martedì 30 novembre 2010

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lunedì 29 novembre 2010

Dossier sull'animazione robotica: Gli anni '90 di Imagawa e Anno (1990-1999)

DOSSIER SULL'ANIMAZIONE ROBOTICA: GLI ANNI '90 DI IMAGAWA E ANNO (1990-1999)

Ironicamente, il nuovo titolo di peso dei primi anni '90 non è una produzione animata, bensì videoludica. Esce il 20 aprile 1991 per Gameboy, nel solo Giappone, Super Robot Wars, il primo episodio di una sterminata saga di titoli che andranno a toccare ogni genere di console fino ad oggi, tutti sviluppati dalla software house Banpresto. Si tratta di Strategy-rpg che realizzano i sogni dei robofan, permettendo loro di comandare eserciti formati dai robottoni provenienti da ogni più disparata serie animata, da Toei Animation a Sunrise, da Tatsunoko ad Ashi Productions, nell'ottica di trame che incrociano i svariati universi narrativi e permettono di utilizzare i robottoni più popolari della Storia. È possibile, per un fan, usare in prima linea Super Robot come Mazinger Z, Baldios, Combattler V e Dancouga, insieme a unità come i Gundam, gli Scopedog di Votoms, gli Aura Battler di Dunbine etc: un vero Paese dei Balocchi. Unico smacco, purtroppo, almeno per i fan occidentali, è il suo problema di gestire un pazzesco numero di licenze, vedendo impossibile la distribuzione dei vari titoli in occidente. Bisogna menzionare questi giochi più che altro per i legami che avranno con l'industria animata, ad esempio rielaborando in modo migliore trame o di anime non irresistibili; mostrando per la prima volta mecha importanti che per motivi diversi sono stati scartati dalla loro opera di riferimento (ad esempio il Layzner Mark-II da Blue Comet SPT Layzner); o ancora, creando robottoni nuovi di zecca che, in virtù della loro popolarità tra i videogiocatori, potranno godere successivamente, in senso inverso, di un adattamento animato, ad esempio il super-Mazinga Mazinkaiser che appare nell'episodio F Final (1999) per SEGA Saturn, protagonista di un'omonima serie OVA del 2001, o i robottoni della linea temporale Original Generation, che vedranno svariati adattamenti televisivi nel primo decennio del nuovo millennio. Ma ci arriveremo. Il 22 maggio dello stesso anno è indispensabile aprire una finestra sulla seconda, storica serie OVA di Gundam di 13 episodi, Mobile Suit Gundam 0083: Stardust Memory; prequel di Z Gundam che non brilla tanto per particolari meriti narrativi (che eviterò di citare), quanto per battezzare il talento di due artisti grafici destinati a lasciare il segno. Parlo del chara designer Toshihiro Kawamoto e del mecha designer Hajime Katoki, autori di disegni dal dettaglio assoluto e sofisticatissimo, maestosi nella cura in ombreggiature e ogni genere di tecnicismi. I Gundam e le attrezzature tecnologiche non sono mai sembrati così realistici, sembra quasi di sentirne l'odore dell'olio. I due artisti saranno saranno destinati a carriere esaltanti: il primo a trovare consacrazione nell'aspetto grafico di Cowboy Bebop (1998) e Wolf's Rain (2003), il secondo a divenire star di immensa grandezza nel mondo dell'illustrazione, del toy design (delle numerose linee di plastic kit gundamici) e del mecha design delle serie tv del Mobile Suit bianco, legando presto il suo nome ai robot dal tasso estetico più impressionante di sempre. Entrambi torneranno a lavorare insieme nella terza serie OVA gundamica del 1996.

 L'irresistibile, sottovalutatissima saga di Patlabor (1989)

Il 1992 è un anno importantissimo, quello dell'inizio del mito di un nuovo regista imprescindibile, Yasuhiro Imagawa. Incaricato di dirigere, per il mercato OVA da parte di Mu Animation Studio, una trasposizione del manga Giant Robot (ricordate? Il secondo manga robotico della Storia dopo Tetsujin 28, sempre disegnato dallo stesso autore), per problemi di licenza che non è dato sapere finisce col non poterne usare i personaggi, se non il protagonista Daisaku Kurama e il robottone principale, il Giant Robot. Messosi allora in contatto direttamente con l'autore originale Mitsuteru Yokoyama e ottenuta la sua benedizione, Imagawa si guadagna l'insolita possibilità di poter usare, in compenso, tutti i personaggi che vuole delle altre opere del mangaka. Il 22 luglio è il giorno storico in cui esce il primo episodio di Giant Robot: in un futuro parallelo la scoperta dell'energia ecologica Sisma Drive permette alla Terra di vivere in un periodo di splendore. Peccato, però, che la pace sia minacciata da una lotta senza quartiere che avviene tra gli esper e gli esperti di arti marziali del gruppo segreto Big Fire, che anela al dominio del mondo, e dell'Organizzazione di Polizia Internazionale, nella quale milita il giovanissimo protagonista Daisaku Kurama, un ragazzo in grado di pilotare a distanza, con comandi vocali, il gigantesco Giant Robot. Quella di Giant Robot è una intricata avventura che porta Daisaku a maturare velocemente e a scoprire, lungo il suo dipanarsi, quali oscuri segreti risiedono nella scoperta del Sisma Drive. Parliamo di una produzione stellare, forte di un immenso budget che si riversa in animazioni degne di un film cinematografico e una colonna sonora suonata dall'Orchestra Filarmonica di Varsavia; un capolavoro narrativo e visionario (combattimenti e azione pieni di fantasia e ispirati alle coreografie del cinema wuxia) che rivela il talento del regista nel rielaborare completamente soggetti altrui, fondendoli con personaggi e situazioni di altre opere (in questo caso Babil Junior e Mars), mantenendone la fedeltà ai punti chiave e alle caratterizzazioni originarie ma, in compenso, "personalizzandoli" in storie complesse e intricate a livelli quasi inumani, dove mille domande trovano risposte che aprono a nuovi interrogativi, flashback si accavallano dentro altri flashback, viene gestito un numero spropositato di personaggi e la vicenda è narrata da svariati punti di vista... Intrecci fitti come ragnatele che necessiterebbero ipoteticamente di un taccuino su cui scrivere tutto per non perdere il filo del discorso, e abbelliti da chara e mecha design che richiamano il tratto essenziale e caricaturale del fumetto di riferimento, sono i tratti della filosofia che Imagawa erige nel 1992 e che mantiene inalterata in quasi tutte le sue successive rielaborazioni di classici del manga. Serializzato nell'arco di ben sette anni (1992-1998) per un totale di 7 lunghi episodi, Giant Robot è un sontuoso capolavoro oltre che una delle più famose e acclamate serie OVA della Storia. 

Un altro capolavoro del genere esce il 7 agosto 1993, anche se la definizione di "robotico" di sicuro non gli rende pienamente giustizia e anzi, gli sta un po' stretta. Trattasi di Patlabor 2: The Movie, fantastico lungometraggio cinematografico che chiude in animazione l'avventura dello staff Headgear, destinato a sciogliersi da lì a breve. Dopo le varie serie televisive e home video realizzate tra l'89 e il '92, Mamoru Oshii e Kazunori Ito decidono di mettere la parola fine al loro slice of life poliziesco e realizzano un film che fa la Storia, rendendoli acclamati ancor prima di Ghost in the Shell (1995). Connaturato da disegni di Akemi Takada abbastanza irriconoscibili, dalle fattezze estremamente adulte e orientali come mai si sono viste dal pennino dell'amata chara designer, e dalla totale assenza di umorismo nella storia, l'opera si configura come un complesso thriller politico, dove inedite atmosfere serissime condiscono un'indagine cervellotica del capitano Goto e della collega Shinobu Nagumo nei confronti di un piano sovversivo dell'ex colonnello Yukihito Tsuge che mira a mettere in ginocchio il Giappone con una ribellione delle forze armate. Posto idealmente in un futuro dove quasi tutti i componenti della Seconda Sezione Veicoli Speciali percorrono la loro strada, il lungometraggio, abbastanza curiosamente, li rende personaggi addirittura secondari, pronti a scendere in campo solo negli ultimi venti minuti di film. Buona parte dell'indagine è appunto affidata ai loro due superiori, gli unici rimasti al loro posto. Al di là di questo e delle atmosfere stravolte (elementi che denotano chiaramente come non si possa parlare di film rappresentativo del mondo di Patlabor), si parla di un'opera di altissimo livello, animata in modo straordinario da Production I.G e con una regia di Oshii che è un'opera d'arte, innamorata di intensi primi piani, sequenze magnetiche e una fotografia magistrale. Un mecha design strabiliante ed estremamente realistico, a opera di Shoji Kawamori e Hajime Katoki, chiude i conti regalando alla saga un finale cult.

