I MIEI VICINI YAMADA
Titolo originale: Hōhokekyo Tonari no Yamada-kun
Regia: Isao Takahata
Soggetto: (basato sul fumetto originale di Hisaichi Ishii)
Sceneggiatura: Isao Takahata
Character Design: Kenichi Konishi
Musiche: Akiko Yano
Studio: Studio Ghibli
Formato: lungometraggio cinematografico (durata 104 min. circa)
Anno di uscita: 1999
Disponibilità: edizione italiana in DVD & Blu-ray a cura di Lucky Red
Regia: Isao Takahata
Soggetto: (basato sul fumetto originale di Hisaichi Ishii)
Sceneggiatura: Isao Takahata
Character Design: Kenichi Konishi
Musiche: Akiko Yano
Studio: Studio Ghibli
Formato: lungometraggio cinematografico (durata 104 min. circa)
Anno di uscita: 1999
Disponibilità: edizione italiana in DVD & Blu-ray a cura di Lucky Red
Di sicuro nulla si può negare dell'intelletto del regista Isao Takahata, poeta nel raccontarci le relazioni umane con una sensibilità, una cura per i dettagli e una spontaneità che di fatto non conoscono uguali nel panorama dell'animazione nipponica (e raramente anche al di fuori di essa). Le sue opere filmiche sono al contempo tutte d'autore e tutte raffinate, ma è anche indubbio che non sono affatto universali dal momento che sono profondamente e devotamente giapponesi, dedicate all'unico pubblico in grado di cogliere gli infiniti riferimenti alla sua cultura e alla sua società di cui sono tempestate, e non parlo di titoli palesi come Pom Poko (1994) ma anche di altri apparentemente user friendly come il celebratissimo (e sovrainterpretatissimo, fanno ancora ridere i commenti occidentali che lo inquadrano come storia pacifista contro la guerra) La tomba delle lucciole (1988). Insomma, non serve che ce lo dica Takahata (e comunque lo ha fatto, come ricordano i lettori della recensione di Pom Poko) che le sue opere non nascono pensando alla distribuzione estera e che proprio per questo non sono affatto tutti perfettamente "digeribili" per la platee internazionali. I miei vicini Yamada, uscito nei cinema nipponici il 17 luglio 1999, commercialmente difficilissimo in Italia, va addirittura oltre: così "straniero" e alieno dalla nostra cultura, così lento, così sperimentale, così di nicchia, da essere piaciuto poco alla stessa madrepatria, che lo accoglierà tiepidamente permettendogli appena di coprire gli altissimi costi di realizzazione di ben 2 miliardi e mezzo di yen in due anni di lavoro1, rappresentando un imprevedibile (ne siamo sicuri?) flop che di fatto allontanerà Takahata dalla regia di un film Ghibli per quasi una vita. È un film, come al solito, curato fino allo sfinimento e realizzato col cuore, contenutisticamente denso, ma così personale, anticommerciale e ostico che anche chi scrive fa fatica a entrarci in sintonia.
