lunedì 5 settembre 2011

Recensione: Robot Carnival

ROBOT CARNIVAL
Titolo originale: Robot Carnival
Regia: Katsuhiro Otomo (apertura, chiusura & epilogo), Koji Morimoto (ep. 1), Hidetoshi Omori (ep. 2), Yasuomi Umetsu (ep. 3), Hiroyuki Kitazume (ep. 4), Mao Lamdo (ep. 5), Hiroyuki Kitakubo (ep. 6), Takashi Nakamura (ep. 7)
Soggetto & sceneggiatura: Katsuhiro Otomo (apertura, chiusura & epilogo), Koji Morimoto (ep. 1), Hidetoshi Omori (ep. 2), Yasuomi Umetsu (ep. 3), Hiroyuki Kitazume (ep. 4), Mao Lamdo (ep. 5), Hiroyuki Kitakubo (ep. 6), Takashi Nakamura (ep. 7)
Character Design: Atsuko Fukushima (apertura, chiusura & epilogo), Koji Morimoto (ep. 1), Hidetoshi Omori (ep. 2), Yasuomi Umetsu (ep. 3), Hiroyuki Kitazume (ep. 4), Mao Lamdo (ep. 5), Yoshiyuki Sadamoto (ep. 6), Takashi Nakamura (ep. 7)
Mechanical Design: Mahiro Maeda (ep. 6)
Musiche: Joe Hisaishi
Studio: A.P.P.P.
Formato: OVA (durata 91 min. circa)
Anno di uscita: 1987


Prendiamo il top degli animatori, registi e character designer del periodo degli anni '80 e mettiamoli a scrivere e dirigere, uno a testa, brevi segmenti animati incentrati sul tema comune dei robot, in storie puramente d'autore e non commerciali, in modo da tirarne fuori un titolo che rappresenti una pietra miliare, uno "stato dell'arte" dell'animazione nipponica del tempo che lasci una profonda traccia di sé1. Nel 1987, il produttore Kazufumi Nomura, a capo dello studio A.P.P.P. (Another Push Pin Planning),  ha le idee chiarissime in proposito e produce un OVA ad altissimo budget a suo modo monumentale, coordinando una trentina di studi d'animazione differenti (tra i tanti, AIC, GAINAX, Magic Bus, SHAFT, Sunrise) e mettendo insieme una task force di tutto rispetto per quello che riguarda gli artisti scelti. È davvero un peccato che, pur così spettacolare nelle sue enormi ambizioni, Robot Carnival si rivelerà storicamente un clamoroso bersaglio mancato, passando inosservato nel mercato home video2 e nella memoria collettiva (ancora oggi lo conoscono in quattro gatti nell'ambiente degli appassionati) insieme a un altro film antologico spiritualmente molto simile che esce e fallisce lo stesso anno, Manie-Manie - I racconti del labirinto (anche se la produzione di quest'ultimo risale al 1983).