Il 1994 si ricorda unicamente per il bizzarro e fracassone Mobile Fighter G Gundam televisivo, nato per avvicinare al marchio gundamico nuove generazioni di spettatori che non hanno preso parte alla lunga continuity dell'Era Spaziale, i cui titoli hanno imperversato per tutti gli Ottanta dimostrando di perdere sempre più ispirazione, riclando all'infinito le idee. A ridosso del 15esimo anniversario del franchise, per l'occasione Sunrise decide di provare nuove strade narrative e, in spregio ai fan tradizionalisti, con G Gundam realizza un assurdo quanto divertente divertissement action, inventando un torneo spaziale di arti marziali - probabilmente debitore del Torneo Tenkaichi di Dragon Ball - dove si affrontano, a rappresentare ogni Paese, i Gundam più improbabili e folkloristici di sempre. Il vincitore del torneo avrà così modo di regnare per quattro anni su tutte le altre colonie, almeno fino al Gundam Fight successivo. Nonostante l'assurda premessa di fondo e un budget inferiore al solito, G Gundam nel suo genere e per le sue mire funziona egregiamente, forte dell'inventiva registica di Yasuhiro Imagawa (assoldato in merito ai fasti del contemporaneo Giant Robot e dietro alla stesura principale del soggetto), di svariati Gundam Fighters carismatici, dell'accostamento tra mazzate robotiche, arti marziali e wuxia e, specialmente, del suo non prendersi minimamente sul serio. Di certo non si può parlare di chissà che pietra miliare del genere, ma non si può neanche negare l'originalità della storia e il gran coraggio della "reinterpretazione" del brand, capace di attirare critiche feroci dagli appassionati ortodossi ma anche di farsi ricordare come un alternate universe vincente e a suo modo di culto, tanto da conoscere svariati remake aprocrifi e con budget maggiori, che si concretizzano nel 2007 con Apo Mekhanes Theos Gigantic Formula e nel 2013 in Gundam Build Fighters.

 
Una delle più rinomate produzioni home video di tutti i tempi: Giant Robot (1991)

Il prossimo importantissimo esponente del genere nasce verso la fine del 1995, ma è giusto, prima di lui, fare un rapido accenno a una serie televisiva mediocre ma di grandissimo successo di pubblico come Mobile Suit Gundam Wing, il cui primo episodio è trasmesso il 7 aprile: trattasi del secondo alternate universe della saga, nato come il precedente G Gundam per cercare un nuovo pubblico. Si tratta di una serie abbastanza dimenticabile, rivolta in prevalenza a un target femminile di teenager, che, pur tornando alle atmosfere della saga classica, liquida il suo interessante spunto di partenza (cinque piloti di Gundam sostengono la causa di libertà delle loro colonie muovendo guerra solitaria alla Terra, amministrata con tirannia dal Governo Federale e dall'organizzazione segreta OZ) con caratterizzazioni inverosimili, colpi di scena più orientati allo spettacolo che alla plausibilità, retoriche pretenziose sul pacifismo ed eroi-bellocci plasmati su modelli fisici modaioli, spesso protagonisti di scenette che vorrebbero sottolineare ambigue frecciatine omosessuali. Una serie commerciale nel senso meno nobile del termine, anche per effetto delle due opening cantate dal popolare gruppo j-pop dei Two-Mix, a sottolineare una nuova collaborazione tra industria animata e musicale. Gundam Wing trova un successo modesto in Giappone ma addirittura fantasmagorico in America, il massimo mercato estero mondiale di animazione, rivelandosi uno dei grandi successi del decennio di Sunrise, contribuendo ironicamente, nonostante la sua effettiva qualità, a pubblicizzare e far conoscere la saga gundamica in toto nel mondo. Gundam Wing darà così il via a un merchandise di fumetti, romanzi e OVA collaterali che lo renderanno, fino al 2002, l'alternate universe più redditizio e conosciuto del franchise.

Al di là dell'immeritevole Gundam Wing, il 1995 è da ricordare principalmente per Neon Genesis Evangelion che inizia il 4 ottobre, storia di un ragazzo che, inserito nei ranghi militari insieme ad altre coetanee, deve combattere come loro, a bordo di gigantesche creature viventi chiamate Evangelion, dei misteriosi mostri provenienti dal Polo Sud, gli Angeli, che attaccano la Terra senza un apparente motivo. Divenuto un cult in ogni angolo del globo per la regia autoriale (di spiccata estetica cinematografica), le realistiche caratterizzazioni dei personaggi e i temi religiosi di cui è infarcito, il lavoro di Hideaki Anno e GAINAX è in verità, come ammette lo stesso regista, una parabola sul mondo degli otaku, degli hikikomori e dei disadattati schiavi dei propri hobby, rappresentati simbolicamente dall'alienato protagonista Shinji Ikari che, come loro, vive chiuso in se stesso come un riccio, non vuole integrarsi nel mondo adulto perchè non sa comprenderlo e ha paura di qualsiasi rapporto sociale. Si tratta di un'opera sofferta, scritta e diretta da un autore che è stato anche lui otaku-anime in giovinezza, e vorrebbe che la stessa cosa non si ripetesse per le nuove generazioni di spettatori. Creando un minestrone in cui convivono cabala, esoterismo, fantascienza, robot e psicanalisi in ogni dove e quando, nei 26 episodi della sua opera Anno vuole dare una svegliata a una categoria sociale che in Giappone costituisce una triste, concreta realtà, ammonendola nel non stare a perdere tempo a formulare migliaia di teorie e ragionamenti sulle storie di intrattenimento e finzione, dando loro più importanza di quanto dovrebbero, ma di uscire all'aria aperta e di sfruttare le proprie potenzialità intellettuali al servizio della società e di se stessi. Quella di Anno è una morale che è condensata perfettamente nei due celebri episodi conclusivi dell'opera, che a costo di lasciare sospesa la trama "terrena" giungono al nicciolo della questione rappresentando la maturazione di Shinji in un lungo dialogo interiore, al termine del quale riesce finalmente a integrarsi nel mondo. Un percorso di formazione già raccontato anni addietro da Yoshiyuki Tomino con Gundam e Z Gundam nelle vesti di Amuro Ray e Kamille Bidan (giusto per testimoniare la consueta filosofia citazionista/otaku di GAINAX), ma che in questa occasione riscuote interesse sopratutto per il MODO in cui è raccontato, non più esternamente ma interiormente, attraverso lunghe sessioni di dialoghi interiori, ricercate introspezioni psicologiche e allegorie grafiche. È un rivoluzionario modo di intendere le caratterizzazioni e raccontare una storia, il punto di arrivo della "Seconda Generazione di Registi" nata con Macross, che Evangelion e il successivo La rivoluzione di Utena (1997) inaugurano spalancando le porte a un nugolo di futuri registi, soggettisti e sceneggiatori altrettanto "cervellotici" e autoriali come Kunihiko Ikuhara, Yoshitoshi ABe, Chiaki J. Konaka etc. Viene da sè che il messaggio ultimo dell'opera non verrà recepito e, anzi, le pressioni dei fan spazientiti da un finale così "enigmatico" portano GAINAX e Anno a dare una conclusione anche al piano "fisico" della storia. Nascono, negli anni successivi, due film che hanno il compito di chiuderla, di cui il secondo, l'apocalittico The End of Evangelion (1997), altro non è che rielaborazione/remake del lungometraggio Be Invoked (1982) della vecchia serie tv Ideon, solo con una morale diversa. The End diventa così un ennesimo omaggio a Tomino, regista le cui opere hanno influenzato Anno e GAINAX fin dai tempi di GunBuster, e anche una nuova opportunità di incitare gli otaku a uscire dal loro guscio, con le sequenze finali che mostrano, in una originale commistione tra animazione e inserti-live, dei veri spettatori in un cinema che stanno a fantasticare sui risvolti del film: "Il potere dell'immaginazione è l'abilità di crearsi il proprio futuro, di costruirsi la propria crescita. Se le persone non agiranno secondo la propria volontà niente cambierà" (cit.). In un occidente, Italia compresa, dove le produzioni robotiche importanti sono raramente arrivate, e le poche che lo hanno fatto sono quasi sempre titoli degli anni '70, Neon Genesis Evangelion è salutato come il capolavoro rivoluzionario che cambia per sempre le regole dell'animazione robotica, rendendola adulta, matura e dalla continuity serrata: elogi che fanno dimenticare tutti i suoi predecessori che hanno inaugurato queste caratteristiche, ma anche il suo vero, unico messaggio, quello della parabola satirica sui disadattati. Una morale che, condivisibile o meno, non sarà - o non vorrà - mai essere accettata dai fan, significherebbe per loro mandare a monte anni di interpretazioni fantasiose e accettare di essere stati "presi in giro" dal regista. Da ricordare, inoltre, sia come Evangelion simboleggi come l'animazione televisiva inizi a rinnovarsi e a essere più libertaria, permettendo alle storie di abbracciare scene "scomode" o adulte tipiche delle produzioni OVA (assestando perciò al mercato degli anime home video un colpo fortissimo, il presagio a quella che sarà loro una lenta dissoluzione - ora in quei circuiti vengono prodotte solo serie pornografiche), e sia come contribuisca a coniare un nuovo incipit di partenza che verrà spesso ripreso da cloni vari, quello di ragazzi problematici ed emotivamente instabili usati come cavie dall'esercito, pur controvoglia, per affrontare creature provenienti da chissà dove a bordo di avanzati robot. Spesso e volentieri si legge che Evangelion avrebbe anche "battezzato" la nascita dello slot televisivo notturno adibito a trasmettere animazione adulta/impegnata, ma questa è una leggenda metropolitana visto che tali canali nascevano unicamente per  pubblicizzare gli OVA (effettivamente rivolti per la maggiore a un pubblico non certo giovane), e nacquero per pura coincidenza dopo la prima trasmissione di Evangelion, quella che fu un iniziale flop che di certo non poteva aver ispirato la cosa.