I miei vicini Yamada nasce da una personale scommessa del regista: trarre un lungometraggio dall'omonimo slice of life/comico (classe 1991) di Hisaichi Ishii2 che ha per protagonista i Yamada, una tipicissima famiglia borghese giapponese data da padre salaryman, madre e nonna casalinghe, figlio studente e figlia piccola. A volerlo insistentemente è Toshio Suzuki, produttore di Ghibli, innamorato da sempre del fumetto e che da anni chiede ai suoi uomini di portarlo al cinema ricevendo sempre risposte riluttanti3. Queste ritrosie si riconducono alla particolarità di quel manga: commercialmente poco appetibile non solo per il genere di per sé (lo slice of life si contraddistingue da sempre per l'assenza di una trama propriamente detta), ma anche per il fatto di essere uno yonkoma, un fumetto a strisce, composto da "storie" (sarebbe meglio dire "vicende quotidiane") che si aprono e chiudono in 4 vignette. Viste queste problematiche, Takahata sarebbe stato un genio se fosse riuscito a dare un senso organico alle strip, ma non si rivelerà tale: preferirà invece trasporle una dopo l'altra, allungandole in piccole "avventure" autoconclusive di 5/10 minuti da chiudere con un haiku (componimento poetico nipponico da tre versi) a tema, ciascuna dedicata a esplorare i problemi della vita e del nucleo familiare degli Yamada nella società in cui vivono celebrando al contempo il tekito4, "l'adeguatezza sufficiente al contesto", sorta di aurea mediocritas declinata alla giapponese. Takahata vuole che si percepisca, ne I miei vicini Yamada, la (cit.) "tranquillità e pacatezza del vicinato, un luogo in cui abitare senza stress sapendo di poter contare su questo per affrontare serenamente ogni situazione"5 (non per nulla la corretta traduzione del titolo dal giapponese sarebbe l'ancora più alllegro e gioioso I cinguettanti vicini Yamada). L'opera rimarca per l'ennesima volta la visione opposta di Takahata rispetto a quella del fraterno amico/collega Hayao Miyazaki, di cui critica il tipico fantasy avventuroso à la Principessa Mononoke (1997) poiché idealizza troppo i sentimenti e le aspirazioni umane più nobili presentandoli in modi così sognatori da scoraggiare i giovani quando li cercano nella vita reale, demoralizzandosi6. Da questa considerazione, quindi, l'approccio totalmente realistico delle sue storie di vita e intimismo e l'esistenza di un film così pericolosamente anticommerciale come questo.
Il linguaggio del corpo e i dialoghi sono sempre di primissima fascia: diretto sceneggiatore della pellicola, Takahata riempe di umanità i suoi attori e li muove in un palcoscenico di totale realismo comportamentale, permettendo un altissimo processo di immedesimazione nelle personalità raffigurate e nella magnificente trattazione di dinamiche e relazioni familiari. Ci si sente letteralmente a casa, a vedere questi buffi personaggi che affrontano problemi di tutti i giorni, ciascuno con la sua spiccata personalità e modo di affrontare le cose, in un Giappone anni '90 meticolosamente rievocato (una sorta di replica della pazzesca "ricchezza culturale" di Pom Poko) da canzoni popolari, show televisivi, cibi e pietanze.. Il figlio che si esalta come un bambino per il primo appuntamento amoroso, la nonna 70enne che guarda la fioritura dei fiori di ciliegio e si domanda quanto a lungo potrà ancora farlo, i litigi di quest'ultima con la nuora in merito a cosa preparare per cena, la famiglia davanti alla TV a commentare il programma, la madre che inizia a spaventarsi e a paventare chissà quali disgrazie e rapimenti quando si accorge che hanno dimenticato la piccola in un centro commerciale, il padre che non ha voglia di cercare guai andando a rimproverare dei teppistelli che fanno rumore la notte ma ci è costretto da moglie e madre, le discussioni col figlio sul senso di studiare a scuola... Con la consueta sensibilità, l'autore inserisce nel suo film persone vere che vivono, parlano e si comportano come tali e sotto questo punto di vista non si può non cogliere anche in questa pellicola la sua impressionante grandezza intellettuale data da dialoghi di una enorme profondità.