Quello che poteva essere un memorabile manifesto dell'amore nipponico per il mecha si risolverà, ahimè,  in un OVA sperimentale troppo snob (altro punto in comune con Manie-Manie), troppo compiaciuto nella sua elitarietà, che si fa apprezzare a piccoli momenti senza mai graffiare per davvero o evocare i sentimenti (risa o commozione) ricercati. Il suo problema, lampante, è che le varie star che lo hanno realizzato dimostreranno di avere poche idee realmente forti, così che l'unica strada percorribile per loro sembra essere stata quella di premere l'acceleratore su raffinatezze registiche e autorali (il minimalismo sonoro, comune in molti episodi), ritmi narrativi dilatatissimi e storie completamente visionarie, nonsense o drammoni esasperati, precludendosi l'inserimento di vicende briose o coinvolgenti. Alcuni (pochi) ci riusciranno con risultati mediamente gradevoli, altri (molti) deludono, ma nell'insieme il tutto risulta troppo lungo e soprattutto altalenante, con più miss che hit. Desta, infine, una certa sorpresa notare che, escluso l'episodio Strange Tales of Meiji Machine Culture - Westerner's Invasion e poco altro, "robot" è inteso nella produzione come quello "classico", umanoide e di piccole dimensioni che tutti conosciamo, o tutt'al più come il classico androide di concezione cyberpunk: chi si attende storie "mecha-centriche" da classica serie animata robottomono, con colossi alti 8 metri pilotati al loro interno da un umano, si metta pure il cuore in pace visto che non troverà quasi nulla, nonostante nel largo stuolo di artisti assoldati ci sia gente che ha nei curriculum lavori-chiave in opere come Megazone 23 (1985) o Mobile Suit Gundam ZZ (1986). L'originalità del progetto rimane tuttavia indubbia e, se anche i singoli cortometraggi si risolvono in nulla di memorabile, i variegati stili di character design, l'attenzione ossessiva per i dettagli nei disegni e nei fondali, le animazioni sconvolgenti (spesso si raggiungono i 24 frame al secondo3, roba da Studio Ghibli) e lo splendido accompagnamento musicale di Joe Hisaishi (come ben sappiamo, lo storico compositore di Hayao Miyazaki) per tutti gli episodi sono motivi sufficienti per non perdersi una gratificazione dei sensi che almeno non fa rimpiangere il tempo speso.

Apertura e chiusura dell'opera sono affidate a Katsuhiro Otomo e alla character designer Atsuko Fukushima, che raccontano l'arrivo e abbandono, in un (probabilmente) post-apocalittico mondo desertico, della gigantesca fortezza mobile che dà il titolo al film, la Robot Carnival, colosso metallico straripante di viti e bulloni, ormai arrugginito e malfunzionante a testimonianza di un passato glorioso, riempito di ogni genere di bambole meccaniche, che intrattiene gli spettatori di quel mondo con un pirotecnico show di danze, fuochi d'artificio ed esplosioni. È questa specie di "teatro" che racconterà le storie che seguono, e bisogna dire che non si può dire niente sul grande impatto visivo di questo episodio: la qualità delle animazioni è eccellente, la fanfara musicale accattivante, e lo steampunk scorre potente nella magnifica resa tecnologica della macchina.

Il primo racconto vero e proprio, invece, già delude. Franken's Gear (scritto, diretto e disegnato da Koji Morimoto) è una rilettura di Frankenstein, o il moderno Prometeo (1818) di Mary Shelley  che pare anche troppo lungo per i suoi esigui 9 minuti di durata. La spettrale ed elettronica colonna sonora di Hisaishi ci accompagna nel laboratorio del castello di Franken, dove lo scienziato, folle e inquietante, cerca di infondere la vita in un robot da lui stesso costruito. Dopo troppi esagerati minuti in cui non succede NIENTE, se non il suo armeggiare all'infinito coi macchinari, riesce finalmente nel suo intento, e il "mostro", appena svegliato, inizia a mimare tutte le pose del suo creatore, salvo poi, nel finale a sorpresa... Si tratta semplicemente di una storia comico-grottesca insignificante, lenta e che non fa ridere, riscattata dalla notevole fluidità tecnica e da ispirate sequenze girate in b/n che accrescono l'aspetto horror.

Deprive (scritto, diretto e disegnato da Hidetoshi Omori) è invece uno spettacolo, a mio parere il segmento migliore dell'antologia, l'unico che rappresenta per davvero lo spirito degli OVA tipici di quegli anni: sintesi estrema, in soli 7 minuti, della storia di una bella ragazza rapita da un malvagio uomo(donna?)-carciofo, e dell'odissea, irta di combattimenti contro scagnozzi vari, passata dal suo ragazzo-cyborg per salvarla. Sarà anche una vicenda di incredibile banalità, ma, coi suoi colori sgargianti, il linguaggio e la narrazione presi in prestito dal fumetto action (l'eroe si potrebbe definire, anche per lo stile di disegno davvero molto simile, un clone di Xenon, noto eroe-androide creato dalla penna di Maosami Kanzaki nel 1986 nell'omonimo fumetto, giunto anche in Italia), l'azione fluida e trascinante data da animazioni non-stop, effetti speciali ed esplosioni à go go, scenari fantasy, l'epica "maschia" e virile e la ritmatissima colonna sonora rock, epica e martellante con ossessive galoppate di tastiera e assoli di chitarra elettrica, l'avventura è davvero avvincente e vola in un attimo grazie alla meraviglia estetica e sonora.