La serie OVA Mobile Suit Gundam: The 08th MS Team, il cui primo episodio esce il 25 gennaio 1996, si presenta come l'ennesima visione indispensabile della saga gundamica. Anche se questa prosegue con indifferenti serie televisive e mediocri alternate universe, nell'universo home video Sunrise continua a tenere in vita la timeline classica inaugurata da Yoshiyuki Tomino. Come War in the Pocket (1989), anche 08th MS Team (o Ottavo Plotone come viene chiamato in Italia) si configura come side-story della storica Guerra Di Un Anno, e quasi specularmente, invece di raccontare una storia d'amicizia, ne vuole narrare una d'amore, quella che nasce tra un ufficiale federale e una soldatessa nemica, sorella di un ammiraglio zeoniano che sta progettando una nuova, temibile arma capace di cambiare il corso della guerra. La tenera storia tra Shiro e Aina tocca le corde dell'animo grazie a dialoghi sopraffini, iterazioni realistiche e un raffinato gusto cinematografico in regia e inquadrature, per sottolineare magistralmente il loro amore soffocato e maledetto. Dodici episodi splendidamente scritti, toccanti e coinvolgenti, sorretti da un potente comparto tecnico e un memorabile quadro visivo, che vede ripetersi lo spettacolo di 0083 in disegni umani e meccanici splendidi, realistici e dettagliati in modo meticoloso, nuovamente frutto del talento di Toshihiro Kawamoto e Hajime Katoki. La bontà di questa serie, decisamente splendida, è offuscata giusto dalla drammatica morte del suo regista Takuyuki Kanda, a cui subentra, a partire dall'episodio 4, Umanosuke Iida, fatto che mette uno stop temporaneo al progetto ritardandone la conclusione di oltre un anno. Fortunatamente, il risultato è così felice da compensare pienamente il disagio.

I grandi miti di Evangelion (1995) 

The Vision of Escaflowne, nonostante un successo modesto in patria e un'opinione negativa da parte di chi scrive, ha potuto godere, nel mondo, di un'acclamazione, sia da pubblico che dalla critica,  troppo forte e unanime per poterlo ignorare, finendo a essere annoverato tra i BIG del decennio. Ideato da Sunrise e Shoji Kawamori, lo studio lo affida a Yasuhiro "Giant Robot" Imagawa per essere sviluppato. Il suo progetto è scartato e poi affidato al regista Kazuki Akane, che decide di trasformare l'opera in una storia per ragazze che si rifaccia all'estetica e agli stilemi dello shoujo manga. Il 2 aprile 1996 esce così il primo episodio di un robotico-fantasy animato con grandissimi mezzi, tratteggiato splendidamente dai colorati disegni di Nobuteru Yuki e forte delle tracce solenni dell'acclamata compositrice Yoko Kanno: Hitomi Kanzaki è una gioviale studentessa delle superiori, con l'hobby della lettura dei tarocchi e dotata di sopite capacità divinatorie. Finisce in una nuova dimensione, Gaia, legandosi al prode principe Van che ha appena conosciuto. Insieme alle sue predizioni, a Van e al gigantesco robot da guerra da lui guidato, Escaflowne, Hitomi vive così una lunga avventura: i due finiscono presto col guidare una ribellione contro il malvagio impero di Zaibach, che anela alla conquista di quelle terre. Difficile prendere sul serio un clone di Dunbine (anche alla luce dei suoi sviluppi, poi rimossi, visibili come extra nei dvd americani), che mescola dentro ogni genere di cose ma il cui vero focus si riconduce alle vicissitudini sentimentali di protagonisti abbastanza inverosimili, come giustamente da regola shoujo - infinite masturbazioni mentali sul chi ama chi, fraintendimenti, addirittura pentagoni (!) sentimentali -, evidentemente Escaflowne è acclamato per la sua caratura tecnica, grafica e musicale, davvero di altissimo livello per una produzione tv, per le fiabesche ambientazioni e gli eleganti robottoni, e per storie d'amore improbabili ma sicuramente apprezzabili dal loro target di riferimento. Il suo è un successone, perlopiù estero, che nel 2000 spiana la strada poi a un film (Escaflowne: The Movie), che rielabora da capo la storia.

Nel 1996 però la palma per la variazione sul tema più originale del genere non può che spettare alla serie di 26 episodi Mobile Battleship Nadesico, ideata dal mangaka Kia Asamiya e realizzata dallo studio XEBEC, che debutta su TV Tokyo l'1 ottobre, una piacevole space opera capace di coniugare comicità e dramma senza scadere nel ridicolo. Nel lontano 2196 la Terra si trova  in guerra col popolo extraterrestre delle Lucertole di Giove. Il giovane Akito Tenkawa, sfuggito alla distruzione della sua colonia marziana da parte degli alieni, si ritrova successivamente a lavorare come chef e pilota di Aestevali (unità robotica tipo) nell'equipaggio della ND-001 Nadesico, avveniristica nave da guerra della compagnia privata Nergal, legata al governo terrestre. Una serie televisiva, Nadesico, che offre un mix di generi mai visto prima: spigliata nei suoi elementi di romanticismo harem (l'eroe Akito, unico maschio della nave, è conteso da tutte le belle), comica nei frequentissimi, affettuosi omaggi visivi e concettuali a Corazzata Yamato, Macross, Gundam, al microcosmo otaku/cosplayer e alle produzioni robotiche degli anni '70 (con eroe che non si perde un solo episodio dell'anime immaginario Gekiganger 3, ulteriore reverenza a Getter Robot); addirittura drammatica nelle battaglie robotiche, nelle morti e nelle fasi salienti di storia. Nonostante un finale palesemente incompleto Nadesico è un "esperimento" bizzarro e riuscito, ben animato, splendidamente disegnato e forte anche di un'ottima soundtrack, considerato da molti come una delle grandi serie (non solo robotiche) del decennio. Nel 1998 trova seguito in Mobile Battleship Nadesico The Movie: Il principe delle tenebre, più o meno ingiudicabile vista la storia mancante di antefatto e conclusione, narrati in due videogiochi SEGA mai usciti fuori dal Giappone (meglio limitarsi alla serie tv). Appare curiosa la celebrità ottenuta dal "suo" Gekiganer 3, così elevata da portare addirittura XEBEC a tributargli un OVA celebrativo, sempre nel 1998.

Il 1997 si segnala per un'altra gran bella serie televisiva, King of Braves GaoGaiGar, ultimo esponente della saga Braves, iniziata il 3 febbraio 1990 con Brave Exkaiser e poi proseguita negli anni con altri sei titoli. Si tratta di serie tv, indipendenti l'una dall'altra, che riportano in auge, nei circuiti mainstream, il Super Robot tamarro, "ingenuo" e super-eroistico dei bei tempi che furono, adattandolo ai gusti correnti e, ovviamente, a un pubblico infantile, galvanizzato dai robot massicci ed estremizzati profusi da Kunio Okawara. Sono produzioni che nascono da una collaborazione tra studio Sunrise e l'azienda di giocattoli Takara, dopo che quest'ultima ha terminato la collaborazione internazionale con Hasbro per la prima, redditizia generazione di Transformers, e vuole lanciare una nuova linea di robot. GaoGaiGar, ottava e conclusiva serie che inizia l'1 febbraio, è decisamente uno dei Brave più riusciti, l'unico apprezzabilissimo sia dai piccoli che dai più grandi: ambientato nel 2005, narra delle battaglie tra i malvagi alieni-parassiti zonderian e l'organizzazione governativa GGG (Gutsy Geoid Guard), le cui forze belliche consistono nel protagonista-cyborg Guy Shishiō, il senziente leone meccanico Galeo e il bimbo alieno Mamoru Mamai, in grado di unirsi nel gigantesco, potentissimo robottone GaoGaiGar. Tra disegni che omaggiano il tratto anni '60 di Shotaro Ishinomori, tantissima azione, animazioni vigorose e una filosofia di fondo che fa degli agganciamenti, delle trasformazioni, dei colpi speciali e dell'esagerazione a ogni costo la sua bandiera, i 49 episodi che compongono la serie, scritta ironicamente proprio dal "Sovrano dei Real Robot" Ryousuke Takahashi, sono energici, divertenti e altamente spettacolari, davvero in grado di risvegliare l'animo di bambino di qualsiasi spettatore, compreso quello non avvezzo al genere o legato alla concezione robotica "seriosa" di Gundam e Macross. GaoGaiGar troverà un notevole successo, divenendo a suo modo un'opera cult e aprendo così la strada a uno spin-off televisivo horror, Betterman (1999), al seguito OVA GaoGaiGar FINAL (2005) e, infine, a una versione "riveduta e corretta" di FINAL con nuovi dialoghi, sequenze e inserti vari: Grand Glorious Gathering (2005), composto da 12 episodi televisivi.