Per contro, I miei vicini Yamada è un film lento e pesante da paura, quasi ipnotico nella sua originale e al contempo terribile scelta stilistica di raccontare tutto raffigurandolo come fosse uno yonkoma. Interamente colorato in digitale7, scelta resasi tale anche (suggerisce Miyazaki8) per far riposare uno staff stravolto dalla fatica per il kolossal Principessa Mononoke, il lungometraggio vede colori tenui, sfumati e acquarellosi (spesso abbiamo la totale assenza cromatica) occupare per la quasi totalità del girato (salvo che in qualche sequenza isolata) scarni fondali. Takahata sceglie un design stilizzatissimo per la sua storia, quasi tendente allo storyboard, che si rifaccia prepotentemente al manga (da questo, i buffi attori deformed) e che focalizzi l'attenzione unicamente sui personaggi per renderli, evidentemente, centrali all'attenzione dello spettatore. I luoghi, gli ambienti e gli arredamenti sono appena suggeriti da linee essenziali su uno sfondo etereo, al punto che si potrebbe definire il film come un curioso precursore delle linee a gessetto del Dogville (2003) di Lars Von Trier. Nelle intenzioni, chiaramente, l'idea ha un senso importante per evidenziare i legami e i sentimenti isolandoli dal contesto ambientale, come fosse teatro, o anche solo per rimarcare la semplicità della vita e delle piccole cose, ma non cambia il fatto che in questo radicale minimalismo grafico da pugno in un occhio le vicende quotidiane dei Yamada risultino ostiche ed estenuanti da seguire fino in fondo - c'è anche qualche sequenza drammatica in cui attori e ambienti sono ritratti in modo realistico (per comunicare probabilmente la cupezza del momento dal loro punto di vista), ma è rara. Mi rendo conto che quella che descrivo potrebbe essere (e forse lo è veramente) superficialità, ma quasi 2 ore di sagome infantili su sfondo bianco a mio parere non si prestano a rendere la visione interessante o coinvolgente, anche se straborda di autoralità e i disegni dei fondali trovano ogni tanto una bellezza maestosa in alcune belissime composizioni pittoriche ben amalgamate con colori saturi. Il marchio Ghibli delle animazioni sontuose e degli splendidi disegni è ben presente (non mancano neanche alcune sequenze registiche da meraviglia visiva, come ad esempio la lunga metafora iniziale del matrimonio e della vita di coppia di Takashi e Matsuko, rappresentata come una favola avventurosa piena di momenti emozionanti), ma la cifra estetica sperimentale è a mio parere determinante nel decretare la pesantezza della pellicola, il suo fallimento ai box office (nonostante il clamore evocato dal fatto che a co-produrre l'opera sia Nippon TV, rivale del quotidiano che pubblica il fumetto originale, l'Asahi Shinbun9) e soprattutto la parvenza - falsa, ma in questo caso estremamente convincente - di un prodotto infantilissimo, disegnato male e molto più pesante di quanto non sia comunque in realtà.
I miei vicini Yamada, come intuibile, rappresenta abbastanza chiaramente un classico esempio di film che si ama o si odia: il lavoro di Takahata è così particolare che si isola da solo, un hit or miss senza vie di mezzo. Dal canto mio, purtroppo mi inserisco nella categoria di chi lo trova interessante, originale e poetico ma, così impostato e progettato, sbagliato alla radice, difficilmente digeribile per la lentezza monolitica, la mancanza di un filo unitario che leghi le vicende e l'essenzialità estetica che stanca subito (sembra una boutade, e invece...!) gli occhi. Non fatico a immaginare come possa piacere moltissimo a buona parte della critica (e così sarà, dal momento che il lungometraggio vince un Animation Excellence Prize al Japan Media Arts Festival10), ai megafan del regista, ad alcuni di quelli che in generale adorano Studio Ghibli e a quel tipo di spettatori che hanno un animo abbastanza "artistico" per apprezzare titoli così calmi e lenti in cui non succede nulla (il fan tipico, ad esempio, di Aria the Animation), ma dal mio punto di vista, anche se ci sperava, Takahata doveva immaginarlo che una enorme fascia di pubblico non avrebbe digerito un'opera così difficile. I miei vicini Yamada, a seconda di come la si pensi, rappresenta o l'ennesimo capolavoro del regista o una delle sue poche delusioni, ma in ogni modo è un risultato che nulla toglie all'impronta davvero unica che solo lui riesce a dare alle sue opere.