Presence di Yasuomi "Megazone 23 Part II" Umetsu è notoriamente uno dei pezzi più amati dai pochi "fan" di Robot Carnival, uno dei pochi corti in cui sono contemplati dialoghi: è l'insolita storia di un costruttore di giocattoli che, per rifugiarsi dalla solitudine, dà vita a una bambola meccanica. Quest'ultima, sviluppata un'autocoscienza, si innamora di lui con tragiche conseguenze. Passano molti anni, e il giocattolaio avverte sempre più la presenza dell'automa, come se l'anima di lei fosse indissolubilmente legata alla sua... La delicatezza dell'accompagnamento musicale e la regia intensa e particolareggiata di Umetsu per sottolineare l'enfasi psicologica e i sentimenti tra costruttore e bambola garantiscono una riuscita atmosfera malinconica (aiuta anche l'ambientazione, apparentemente una Londra vittoriana di inizio XX secolo), ma la davvero eccessiva durata di questa storia d'amore (20 minuti) non depone a suo favore, sembrando ruffiana nel suo essere più lenta e pesante possibile per sembrare più artistica. Il design tipicamente underground, adulto e sensuale di Umetsu, d'altro canto, a mio parere non si sposa proprio armoniosamente con le atmosfere soffuse e poetiche della vicenda. Per questo motivo loderei l'atmosfera generale ma non il risultato finale, troppo noioso per commuovere davvero.

Apprezzabilissimo quantomeno per il caratteristico tratto di Hiroyuki Kitazume (amatissimo da parte di chi scrive), Star Light Angel nei suoi 10 minuti racconta di una ragazza che scopre una sera, a un luna park, che la sua migliore amica esce col suo stesso fidanzato (un clone di Glemy Toto, da Gundam ZZ da cui viene lo stesso disegnatore). Disperata, fugge via in lacrime, e nella mente immagina una bizzarra storia in cui un ragazzo vestito da automa (uno dei dipendenti del parco) che ha visto poco prima la salva da un malefico robottone demoniaco gigante (sembra tanto un Mortar Headd di Mamoru Nagano) che vuole ucciderla. Alla fine, in un modo o nell'altro, la fantasia le permetterà di elaborare il tradimento del suo ex e al momento di tornare a casa scopriremo che ha già trovato un nuovo ragazzo. Storiellina frivola, musicata da Joe Hisaishi con tracce se possibile ancora più stupidelle e spensierate (il segmento è fortemente ispirato allo storico videoclip Take on me dei norvegesi A-ha4, evidentemente per la commistione tra realtà e mondo di fantasia), ma i classici disegni geometrici, puliti e coloratissimi di Kitazume sono eccellenti, così come le animazioni e la messa in scena del tutto.

Pesante come un macigno e soporifero come il migliore dei sonniferi è invece Cloud dell'animatore Mao Lamdo, storia di un ragazzino-robot che ripercorre simbolicamente la vita dell'universo. Lo vediamo di spalle all'angolo sinistro dello schermo, che ininterrottamente cammina (sempre con la stessa minimale animazione) mentre al centro dello schermo si staglia un riquadro che mostra le fasi della nascita del creato, mediante schizzi artistici e bozze di disegni  raramente animati. Il tutto, salvo nel minuto conclusivo (su 10), è rigorosamente in b/n. Sarà anche il più ambizioso, diciamo artistico fra tutti i corti, e dispenserà chissà quante, profonde e mirabili chiavi di lettura, ma è, ovviamente, una mattonata. Originale? Sicuramente. Impegnato? Probabile. Emozionante? Ehm...