Con GaoGaiGar (1997) tornano a splendere gli anni '70

Ci avviciniamo così alla fine del decennio, dove almeno quattro titoli la fanno da padrone e altri due, invece,  apportano variazioni significative. Questi ultimi debuttano entrambi nell'aprile 1998, il 6 e l'8, alla distanza di soli due giorni l'uno dall'altro: si tratta delle serie televisive Neoranga - L'arcana divinità del mare del sud, contributo al genere da parte del rinomato Studio Pierrot, re del majokko anni '80, e Brain Powerd, che segna, dopo molto tempo, la prima serie televisiva non-gundamica di Yoshiyuki Tomino. Neoranga ha l'ambizioso obiettivo di calare la realtà del Super Robot in un credibile scenario metropolitano: tre sorelle finiscono, previa eredità del loro fratello maggiore, a divenire regine dell'isola indonesiana di Barou, trovandosi a essere anche proprietarie del gigantesco Ranga, divino robottone senziente che protegge il posto. Decidono però di vivere a Tokyo, col "piccolo" problema che Ranga le segue in volo e si trova, così, a essere conosciuto dalla città. Si tratta di una storia bizzarra, che si regge sulla sola idea del robottone conosciuto dai cittadini e dalla politica, con le conseguenze sociali e militari che si possono intuire. Peccato sia abbastanza mal sviluppato e anche troppo lungo (48 episodi), facendosi ricordare solo come un'idea interessante ma mal resa. Brain Powerd invece è un Tomino elitario al massimo: serie tv di 26 episodi lenta, minimalista ed enigmatica, condita da atmosfere e sonorità new age di Yoko Kanno, con il mecha design "organico" di un ritrovato Mamoru Nagano. Dietro la trama fantascientifica (due organizzazioni si scontrano per il destino di Orphan, gigantesco vascello alieno senziente, inabissatosi e il cui risveglio porterebbe alla distruzione della Terra), l'autore sviluppa più riflessioni, sopratutto la sua più surreale trattazione mai vista sul tema della comunicazione. Brain Powerd avrà un successo ridottissimo, sia per la lentezza che per lo scomodo paragone fatto, spesso a sproposito, con Evangelion, ma, pur presentando difetti non sorvolabili (una certa incompiutezza di fondo), rimane abbastanza interessante, tanto che la sua trama "terrena" influenzerà notevolmente una serie cult del 2005.

Il 25 agosto 1998 esce il primo episodio della serie OVA di 13 puntate Change!! Shin Getter Robot: L'ultimo giorno del mondo, sviluppata dallo studio Brain's Base assoldato da Dynamic Planning, la società che gestisce i diritti di tutte le opere cartacee e animate dell'autore Go Nagai. Si tratta di una rielaborazione, fedele a personaggi e atmosfere, della straordinaria Getter Saga cartacea di Ken Ishikawa, capolavoro del fumetto robotico che fin dagli anni '70 introduce i primi super robottoni componibili e che, nelle sue varie saghe, esplora le potenzialità del genere fino alle sue più estreme conseguenze, mescolando le consuete invasioni extraterrestri e le battaglie di colossi d'acciaio con fantascienza pura, viaggi del tempo, atmosfere apocalittiche, morte e distruzione, Guerre Mondiali tra mecha e il tema dell'evoluzione che raggiunge gli apici più impensabili. È un fumetto esplosivo ed estremamente suggestivo che, nonostante l'argomento teoricamente "infantile", per i suoi protagonisti psicopatici e sanguinari, gli intermezzi horror e la truce violenza non ha mai trovato una trasposizione fedele al suo spirito, giusto abbozzato negli adattamenti super-eroistici televisivi Toei Animation iniziati nel 1974 con Getter Robot. Yasuhiro Imagawa, fresco del grande successo home video di Giant Robot, è pronto a replicarne i fasti, e, scatenato, scrive/dirige tre episodi di impressionante caratura, grondanti uno spropositato numero di colpi di scena, rivelazioni, flashback e azione incessante e indiavolata, nuovamente "incrociando" il fumetto con personaggi provienti da altre opere di Ishikawa (Majuu Sensen e Kyamou Senki). La trama è ardua anche solo da accennare: in un vicino futuro il defunto professor Saotome, scopritore dei raggi Getter che hanno contribuito alla prosperità della Terra e alla nascita del potente Getter Robot, torna in vita completamente impazzito. Alleatosi con una razza aliena viscidiforme, è alla guida di un gigantesco esercito di cloni di Getter Robot e mira, con essi, a distruggere l'umanità, come gesto di vendetta per la morte di sua figlia Michiru, avvenuta anni prima per mano, a suo giudizio, dei suoi ex allievi Ryoma e Hayato. Per distruggere i piani del loro ex amico, questi ultimi tornano alla guida del mecha originale, ma la feroce battaglia porta all'attivazione di potentissime armi di distruzione di massa. Sobillato da invasori alieni infiltrati, il Consiglio di Sicurezza dell'ONU tenta di annichilirle con una bomba a protoni, ma questo porterà, oltre a milioni di vittime, anche alla dispersione di radiazioni Getter su tutto il pianeta, con conseguente sconvolgimento di buona parte della superficie del pianeta... E si tratta solo del prologo! Cos'altro voglia dire l'autore non si saprà mai, perché, per motivi oscuri, è licenziato, rimosso dai credits e rimpiazzato da un altro staff che riprende in mano la storia. Forte di un budget nuovamente stratosferico, che si esprime in animazioni indelebili dalla fisicità possente e distruttiva, L'ultimo giorno del mondo celebra nel miglior modo il manga di Ishikawa, tributandogli finalmente il giusto riconoscimento, con personaggi violenti e scatenati al limite della pazzia, fiumi di sangue, intermezzi horror e scontri devastanti tra robot grandi quanto pianeti. Peccato solo per un certo caos narrativo: se alla fine, facendo attenzione, è sicuramente possibile dare senso al complicato intreccio dell'opera, dato dalla "fusione" di due sceneggiature diverse - e i successori di Imagawa non ne rinnegano lo stile "caotico", anzi si ingegnano a rendere la storia ulteriormente intricata -, risulta impossibile farlo con i svariati buchi di sceneggiatura lasciati in eredità dall'autore. Sono infatti presenti diversi interrogativi (morti che ritornano in vita, epidemie, dinosauri, tecnologie provienti da chissà dove, esplosioni di pianeti etc.) evocati da Imagawa a cui i vari sceneggiatori non sapranno dare spiegazione, visto che se ne è andato portandosi appresso la sua stessa sceneggiatura. Eppure L'ultimo giorno del mondo rimane, anche coi suoi problemi, una produzione di elevatissima qualità, ricca di grandi momenti e suggestioni registiche indimenticabili. Si tratta di un cult home video del tempo, tanto celebre da spianare la strada, negli anni successivi, ad altre due rielaborazioni OVA della Getter Saga, entrambe, però, deludenti (Shin Getter Robot contro Neo Getter Robot, del 2000, e Getter Robot Re-Model, 2004).