I miei vicini Yamada nasce da una personale scommessa del regista: trarre un lungometraggio dall'omonimo slice of life/comico (classe 1991) di Hisaichi Ishii2 che ha per protagonista i Yamada, una tipicissima famiglia borghese giapponese data da padre salaryman, madre e nonna casalinghe, figlio studente e figlia piccola. A volerlo insistentemente è Toshio Suzuki, produttore di Ghibli, innamorato da sempre del fumetto e che da anni chiede ai suoi uomini di portarlo al cinema ricevendo sempre risposte riluttanti3. Queste ritrosie si riconducono alla particolarità di quel manga: commercialmente poco appetibile non solo per il genere di per sé (lo slice of life si contraddistingue da sempre per l'assenza di una trama propriamente detta), ma anche per il fatto di essere uno yonkoma, un fumetto a strisce, composto da "storie" (sarebbe meglio dire "vicende quotidiane") che si aprono e chiudono in 4 vignette. Viste queste problematiche, Takahata sarebbe stato un genio se fosse riuscito a dare un senso organico alle strip, ma non si rivelerà tale: preferirà invece trasporle una dopo l'altra, allungandole in piccole "avventure" autoconclusive di 5/10 minuti da chiudere con un haiku (componimento poetico nipponico da tre versi) a tema, ciascuna dedicata a esplorare i problemi della vita e del nucleo familiare degli Yamada nella società in cui vivono celebrando al contempo il tekito4, "l'adeguatezza sufficiente al contesto", sorta di aurea mediocritas declinata alla giapponese. Takahata vuole che si percepisca, ne I miei vicini Yamada, la (cit.) "tranquillità e pacatezza del vicinato, un luogo in cui abitare senza stress sapendo di poter contare su questo per affrontare serenamente ogni situazione"5 (non per nulla la corretta traduzione del titolo dal giapponese sarebbe l'ancora più alllegro e gioioso I cinguettanti vicini Yamada). L'opera rimarca per l'ennesima volta la visione opposta di Takahata rispetto a quella del fraterno amico/collega Hayao Miyazaki, di cui critica il tipico fantasy avventuroso à la Principessa Mononoke (1997) poiché idealizza troppo i sentimenti e le aspirazioni umane più nobili presentandoli in modi così sognatori da scoraggiare i giovani quando li cercano nella vita reale, demoralizzandosi6. Da questa considerazione, quindi, l'approccio totalmente realistico delle sue storie di vita e intimismo e l'esistenza di un film così pericolosamente anticommerciale come questo.
Il linguaggio del corpo e i dialoghi sono sempre di primissima fascia: diretto sceneggiatore della pellicola, Takahata riempe di umanità i suoi attori e li muove in un palcoscenico di totale realismo comportamentale, permettendo un altissimo processo di immedesimazione nelle personalità raffigurate e nella magnificente trattazione di dinamiche e relazioni familiari. Ci si sente letteralmente a casa, a vedere questi buffi personaggi che affrontano problemi di tutti i giorni, ciascuno con la sua spiccata personalità e modo di affrontare le cose, in un Giappone anni '90 meticolosamente rievocato (una sorta di replica della pazzesca "ricchezza culturale" di Pom Poko) da canzoni popolari, show televisivi, cibi e pietanze.. Il figlio che si esalta come un bambino per il primo appuntamento amoroso, la nonna 70enne che guarda la fioritura dei fiori di ciliegio e si domanda quanto a lungo potrà ancora farlo, i litigi di quest'ultima con la nuora in merito a cosa preparare per cena, la famiglia davanti alla TV a commentare il programma, la madre che inizia a spaventarsi e a paventare chissà quali disgrazie e rapimenti quando si accorge che hanno dimenticato la piccola in un centro commerciale, il padre che non ha voglia di cercare guai andando a rimproverare dei teppistelli che fanno rumore la notte ma ci è costretto da moglie e madre, le discussioni col figlio sul senso di studiare a scuola... Con la consueta sensibilità, l'autore inserisce nel suo film persone vere che vivono, parlano e si comportano come tali e sotto questo punto di vista non si può non cogliere anche in questa pellicola la sua impressionante grandezza intellettuale data da dialoghi di una enorme profondità.