Si arriva quindi a Strange Tales of Meiji Machine Culture - Westerner's Invasion, secondo e ultimo episodio dialogato e altro mirabile buco nell'acqua. Ambientato temporalmente in Giappone nel diciannovesimo secolo, nell'era Meiji, rievoca il primo incontro tra la cultura americana e quella nipponica, inscenando un bizzarro incontro tra giganteschi robottoni di legno semoventi, in una stranulata e comica vicenda steampunk scritta e diretta dall'animatore Hiroyuki Kitakubo e disegnata e animata da Yoshiyuki Sadamoto di GAINAX, che, ben prima di diventare il famosissimo interprete grafico dei personaggi di Nadia - Il mistero della Pietra Azzurra (1990), di quelli di Neon Genesis Evangelion (1995) e dei film di Mamoru Hosoda, aveva lasciato il segno nell'ambiente con lo sfortunato, magnifico kolossal Le ali di Honneamise (1987) e con questo OVA (pur disegnato in modo molto acerbo rispetto a come lo si conoscerà poi). La storia è puramente solare: un assurdo scienziato americano (con tanto di pronuncia inglese pessima, sottotitolata in giapponese) decide di conquistare la città di Tokyo con l'ausilio del suo robottone, ma dovrà fare i conti con un gruppo di amici che a loro volta difendono la città con il loro. Abbiamo facce demenziali e umorismo ovunque, dati dalla difficoltà dei protagonisti di far funzionare doverosamente il difensore del Giappone, ma la vicenda scorre banale, senza troppo brio e senza colpo ferire per altri 11 minuti abbastanza punitivi.


Robot Carnival si conclude nel migliore dei modi con il secondo miglior episodio, Chicken Man and Red Neck di Takashi Nakamura, inno al nonsense più sfrenato: una divinità meccanica invade la capitale del Giappone con i rovi (à la Bella addormentata nel bosco) e affida a un suo seguace, un robot rosso (il Red Neck del titolo), il compito di risvegliare un esercito di androidi per far partire la conquista. Fatto questo, Red Neck se la prende con un ubriaco (evidentemente il Chicken Man del titolo) che, rimediata una moto, fuggisce inseguito per tutta la città (e l'episodio), cercando poi riparo in una fabbrica colma di robot. Il finale è incomprensibile, ma il motivo di interesse del corto risiede nell'enorme suggestione della sua messa in scena: nel suo assurdo mondo di viti, bulloni e ingranaggi in perenne movimento, nella minacciosa presenza di inquietanti entità meccaniche, nelle animazioni sbalorditive che ammaliano per la loro fluidità non-stop, per le musiche ossessive, cupe e ipnotiche, e per il design molto cartoonesco, simil-occidentale ed enormemente espressivo di Chicken Man che ricorda certe meraviglie di Don Bluth. Sono 10 minuti davvero di classe, bastano solo loro ad attestare il senso di esistere di un OVA che sì, in generale non esprime neanche lontanamente quello che era un potenziale smisurato, ma che, per suggestioni sublimi come questa, anche se in basso numero, è ancora meritevole di una tardiva riscoperta.

Voto: 6,5 su 10


FONTI
1 Guido Tavassi, "Storia dell'animazione giapponese", Tunuè, 2012, pag. 189
2 Come sopra
3 Sito Internet, "Anime News Network", "Buried Treasure: Robot Carnival", pagina web http://www.animenewsnetwork.com/buried-treasure/2006-10-26
4 Secondo la Wikipedia inglese, è scritto nel booklet della colonna sonora giapponese di "Robot Carnival" (JVC Musical Industries Inc., 1991)

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