Il 4 ottobre, invece segna il ritorno televisivo di Ryousuke Takahashi nel genere, pronto a proporre una serie tv che raccolga l'eredità dei suoi classici war drama Dougram e Votoms. Il regista è pronto a chiudere il cerchio e, con i 26 episodi di Gasaraki prodotti dal solito Sunrise, adempie parzialmente allo scopo. "Parzialmente" poiché, come si legge nella recensione, il giudizio del recensore sulla qualità intrinseca della serie è tutt'altro che positivo, nonostante nel robotico il titolo è indubbiamente importante per le sue novità concettuali. Si parla di una produzione curata a livelli maniacali, rinomatissima dalla critica di tutto il mondo, ma davvero troppo, troppo "avanti" per far breccia sul grosso pubblico, ieri ma anche oggi. Il lavoro di Takahashi, ambientato nel periodo di un conflitto militare asiatico tra gli USA e il desertico stato del Belgistan, ispirato, come sempre dal regista, dalla Storia contemporanea (la Guerra del Golfo), vede due potenti costruttori d'armi, la famiglia dei Gowa e l'organizzazione Symbol, collaudare in guerra, per mezzo dei due eserciti in lotta, i Tactical Armor, avanzate unità robotiche dalle ampie capacità belliche. Il problema sorge quando i loro uomini, Yushiro e la bella Miharu, finiscono con l'incontrarsi, scoprendo di avere un tragico passato comune legato all'era feudale e al culto del dio Gasaraki: il legame tra ragazzi diverrà sempre più stretto, trovando ripercussioni nella rivalità tra le due fazioni e un tentativo di colpo di stato che sta per avvenire in Giappone. Storia capace di mescolare sapori antichi e moderni, fondendo riti sciamanici, complotti politici, considerazioni filosofiche sul ruolo dei valori nell'era moderna, intermezzi fantastici e puro thriller urbano, Gasaraki segna in animazione il punto di arrivo del Real Robot così tanto esplorato dall'autore, proponendo a tutti gli effetti quelli che si possono definire i robot più verosimili e credibili mai visti, i Tactical Armor. Ovvie evoluzioni dei Scopedog di Votoms, i TA sono armature robotiche bipedi alte due metri e mezzo, equipaggiate con i massimi ritrovati militari (fucili, mitragliatori, missili, radar, occhiali a raggi infrarossi e a rilevazione termica, mirini automatici) e dotate di uno speciale sistema di movimento che permette loro di correre e arrampicarsi. Sono macchine da guerra che vantano un aspetto meccanico dal realismo estremo, merito dell'accuratissimo e meticoloso mecha design del veterano Yutaka Izubuchi, e segnano anche l'apice della concezione del Real Robot, in quanto dopo questa serie sarà impossibile proporre robot e armamenti più credibili di questi. Fedele a questi intenti, Takahashi va però anche oltre: la sua filosofia del realismo estremo va a colpire anche il modo di raccontare la storia, coniando uno stile di direzione tutto suo che non verrà mai replicato da nessuno. Questa e le prossime storie similari del regista, infatti, si contraddistinguono per disegni adulti e verosimili, uno stile di regia secco, aridissimo e distaccato, dialoghi così meticolosi e reali che le divagazioni su terminologie militari o anche solo semplici dialoghi raggiungono una freddezza e un realismo mai replicati. Gasaraki segna non solo il trionfo della filosofia takahashiana, ma anche la sua totale unicità, una sparutissima sottocategoria dell'animazione dove cura estrema in interazioni dialogiche e background politici/militari danno una così fedele rappresentazione della realtà da rendere come lei, freddissima, la storia e i personaggi, spesso mere presenze sullo sfondo. Il realismo sovrasta tutto eliminando - ma questa è un'opinione strettamente personale - del tutto la magia del sense of wonder. Rimane una serie post-moderna e, in questo caso, anche rivoluzionaria, ma a un livello così avanzato che, più di qualsiasi altra produzione di Takahashi, è anche una mattonata memorabile, un lavoro difficilmente digeribile anche per chi aspetta una serie "affine" a Votoms.

 
Gasaraki (1998), la storica "fine" del Real Robot

Il 1999 è l'ultimo anno da prendere in esame. Il 2 aprile inizia, trasmesso su Fuji TV, quello che si può senz'altro definire l'ultimo lavoro degno di nota della carriera di Yoshiyuki Tomino, un vero trionfo di idee che fornisce una simbolica conclusione a quella lunga saga robotica che, volente o nolente, rappresenta per lui il massimo motivo di popolarità nel mondo. Dopo vent'anni spesi a dirigere controvoglia una serie gundamica dietro l'altra, il regista può finalmente realizzarne una voluta da lui, realizzata come vuole grazie alla carta bianca che gli è concessa da Sunrise per festeggiare il ventesimo anniversario del franchise. Gundam Called Turn "A" Gundam, o Turn A Gundam com'è comunemente conosciuto, è una serie televisiva di 50 episodi delicata ed estremamente personale, con un mecha design che abbandona del tutto le classiche fisionomie cool, sofisticate e minacciose, per abbracciare uno stile semplicistico, buffo e tondeggiante, a opera del concept artist Syd "Blade Runner" Mead, artifizio voluto dal regista affinché, come ai vecchi tempi, l'attenzione dello spettatore venga rivolta a storia e personaggi e non all'elemento robotico (ad attestare questa dichiarazione d'intenti, infatti, a livello di vendita di modellini, l'opera risulterà un pesante flop). Turn A Gundam è un Gundam che non ci si aspetta, privo dell'epica, persistente drammaticità del passato e  molto più solare e positivo, ambientato per la maggior parte della sua durata in ambientazioni montane, con mucche, pascoli, caverne sotterrane e case di contadini.  Dopo una lunga Età Oscura che ha distrutto il mondo e che tutti sembrano aver dimenticato, la Terra piomba in uno scenario regredito da ipotetico inizio 1900 (le prime automobili messe in commercio, differenza sociale marcata tra signori e operai, macchinari a vapore). Sottoterra, però, sono ancora custodite le macchine belliche dell'epoca precedente (i robottoni, appunto), strumenti che diventa necessario riesumare e utilizzare ora che il popolo della Luna, tecnologicamente più avanzato, vuole scontrarsi con i pacifici terrestri per emigrare sul pianeta. Protagonista è il lunare Loran Cehak, che si schiera inaspettatamente dalla parte dei terrestri e, forte del buffo ma temibile Turn A Gundam da lui rinvenuto, lotta per poter trovare una soluzione per appacificare le parti. Rielaborando il soggetto del vecchio, divertente Blue Gale Xabungle (1982), e trasformando le ambientazioni da western a montane, il regista e il suo sceneggiatore Ichirou Ohkouchi realizzano un vero concentrato di immaginazione e idee. Il Correct Century, la misteriosa linea temporale in cui è ambientata la storia, diventa un universo in cui fare confluire le timeline passate, presenti e future di tutte le opere gundamiche, compresi gli alternate universe creati da altri autori (∀ è il simbolo del quantificatore universale che indica tutti gli elementi di un insieme); un fantastico mosaico legato, come intuibile, proprio alla misteriosa Età Oscura che solo nel finale è svelata. Si parla di un'opera suggestiva, calata, come d'altronde è giusto, nella classica favola tominiana sulla comprensione tra razze e sui pericoli di un eccessivo progresso tecnologico, dove non mancano, come ai tempi di Z Gundam, un intreccio intricato e per nulla lineare (la vicenda è perennemente vissuta dal punto di vista di numerosi gruppi di personaggi), più e più fazioni in gioco, twist, totali cambi di scenario e un cast, se contiamo oltre ai protagonisti principali anche quelli secondari, immenso (una cinquantina di individui mediamente ben caratterizzati), ma stavolta ben gestito. Una lunga serie televisiva high budget, forte di animazioni cinematografiche e della solenne colonna sonora di Yoko Kanno, che chiude nel miglior modo possibile l'intera saga, il grande lascito da parte di un creatore che si riappacifica con il suo "figlio" tanto odiato. Se è pur vero che studio Sunrise non sarà d'accordo con la sua volontà, continuando a produrre nuove serie animate dell'incazzoso Mobile Suit bianco, bisogna proprio ammettere che l'opera si presta a essere perennemente posizionata, vista la sua filosofia "omnicomprensiva", dopo l'ultimo titolo: è davvero la fine della saga. Con questo lavoro Yoshiyuki Tomino trova l'apice della carriera, un ultimo gioiellino che attesta la sua importanza fondamentale del genere: dopo Turn A sarà destinato a realizzare opere semplici e disimpegnate che, pur simpatiche e talvolta gradevoli, non riusciranno a reggere il confronto con tutti i suoi cult realizzati nell'arco di trent'anni.

Verso la fine di quell'anno si arriva così all'ultimo grande esponente del decennio: il 13 ottobre è trasmesso il primo episodio del bel The Big O, destinato a trovare due stagioni per un totale di 26 episodi, sempre a opera dell'inossidabile Sunrise che in quel periodo è decisamente nel suo apice creativo. Qual è il mistero di Paradigm City? Perché tutti i suoi abitanti non hanno alcun ricordo di quanto accaduto quarant'anni prima? Cosa sono i giganteschi robot che sporadicamente appaiono in città mettendola a ferro e fuoco? Roger Smith, di professione negoziatore, con il suo lavoro si trova presto a indagarci, venendo a contatto con una realtà incredibile che cambierà per sempre la sua vita. Fortunatamente, a proteggerlo da chi intende tappargli la bocca, ci sono alleati fidati: Norman, maggiordomo tuttofare, Dorothy, ragazza cyborg dalla grande agilità, e il gigantesco, potentissimo robot da combattimento Big O. Creata dallo stesso regista Kazuyoshi Katayama, The Big O è un'originale serie televisiva capace di mescolare, in virtù della sua co-produzione internazionale (Sunrise e un colosso dell'intrattenimento americano come Cartoon Network), robottoni giganti e cupe atmosfere noir, mystery story e personalità psicopatiche di matrice nipponica, horror e gadget evveniristici alla 007, con disegni retrò e americanizzati che strizzano l'occhio al Batman animato della Warner Bros. Si parla di un pregevole thriller urbano, dove sono di scena i classici combattimenti robotici ma anche dark ladies, sparatorie, milionari depositari di sconvolgenti segreti, inserti cyberpunk (!) e sopratutto lente, fittissime indagini, pronte a tessere un mosaico estremamente complesso e cervellotico. Si tratta di una produzione autoriale, suggestiva e d'atmosfera, cadenzata da una regia evocativa, musiche epiche, corali e gregoriane e animazioni capaci di esplodere in una qualità cinematografica nei momenti action, ossia quando Roger Smith si mette a combattere in città col suo mastodontico Big O. Di certo stiamo parlando di un'opera non per tutti i gusti, con una vicenda così articolata da poter apparire confusionaria e un ritmo volutamente lentissimo che è apprezzabile come no; ma i grandi momenti di cui vive, sopratutto cinematografici, e la bellezza della storia bastano a renderlo un grande cult che chiude nel migliore dei modi gli anni '90.