Per contro, I miei vicini Yamada è un film lento e pesante da paura, quasi ipnotico nella sua originale e al contempo terribile scelta stilistica di raccontare tutto raffigurandolo come fosse uno yonkoma. Interamente colorato in digitale7, scelta resasi tale anche (suggerisce Miyazaki8) per far riposare uno staff stravolto dalla fatica per il kolossal Principessa Mononoke, il lungometraggio vede colori tenui, sfumati e acquarellosi (spesso abbiamo la totale assenza cromatica) occupare per la quasi totalità del girato (salvo che in qualche sequenza isolata) scarni fondali. Takahata sceglie un design stilizzatissimo per la sua storia, quasi tendente allo storyboard, che si rifaccia prepotentemente al manga (da questo, i buffi attori deformed) e che focalizzi l'attenzione unicamente sui personaggi per renderli, evidentemente, centrali all'attenzione dello spettatore. I luoghi, gli ambienti e gli arredamenti sono appena suggeriti da linee essenziali su uno sfondo etereo, al punto che si potrebbe definire il film come un curioso precursore delle linee a gessetto del Dogville (2003) di Lars Von Trier. Nelle intenzioni, chiaramente, l'idea ha un senso importante per evidenziare i legami e i sentimenti isolandoli dal contesto ambientale, come fosse teatro, o anche solo per rimarcare la semplicità della vita e delle piccole cose, ma non cambia il fatto che in questo radicale minimalismo grafico da pugno in un occhio le vicende quotidiane dei Yamada risultino ostiche ed estenuanti da seguire fino in fondo - c'è anche qualche sequenza drammatica in cui attori e ambienti sono ritratti in modo realistico (per comunicare probabilmente la cupezza del momento dal loro punto di vista), ma è rara. Mi rendo conto che quella che descrivo potrebbe essere (e forse lo è veramente) superficialità, ma quasi 2 ore di sagome infantili su sfondo bianco a mio parere non si prestano a rendere la visione interessante o coinvolgente, anche se straborda di autoralità e i disegni dei fondali trovano ogni tanto una bellezza maestosa in alcune belissime composizioni pittoriche ben amalgamate con colori saturi. Il marchio Ghibli delle animazioni sontuose e degli splendidi disegni è ben presente (non mancano neanche alcune sequenze registiche da meraviglia visiva, come ad esempio la lunga metafora iniziale del matrimonio e della vita di coppia di Takashi e Matsuko, rappresentata come una favola avventurosa piena di momenti emozionanti), ma la cifra estetica sperimentale è a mio parere determinante nel decretare la pesantezza della pellicola, il suo fallimento ai box office (nonostante il clamore evocato dal fatto che a co-produrre l'opera sia Nippon TV, rivale del quotidiano che pubblica il fumetto originale, l'Asahi Shinbun9) e soprattutto la parvenza - falsa, ma in questo caso estremamente convincente - di un prodotto infantilissimo, disegnato male e molto più pesante di quanto non sia comunque in realtà.
I miei vicini Yamada, come intuibile, rappresenta abbastanza chiaramente un classico esempio di film che si ama o si odia: il lavoro di Takahata è così particolare che si isola da solo, un hit or miss senza vie di mezzo. Dal canto mio, purtroppo mi inserisco nella categoria di chi lo trova interessante, originale e poetico ma, così impostato e progettato, sbagliato alla radice, difficilmente digeribile per la lentezza monolitica, la mancanza di un filo unitario che leghi le vicende e l'essenzialità estetica che stanca subito (sembra una boutade, e invece...!) gli occhi. Non fatico a immaginare come possa piacere moltissimo a buona parte della critica (e così sarà, dal momento che il lungometraggio vince un Animation Excellence Prize al Japan Media Arts Festival10), ai megafan del regista, ad alcuni di quelli che in generale adorano Studio Ghibli e a quel tipo di spettatori che hanno un animo abbastanza "artistico" per apprezzare titoli così calmi e lenti in cui non succede nulla (il fan tipico, ad esempio, di Aria the Animation), ma dal mio punto di vista, anche se ci sperava, Takahata doveva immaginarlo che una enorme fascia di pubblico non avrebbe digerito un'opera così difficile. I miei vicini Yamada, a seconda di come la si pensi, rappresenta o l'ennesimo capolavoro del regista o una delle sue poche delusioni, ma in ogni modo è un risultato che nulla toglie all'impronta davvero unica che solo lui riesce a dare alle sue opere.
