi erano maturi per far coincidere il miglior lavoro di Gen Urobuchi con il suo passaggio dalla televisione al cinema, quasi come se tanti anni di serialità molto interessante e parecchio sopra la media – ma alla quale mancava sempre quel quid che incorniciasse storicamente le opere del bravo sceneggiatore – fossero serviti come splendido terreno dove far crescere parole, concetti e storie per poterle raccogliere con il proverbiale grande passo. Non che di questi tempi serva ancora chiarire o distinguere il cinema dalla televisione, anzi, modernità e tecnologia in Giappone hanno in parte regredito sperimentazioni e ricerche visive, e non esistono quindi più quei tempi dove film cinematografico significava giocoforza capolavoro o quasi determinato anche da budget milionari che gli studios non potevano permettersi. Sfondare al cinema adesso pare paradossalmente più facile per mezzo di una CG che abbatte costi e tempi e rende molte cose più facili, oltre che assurdamente più appetibili per alcune fasce di pubblico sulle quali non è meglio indagare oltre.

A ogni modo, Urobuchi trova, forse in un minutaggio e in uno sviluppo differente dalla modalità fino a ora incrociate, lo spazio adeguato per fare quello che ha sempre fatto, però meglio. Lo spunto iniziale è classico come classici sono sempre stati gli input nelle serie tv che portano la sua firma, e a una progressione squisitamente lineare corrisponde, come suo solito, un approfondimento psicologico e soprattutto uno spessore dialogico non indifferente: sono strumenti, questi, che Urobuchi sa suonare così bene da colorare e dare brillantezza a una storia che, nelle mani di qualcun altro, sarebbe presto capitombolata in una banale guerra visiva tra realtà virtuale e realtà quotidiana. Pare impossibile che nel 2015 ci sia ancora spazio per una simile tematica, o meglio, che un argomento così ampiamente sviscerato in passato possa manifestarsi nuovamente in abiti ancora curiosi e coinvolgenti, eppure Expelled from Paradise parla proprio di una colossale realtà virtuale, DEVA, dove la maggior parte della popolazione mondiale ha trasferito le proprie sinapsi, mentre ciò che resta della Terra è un mondo desolato, desertico, dove si sopravvive giorno per giorno sgomitando tra criminali e creature affamate di carne. Proprio dalla Terra proviene una sorta di virus informatico che disturba la quiete paradisiaca di DEVA e tocca quindi all’agente Angela Balzac prendere forma umana, tornare nel mondo fisico e indagare.


Si tratta di un soggetto molto comodo, abbiamo un vastissimo ambiente virtuale che in certi suoi frangenti più deliranti può ricordare l’apoteosi visiva di Summer Wars (2009), una grossa fetta post apocalittica costruita con sudore, sofferenza, armi enormi, automobili gigantesche e nostalgia del passato, una coppia di protagonisti che battibecca dall’inizio alla fine per rendersi conto solo man mano di imparare l’una dall’altro e viceversa, un’intelligenza artificiale che si interroga su cosa sia la vita, e ovviamente un bel po’ di combustibile per il pubblico robotico, con mazzate tra colossi di ferro stordenti e ipervitaminiche. Ed è proprio da questi elementi, ormai così consumati, che Urobuchi estrae un succo narrativo a tratti incredibile: se la trama non si smuove da binari consolidati che il cinema di fantascienza ha da tempo stabilito (le difficoltà di Angela nel vecchio mondo, lo scontrarsi con la vita dura ma sincera dell’agente Dingo, il capire le intenzioni dell’I.A. e aiutarla nei suoi progetti, il rinnegare le falsa beatitudine di DEVA fino alla mega royal rumble robotica finale), sono le riflessioni di Dingo e le pause di Angela ad arricchire lo spettatore, è la spontanea ironia che nasce tra i due a rafforzare lunghi momenti parlati che in qualsiasi altro contesto avrebbero ammazzato ritmo e pellicola, è la forza di parole e concetti a far emergere un’amicizia, e di conseguenza una ferrea presa di posizione, che dona sicurezza al film, lo rende solido, circolare, fortemente motivato.

È chiaro come sotto ci sia dell’altro, la critica verso il consueto abbandono sociale e relativa fuga in gusci videoludici dove tutto è a portata di mano e la fatica è solo uno scarto di pixel risuona bene, anche grazie alle tenere e commoventi intenzioni dell’I.A. Frontier Setter, così come sembra esserci una frecciata anche verso un certo mondo dell’animazione nel vedere come la redenzione sia compiuta da una loli sedicenne in abiti supersexy, addobbata con un costante breast bounce e con vari momenti maliziosi, mentre combatte con numerose colleghe tutte uguali a lei. Ma, seppur fatichi a considerare questo elemento solo carattere mainstream, forse qui si tratta giusto di provocazione, in quanto il film stesso soffre su un piano visivo, per quanto lodevole e spettacolare, a causa di un’accoppiata bastarda tra disegni e CG che partoriscono una cel-shading ben fatto ma non così stellare e impeccabile come sarebbe opportuno comunque attendersi da un’opera di un certo richiamo. Il chara di Masatsugo Saito è piacevole nei volti meno moderni e più armoniosi ma derivativo nei tratti e nelle curve, molto meglio il mecha a cura di ben otto mani, con una serie di installazioni robotiche complesse, dal taglio serio e credibile, sicuramente meno affascinanti di un robot come vorrebbe la tradizione nipponica ma di certo più realistica e adeguata al contesto.

Seiji Mizushima ha in curriculum esperienza quanto basta per andare sul sicuro con questo elemento - l'eccellente Fullmetal Alchemist (2003) e il buon Mobile Suit Gundam 00 (2007) sono bei biglietti da visita - e infatti qui si sbizzarrisce con sequenze spesso da infarto, spettacolarizzate non solo per un mero gusto estetico ma per spingere e sfruttare al massimo certi cross narrativi: il lungo piano sequenza non appena Angela arriva sulla Terra, gli accecanti vortici di luce durante le surfate all’interno della rete e, naturalmente, l’incredibile battaglia finale sono momenti di enorme sfoggio tecnico ma anche di inventiva parecchio sopra la media, virtuosismi ai quali si appoggia un martellante score elettronico durante le concessioni moderniste mentre c'è spazio per un più caldo hard rock all'interno delle sessioni terrestri.


Expelled from Paradise pare quindi essere una sorta di old & new, tanto da un punto di vista tematico quanto da uno meramente tecnico. Potrebbe essere film importante e crocevia per il futuro dell’animazione, assolutamente non un caposaldo ma in qualche maniera un bel sunto per mostrare intelligentemente lo stato attuale della scena. Dubito però che possa esserci un simile lavoro critico per sondarlo in profondità, più facile che ne venga usufruita soltanto la sua componente usa & getta, e ciò sarebbe un gran peccato

Voto: 8 su 10 

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