venerdì 26 novembre 2010

Recensione: Il conte di Montecristo

IL CONTE DI MONTECRISTO
Titolo originale: Gankutsuou
Regia: Mahiro Maeda
Soggetto: (basato sul romanzo originale di Alexandre Dumas)
Sceneggiatura: Natsuko Takahashi, Tomohiro Yamashita
Character Design: Mahiro Maeda (originale), Hidenori Matsubara
Musiche: Koji Kasamatsu, Jean Jacques Burnel
Studio: GONZO
Formato: serie televisiva di 24 episodi (durata ep. 24 min. circa)
Anni di trasmissione: 2004 - 2005
Disponibilità: edizione italiana in dvd a cura di Yamato Video

 
Albert e Franz, figli delle famiglie aristocratiche che a Parigi presiedono i massimi vertici di potere, il giorno di Carnevale conoscono il raffinato conte di Montecristo. Quest'ultimo si stabilisce successivamente a vivere nella capitale e, grazie ad Albert, soggiogato dal suo carisma, conosce i loro familiari. Ognuno di loro ha avuto un peso più o meno diretto nel tragico passato del conte, che inizia così a tessere oscure trame per iniziare un'atroce vendetta... Cosa gli hanno fatto? Chi è il misterioso Edmond Dantès? Che ruolo hanno la misteriosa e bella Haydèe e l'arrogante Andrea Cavalcanti, sgherri del conte? Quale segreto si nasconde dietro la sua apparente immortalità?

A volte meritatamente, a volte no, GONZO si è costruito da un pezzo la fama di studio animato trash, fedele al suo imbarazzante nome. Buona parte delle critiche vertono sulle sue sceneggiature, ridicole o mal scritte (o entrambe le cose), ma sopratutto per il suo leggendario artifizio di utilizzare, come specchietto per le allodole, stili grafici particolarmente vivaci e avveniristici per distogliere l'attenzione da script non irresistibili. Gankutsuou, o Il conte di Montecristo, è una delle sue poche produzioni realmente riuscite, pur rimanendo un manifesto ideale della cura discontinua nei riguardi delle sue produzioni.

La storia, ovviamente derivativa dal famoso romanzo d'appendice, tratta della vendetta del conte di Montecristo verso le nobili famiglie che hanno complottato in passato contro di lui, e dei tentativi dell'eroe Albert - figura di contorno nel libro, nell'anime vero protagonista - di distaccarsi dal suo carisma magnetico. GONZO rilegge Dumas in chiave fantascientifica, con contorno di viaggi iperspaziali, astronavi, alieni e amenità varie e spostando la trama nell'anno 5053 (l'originale è invece ambientato nel 1815): consueta, sterile vanità dello studio dato che, a dispetto delle tecnologie modernissime e l'apparato sci-fi, i costumi e le architetture di Gankutsuou rimangono pienamente ottocentesche, con risultati un po' ridicoli. Ma il grande elemento di "inganno" di cui si accennava, più che nel background sci-fi, risiede invece nello stupefacente aspetto visivo, con il design semplice all'estremo del regista Mahiro Maeda che passa in secondo piano per merito della magia dei suoi "colori". Il mondo di Gankutsuou è magico, quasi sospeso tra realtà e sogno per effetto di capigliature e abiti dei personaggi cui sono applicati mille motivi (texture di photoshop) diversi, spesso complessi, in movimento autonomo che non segue quello delle animazioni. Un risultato che ipnotico capace di rievocare la pop art più epilettica nelle scene di azione, quando decine di motivi agiscono contemporaneamente.


Una genialata, tanto più avveniristica nelle prime puntate, quando si ammira lo sfarzo iniziale, quanto puerile quando, a serie inoltrata, GONZO decide di inserirne sempre meno, per evitare di perdere troppo tempo nell'inventarsi altri spettacoli strabilianti. Classica conferma dell'incoerente impegno profuso dallo studio (e infatti i costumi sgarzosi riappaiono nel loro splendore iniziale solo nelle ultime puntate, tanto per suggerire una ridicola sensazione di completezza), e stessa minestra per gli effetti CG, a volte dispensatori di fondali architettonici di grande suggestione, a volte usati malissimo al limite del pessimo. A parte questo, e senza tenere conto degli habituè GONZO, Gankutsuou rimane una piacevole serie, più o meno fedele alla sua fonte di ispirazione (pur con numerosi e inevitabili snellimenti di trama e un nuovo finale). Questo significa che la tormentata storia del conte catalizza l'attenzione grazie ai numerosi misteri dietro il suo concepimento, così come il morboso attaccamento di Albert verso di lui e le ovvie ripercussioni che ha questo con il suo amico d'infanzia Franz. Una tenebrosa storia di vendetta, comprensiva di atmosfere horror e riusciti intermezzi drammatici, pur leggermente dispersiva a metà/fine visione e con alcuni personaggi non certo memorabili (incredibile a dirsi, lo stesso protagonista Albert). È comunque una vicenda raccontata bene, coinvolgente al punto giusto, è il risultato è da premiare.

Dovute riserve al comparto musicale. Se la colonna sonora è decisamente buona, evocativa e in linea con le atmosfere decadenti della storia, sulle sigle è necessario aprire un discorso a parte. Quella d'apertura, We Were Lovers di Jean-Jacques Burnel, suonata al pianoforte e cantata in inglese, è uno splendore di poesia e melodia. La ending invece, You Won't See Me Coming, è tra le più fuori posto di sempre: trattasi di un brano di puro rock inserito così tanto per, il cui unico effetto è di distruggere completamente i climax, spesso drammatici e lirici, che chiudono l'episodio. Ending che riesce nel non invidiabile primato di assurgere a vero e proprio difetto. Concludono l'analisi, infine, le animazioni poco più che sufficienti, segno della povertà tecnica della serie. Sono comunque abbastanza irrilevanti in una storia che trova il suo punto di forze nelle atmosfere magiche evocate dall'originalissimo aspetto grafico. Al punto che, anche a fronte di indiscutibili difetti, Gankutsuou si prende un buon voto, addirittura ottimo se si pensa che è un'opera animata di GONZO.

Voto: 7 su 10

mercoledì 24 novembre 2010

Recensione: Le Chevalìer D'Eon

LE CHEVALIER D'ÈON
Titolo originale: ~Le Chevalier D'Èon~
Regia: Kazuhiro Furuhashi
Soggetto: Tow Ubukata (basato sul suo romanzo originale)
Sceneggiatura: Tow Ubukata, Yasuyuki Muto
Character Design: Tomomi Ozaki
Musiche: Michiru Oshima
Studio: Production I.G
Formato: serie televisiva di 24 episodi (durata ep. 24 min. circa)
Anni di trasmissione: 2006 - 2007
Disponibilità: edizione italiana in DVD a cura di Yamato Video

 
Francia, XVIII secolo. D’Eon de Beaumant, cavaliere alla corte di re Luigi XV, cerca vendetta per la morte della sorella Lia. Con l’aiuto del sovrano stesso, che gli mette a disposizione una squadra formata da due leggendari spadaccini, e dal giovane attendente del piccolo principe, D’Eon parte all’inseguimento del malvagio Voronzoff, ma subito capisce che c’è qualcosa di molto, molto strano… Lo spirito di Lia entra infatti nel suo corpo e ne controlla la volontà durante gli scontri più pericolosi, e altri enigmatici tasselli vengono presto portati alla luce. Sembra che in tutta Europa esistano persone dai singolari poteri che si fanno chiamare Poeti, in grado, recitando i cosiddetti Salmi, di prendere possesso delle menti altrui e di comandarne i corpi. Al centro di tutto questo, un antico manoscritto che tutti bramano…

Uno scenario insolito e suggestivo come quello della Francia pre-Rivoluzione; una lunga serie di cospirazioni che vede coinvolte anche le corone di Russia e Inghilterra, personaggi realmente esistiti come D’Eon de Beaumont, Luigi XV, il Conte di Saint-Germain, Maximilien de Robespierre e molti altri, che assorgono al ruolo di protagonisti, e soprattutto un complesso e curioso background orrorifico fatto di spaventosi poteri soprannaturali capaci di mutare le persone in feroci creature infernali. Ingredienti assai stimolanti, per questa produzione Production I.G 2006, tratta dal manga omonimo di Kiriko Yumeji e dal romanzo storico di Tow Ubukata, scritta da Yasunori Muto.