In Italia, il film esce direttamente in home video per Lucky Red, saltando inevitabilmente (come successo anche a tutti gli altri Paesi del mondo in cui è arrivato) il passaggio nelle sale. L'opera è tradotta e adattata dal consueto Gualtiero Cannarsi, che come da suo standard fa "parlare in giapponese i doppiatori" garantendo una fedeltà assoluta ai dialoghi originali.
Voto: 6 su 10
FONTI
1 Guido Tavassi, "Storia dell'animazione giapponese", Tunuè, 2012, pag. 301
2 Come sopra, a pag. 300
3 Intervista a Isao Takahata pubblicata su Kappa Magazine n. 79 (Star Comics, 1999, pag. 16)
4 Vedere punto 1
5 Vedere punto 3
6 DVD/Blu-ray ufficiale di "I miei vicini Yamada", extra "I segreti di "I miei vicini Yamada"" (Lucky Red, 2016)
7 Vedere punto 1
8 Kappa Magazine n. 79, pag. 15
9 Come sopra
10 Vedere punto 1
5 commenti:
Ci vuole pazienza e forza di volontà per finirlo di vedere, ma alla fine mi ha lasciato una bella sensazione. La canzone finale sembra dare un senso a tutti quelli sketch scollegati che la precedono.
No, non sono d'accordo con te. Forse è anche questione dello stato d'animo con cui lo si vede, bisogna essere molto rilassati ed aperti alla riflessione. Prova a rivederlo, tra qualche anno, magari ti darà una diversa impressione.
Sono cosciente che è un'opera molto particolare che si può apprezzare o no, è solo che non ritengo di avere la sensibilità adatta per apprezzarlo, un po' come Aria the Animation, Totoro e altri film estremamente lenti e d'autore.
Ricordo sempre, ovviamente, che il mio voto è del tutto arbitrario, non è che "ho ragione" o "torto" quando lo dò, è del tutto ovvio che parlo per i miei gusti :)
Grazie del commento, e se puoi firmati con un nick così poi posso riconoscerti quando scrivi.
Hai ragione devo iniziare a firmarmi perché è un po' che bazzico qui da voi dato che trovo spesso spunti interessanti ed opere nuove.
Ad ogni modo concordo con te, è un film molto particolare.
Se dovessi dargli un voto, gliene darei uno più alto del tuo, certo, ma non saprei davvero quale con esattezza, è difficile da giudicare.
Enrico D.
Quando si parla di Studio Ghibli, il nome sulla bocca di tutti è quello Hayao Miyazaki. Questa fama enorme verso tale figura, finisce purtroppo con l'oscurare il co-fondatore dello studio non chè il suo esimio collega Takahata, che seppur abbia fatto per lo Studio solo 5 film in totale (Kaguya compreso), zitto zitto ha confezionato dei lavori ben più interessanti a quelli del suo più rinomato collega.
Se Miyazaki incassa un casino di soldi con i suoi film, Takahata finisce con lo sperperarli in opere dall'alto valore artistico, ma che finiscono con il floppare al botteghino.
La storia non esiste, sono una miriade di piccoli siparietti dall'esigua durata di 5 o 10 minuti incentrati sui membri della famiglia Yamada composta da Takashi il padre di famiglia, la moglie, i due figli, il maggiore Noboru e la piccola Nonoko, ed infine la nonna Shige.
Takahata confezione sicuramente il suo film più personale e sentito, sicuramente il punto di arrivo a cui mirava di giungere da tempo immemore, dopo racconti di impostazione neo-realista come i precedenti due capolavori Una Tomba per le Lucciole ed Only Yesterday, Takahata giunge a raccontare ciò a cui ambiva il quotidiano di una famiglia.
In questo film il regista ci parla delle piccole vicende quotidiane che l'individuo si ritrova ad affrontare nella vita.
Sono vicende banali, anti-adrenaliniche e abbastanza monotone che lo spettatore in cerca di ritmi più elevati, si tedierà ben presto nel seguirle, ma sono raccontate e narrate in modo tremendamente reale dal regista, perchè se uno ci pensa, nella stra-grande maggioranza dei giorni in cui viviamo non succede chissà che cosa di eclatante nelle nostre vite.
Il regista quindi si sofferma su piccoli avvenimenti, come un litigio tra marito e moglie per il controllo della TV, la prima cotta adolescenziale, il marito che giungendo stanco morto a casa pretende una cena sostanziosa e si trova come spesso accade ben poco da mettere sotto i denti o la nonna che insieme ad un'altra anziana cincischia in pettegolezzi. Certo dei piccoli scossoni nel nostro quotidiano possono esserci, come dimenticarsi la propria bambina al supermercato o una banda di motociclisti che la notte fanno casino non permettendoti di dormire, ma sono effimeri episodi destinati a restare isolati e quando li si affronta si è impreparati poichè disabituati ad essi a causa di una vita monotona e scandita sempre dagli stessi ritmi, salvo fantasticare dopo tali vicendi come si sarebbero risolte.
Quando si pensa allo studio Ghibli, si pensa alle sue favolose animazioni sgargianti ed ultra colorate con una fotografia atta a far risplendere con giochi di luci ed ombre la scena. Niente di tutto questo nel film, Takahata non ama la grafica pompata tipica dei film di Miyazaki, ma ha sempre scelto un approccio grafico essenziale quanto basta per rappresentare la vicenda. Non deve stupire quindi un'approccio grafico sperimentale in questo film, visto che è realizzato con l'ausilio della tavoletta grafica. I colori sono scarni e per lo più uniformati l'uno con l'altro nella medesima scena. Le animazioni sono spartane e minimaliste, con fondali anonimi e scarni, poichè Takahata vuole concentrarsi solo ed esclusivamente sull'individuo.
La regia segue di pari passo questa filosofia, con inquadrature statiche atte a ritrarre la semplice quotidianetà dell'esistenza umana, fatta di piccole cose ripetute e scandide giornalmente. La telecamera deve focalizzarsi sulle piccole cose, quindi ci ritroviamo inquadrature che restano fisse anche per interi minuti, poichè non se ne sente la necessità di muovere essa. Naturalmente il regista non lesina di concedersi qualche scena più visionaria scaturita dalle fantasie dei personaggi (come in Only Yestarday), accompagnata da semplici quanto facili da decifrare metafore che paragonano la vita di una famiglia a quella di un mare in tempesta.
Continua...
Come affrontare la vita e le varie vicende? beh...nel finale Takahatat ce lo dice, bisogna "Adattarsi" alle varie situazioni, non restando rigidi come un bastone di legno, ma flessibili come una spiga di grano.
Floppone di dimensioni galattiche al botteghino Giapponese, riuscendo a pareggiare a malapena i costi di produzione e capace di far bestemmiare Miyazaki, per tutti i soldi faticosamente racimolati con Principessa Mononoke, sicuramente non me la sento di biasimare il pubblico per il responso negativo, poichè questa volta Takhata ha fatto un film per compiacere con fare alquanto paraculico la critica. Un ottimo film, ma non un capolavoro, ma tutto sommato obbligatorio da vedere.
Voto 8.0
Posta un commento