Opera colta ed elegante, Le Chavalìer D’Eon parte a razzo con una manciata di episodi travolgenti, ricchi di affascinanti duelli di spada e bizzarre intrusioni horror, capaci di spiazzare per l’improvvisa, cupa atmosfera che cala sulla storia. Se si può simbolicamente accettare lo spirito di Lia che entra nel corpo di D’Eon, prendendone possesso durante i duelli (il vero D’Eon fu creduto di sesso femminile per molti anni, e si parla di lui come il primo travestito della storia), non ci si aspetta di certo, per esempio, un teschio parlante o ancor più un assalto di zombie muggenti, e si rimane piacevolmente a bocca aperta per lo stile comunque sobrio con cui il soprannaturale prende gradualmente piede. L’ottima sceneggiatura è sapientemente calibrata, dosata con tocchi raffinati, si nota il gran lavoro per rappresentare con la giusta progressione i poteri dei Poeti e dei Salmi recitati. È davvero intrigante questo affresco orrorifico, dove le parole diventano più pericolose di una pistola e più taglienti di una lama, parole che si muovono nella realtà come fossero entità concrete, fruste che schioccano, serpenti che strisciano, artigli che letteralmente soffocano, accecano, uccidono.


Le Chevalìer D’Eon è una serie lenta, precisa, attenta, l’intreccio è denso e necessitava infatti del giusto spazio per essere narrato, lo studio dei particolari è meticoloso. Il crescendo della narrazione è costante, non sfocia nella prevedibile esplosione finale, ma rimane concentrato, scrupoloso, puntuale per tutti i 24 episodi, anche nei continui, imprevedibili colpi di scena che ben si assestano nella seconda metà. Il contesto storico è estremamente accurato, gli intrighi e i giochi politici sono calibrati al dettaglio tanto negli spunti realistici quanto nelle creazioni soprannaturali, e la mole di personaggi contribuisce alla resa credibile del quadro complessivo – personaggi che, a dirla tutta, soffrono a tratti di un’eccessiva freddezza, non si riesce mai a empatizzare completamente per loro, ma nonostante questo anche i semplici comprimari sono ben sfaccettati e tridimensionali, pregio non da poco.

A una sceneggiatura tanto metodica corrisponde una regia splendida, dinamica, movimentata. Inquadrature inusuali, carrellate rapidissime, zoom vorticosi, caratteristiche che risaltano soprattutto durante i frenetici duelli: brevi, magnifici piano sequenza, spesso visti in prima persona dagli occhi di uno degli spadaccini, in modo da offrire momenti, se possibile, ancora più energici, intensi e vivaci. Resta il neo di passaggi a volte eccessivamente bruschi, che scaraventano da una scena all’altra con esagerata violenza, ma si tratta di istanti isolati, facilmente assorbibili. Tanta sfarzosità narrativa e registica è accompagnata da disegni aggraziati, esaltati da una magnifica, sgargiante scelta dei colori, ma molto semplici, in particolar modo nei visi dei personaggi, forse troppo nitidi e lindi. Il tratto è però discontinuo, e se generalmente è molto buono, capita più di una volta di imbattersi in lineamenti realizzati in una maniera grossolana, direi quasi sgarbata (soprattutto D’Eon, il cui volto delicato e femminile vede spuntare a tratti un naso enorme e inappropriato). Anche le animazioni sono ahimè altalenanti: dalle scene orgamische dei duelli e delle scazzottate si arriva a camminate saltellanti, o eccessive, scattose fissità durante le lunghe sessioni di dialoghi. Altro punto in parte negativo è la costruzione in CG di molti fondali, oggettivamente bellissimi (la reggia di Versailles è da infarto), ma che stridono un po’ quando i personaggi vi camminano sopra.


Non si tratta comunque di difetti particolarmente fastidiosi, la potenza della storia, la rigorosità narrativa e lo splendore registico li cancellano presto, confezionando un’opera forse non perfetta – d’altronde quale opera lo è? – ma incantevole.

Voto: 8 su 10

lunedì 22 novembre 2010

Dossier sull'animazione robotica: Macross e i suoi successori (1980-1989)

DOSSIER SULL'ANIMAZIONE ROBOTICA: MACROSS E I SUOI SUCCESSORI (1980-1989)

Il 1980 si contraddistingue per due titoli importantissimi e fondamentali, ma prima di ogni altra cosa l'inizio del nuovo decennio è tristemente aperto, il 14 gennaio, dalla drammatica morte per epatite, a soli 43 anni, del regista Tadao Nagahama, che in un tale clima di rinnovamento avrebbe sicuramente potuto ancora dire la sua sull'argomento (i suoi fan hanno modo di consolarsi con  Space Emperor God Sigma, sempre classe '80, e Golion che esce nell'81, a opera di quello staff  Saburo Yatsude a cui è stato a capo fino alla fine). In quell'anno si può citare tra le opere sorvolabili ma originali L'indistruttibile robot Trider G7, spiritosa commedia Sunrise che rimpiazza l'appena concluso e fallimentare Mobile Suit Gundam su TV Asahi, e il cui plot vede la Terra minacciata dall'immancabile invasione aliena, l'Impero dei Robot. L'originalità è rappresentata dall'approccio nel raccontare il solito conflitto: protagonista è una ditta di trasporti spaziali, la Takeo General, incaricata di volta in volta dal governo di effettuare consegne a domicilio alle colonie spaziali col suo super-robottone Trider G7, nel contempo affrontando anche il nemico. In ogni episodio Trider G7 dovrà perciò fare il facchino in mezzo allo spazio, affrontare gli alieni cercando di non subire troppo danni (visto che la ditta è spesso in bolletta e acquistare ricambi al robottone costa!), e anche scongiurare gli intrighi di ditte concorrenti (!). Tra numerosi inserti di slice of life, atmosfere energiche e scanzonate e nessun accenno "serioso" alla guerra, la serie sa farsi apprezzare sia da bambini che adulti rivelandosi un concentrato di freschezza.

 Un capolavoro dimenticato dell'animazione: Ideon (1980)

Si diceva però di due capolavori fondamentali in quell'anno. Il primo di essi, che inizia l'8 maggio, è ancora una volta realizzato da Yoshiyuki Tomino, ed è un altro cult che di fatto attesta la caratura di Sunrise, ormai lo studio animato per eccellenza nel genere. È il momento di Space Runaway Ideon, secondo storico mecha dalle origini divine (il primo, come già detto, è Reideen the Brave, sempre loro). Il suo è lo stesso destino infausto di Gundam (la bassa vendita di modellini lo porta a essere ridotto a soli 39 episodi contro i canonici 50 previsti), ma rappresenta la prima serie a mescolare attivamente fantascienza, robotico e misticismo. Di Super Robot si tratta, e di un robottone tanto esteticamente brutto da risultare quasi kitsch: un ciclopico mecha rosso componibile, formato da un aereo e due camion, che per arma usa solo i suoi pugni e calci e che all'occorrenza può disintegrare pianeti interi con uno speciale cannone. Ideon è il mecha protagonista di una serie cupa e nichilista, con uno svolgimento costellato di morti tragiche, dove quasi tutti i personaggi, eroi compresi, sono estremamente credibili nella loro diffidenza e razzismo. La storia si basa su problemi di comunicazione e comprensione (temi che Tomino affronta, con mille varianti, in quasi tutte le sue opere) tra un gruppo di coloni terrestri e una bellicosa razza aliena, il Buff Clan. L'Ideon, un mecha dissotterrato dai coloni durante alcuni scavi archeologici, è la reincarnazione fisica di una divinità extraterrestre da cui discende tutto l'universo, l'Ide, e al contempo una potenziale bomba a scoppio capace di annichilirlo, nel caso dovesse valutare che l'umanità è violenta, crudele e indegna di esistere. Il Buff Clan tenta in tutti i modi di impossessarsi del suo idolo, al punto tale che ai terrestri non rimane altro che la fuga nello spazio, dove sono costretti a combattere per difendersi. Il prezzo da pagare, però, è il dare sfogo alla propria aggressività, influenzando negativamente il giudizio del dio. Cupa parabola sulle incomprensioni umane che portano a fraintendimenti, odio e morte, stroncando i buoni propositi dei pochi idealisti, Ideon è una serie filosofica e avveniristica, la cui idea del protagonista/bomba a orologeria capace di distruggere il mondo, pur non essendo la prima nel genere (tale primato spetta al manga del 1976 Mars di Mitsuteru Yokoyama, ancora non trasposto), influenzerà numerose produzioni successive. È una serie che entra nella Storia con i due lungometraggi successivi fatti per chiudere degnamente la trama, in particolare il secondo, l'impressionante The Ideon: Be Invoked (1982), che si ricorda per un finale truce, sconvolgente e apocalittico, tra i più tragici di sempre nonostante una nota speranzosa nell'epilogo, impossibile rivelare altro (pena rovinare la sorpresa).

L'altro culto del 1980 è invece Baldios il guerriero dello spazio, prodotto da Ashi Productions, che replica ancora una volta il destino delle grandi opere incomprese: anche lui per colpa del flop di ascolti (inserito nello stesso orario in cui il canale rivale Nihon Television trasmette pezzi da novanta come la seconda serie di Lupin III e poi Rocky Joe 2, raccoglie uno share minimo dell'1%) finisce interrotto a 32 episodi sui 39 inizialmente previsti (più altre due puntate mai trasmesse), salvo trovare, grazie alle richieste dei fan e delle riviste specializzate, un degno finale nel lungometraggio del 1981 prodotto da Toei Animation, Baldios: The Movie. L'antefatto vede il lontano pianeta S-1 ritrovarsi sull'orlo del disastro ambientale per colpa delle radiazioni provocate dalle guerre. Figlio di uno scienziato che ha trovato una cura per quelle terre, Marin Reigan assiste impotente all'uccisione di suo padre e alla distruzione delle sue ricerche da parte della fazione militare che prende il potere, comandata dal tirannico Zeo Gattler, finendo poi in un buco spazio-temporale che lo trasporta sulla Terra. All'indomani dell'apparizione delle armate di Gattler che vogliono colonizzare il pianeta, il giovane non potrà far altro che entrare nell'organizzazione militare terrestre dei Blue Fixer e pilotare in guerra il potente robot Baldios. Con i suoi impressionanti moniti ecologisti e antimilitaristi, uno sconvolgente impianto drammatico usato per esprimerli, storie d'amore maledette capaci di tenere inchiodata l'attenzione anche delle ragazze e una puntata finale di incredibile bellezza (nonostante il cliffhanger senza prosieguo -almeno fino a quando le due puntate finali saranno ripristinate nelle edizioni home video), la serie televisiva di Baldios si ricorda, nonostante il basso budget, nonostante la classica formula tokusatsu e nonostante svariate ingenuità di fondo figlie dell'epoca, come una gran bella serie, che splende di luce propria senza avere debiti quasi con nessuno. Baldios meriterebbe la citazione anche solo per l'incredibile, avveniristirca smitizzazione operata al robottone che dà il titolo alla serie, "tradimento" ancora più forte di quello di Tomino in Gundam, visto che il Baldios, tanto potente e temibile, è usato pochissimo in ogni episodio: focalizzando tutto l'interesse della narrazione su storia e personaggi, gli sceneggiatori della Ashi Production riducono al minimo indispensabile le sue apparizioni, ridotte quasi sempre a poco più di uno o due minuti a puntata, tanto più che in svariate occasioni neppure apparirà (!). Insieme a Gundam e Ideon, decisamente, un'altra opera che, nonostante il basso target di partenza, nei fatti è adulta come pochi altri, attestando il profondo cambiamento che sta avvenendo nel genere, evoluzione che nell'arco di dieci anni renderà indistinguibile gli ingenui, adorabili robottoni settantini da quelli delle nuove generazioni.

Il biennio 1981-82 si ricorda, come precedentemente citato, per l'uscita nei cinema giapponesi della trilogia cinematografica di Gundam. Tre lunghi film da due ore e mezza ciascuno (!) che riassumono l'intera serie televisiva originale spogliandola da tutte le sue ingenuità e migliorandola sotto ogni aspetto, visivo e narrativo. È la versione definitiva del capolavoro del 1979. La proiezione del primo film, il 22 febbraio 1981, è pubblicizzata a Shinjuku da una manifestazione voluta dalla stessa Sunrise, la "Proclamazione della nuova era dell’animazione" (anime shinseiki sengen), alla quale si presentano, sbalordendo lo stesso studio, addirittura 15.000 persone da un'età minima di 16 anni, molti di essi facendo cosplay. Su un palco appositamente allestito, un giovanissimo (21 anni) Mamoru Nagano (noto ai più come il futuro autore di The Five Star Stories), vestito dal carismatico villain Char Aznable, legge il proclama ufficiale: in esso sono ribadite tutte le innovazioni dell'opera che inaugurano un nuovo modo di intendere le produzioni animate, storie non più espressamente dedicate a un pubblico infantile ma anche depositarie di contenuti esplicitamente adulti, character driven e dalla continuity serratissima. Un evento storico, trasmesso nelle televisioni, che rassicura tutti gli spettatori adulti sulla non elitarietà di queste visioni, facendo di riflesso conoscere il Mobile Suit bianco a tutto il Giappone. È l'inizio della rivoluzione: manco a dirlo i tre lungometraggi riscuotono un successo commerciale epocale, portando poi alla replica della serie tv che tocca finalmente grossi indici di ascolto. Gundam e i successivi titoli Sunrise, basati sul suo stile, faranno quindi da spartiacque influenzando l'intera industria dell'intrattenimento, che non potrà far altro che adeguarsi ai nuovi canoni da loro inaugurati, in particolare l'abbandono dello stile di racconto "a episodi autoconclusivi". Vista l'estrema importanza che rivestiranno i grandi titoli Sunrise in questo decennio, capaci di dare battesimo a uno stuolo di opere e artisti dall'importanza e influenza fondamentali, è inevitabile che buona parte del dossier verterà perlopiù su di loro, non potendo far altro che trattare con velocità quei pochi robotici "tradizionali" e non autorale, da parte di altri studi d'animazione, che continueranno a vedere la luce. Toei Animation ad esempio proverà a riprendere le redini del genere con la trilogia rappresentata da Galaxy Cyclone Braiger-Galactic Gale Baxinger-Galactic Whirlwind Sasuraiger, tre serie televisive trasmesse tra l'81 e l'83 che, nel tentativo di differenziarsi dalla massa, proveranno ad abbandonare il classico schema di invasioni extraterrestri imbroccando la nuova via dell' "ibrido", mescolando sprazzi di robotico (l'immancabile robottone che nel finale affronta quello nemico) con storie dalle tematiche e dall'azione prevalentemente di matrice occidentale, spesso team di ranger/tutori dell'ordine/professionisti che devono combattere in ogni episodio la criminalità e mantenere l'ordine nel mondo (o nell'universo) con tutti i mezzi. Questa trilogia, accumunata dai soggetti di Yu Yamamoto, è composta da titoli che, nonostante il loro successo di pubblico, sono più o meno dimenticabili, interessati a strizzare l'occhio ai bambini che stanno vivendo proprio ora, nel periodo "bubble", quell'omologazione giapponese dei costumi americani. Verranno alla luce diversi altri cloni (per esempio Super High Speed Galvion, Mission Outer Space Srungle e Star Musketeer Bismarck, questi ultimi due conosciuti in Italia come Capitan Gorilla e Sceriffi delle stelle), ma nulla di memorabile. Per quel che riguarda invece le classicissime serie Super Robotiche con invasori e Fortezza delle scienze, queste proseguiranno senza picchi (principalmente i nuovi titoli di Saburo Yatsude) fino al 1985, anno di uscita dell'esponente conclusivo del genere, Dancouga.

 Il tragico, sfortunatissimo Baldios (1980) 

Tornando a parlare di Sunrise, è il 23 ottobre 1981 che vede la luce su TV Tokyo la nuova opera fondamentale della loro scuderia, un titolo che marchia nella Storia il talento di un nuovo regista importantissimo: è l'anno di Ryousuke Takahashi e dei 75 memorabili episodi del suo Fang of the Sun Dougram. Il pianeta Deloyer, colonia della Federazione Terrestre, vuole l'indipendenza, ma in tutta risposta si ritrova occupato dall'esercito e posto sotto il controllo di un governo fantoccio. Il protagonista Crinn Cashin, figlio del governatore terrestre di Deloyer, si unisce ai ribelli per prendere parte alla guerriglia civile, trovandosi presto alla guida del prototipo Dougram costruito dagli insorti. Dougram è storicamente il primo, vero "figlio" di Gundam, spinto dal capolavoro di Tomino a raccontare una nuova guerra civile che presenta robottoni nuovamente prodotti in serie e dove gli episodi autoconclusivi spariscono ancora una volta del tutto per favorire una continuity serrata. Si torna anche allo schema "Super mascherato da Real", in cui il Dougram è invincibile e solo i mezzi avversari sono davvero realistici, ma il robottone protagonista è "smitizzato" come mai si è visto prima d'ora, spesso a corto di munizioni e fortemente dipendente dall'entusiasmo del suo pilota, che in più di un'occasione si ritrova così malconcio, come armamenti o carburante, da essere inutilizzabile o addirittura costretto a fuggire via dal campo di battaglia. Con Dougram, Ryousuke Takahashi fa conoscere a tutto l'ambiente il suo talento unico nel tratteggiare storie dai background militari/politici/geografici curati a livelli maniacali (non per nulla le uniche opere animate paragonabili alle sue sono le trasposizioni dei romanzi di Yoshiki Tanaka, Legend of the Galactic Heroes in testa), dove una regia distaccata, dialoghi profondi e filosofici, caratterizzazioni complesse e situazioni estremamente realistiche fanno respirare forti echi di quella Storia contemporanea a cui si ispira (in questo caso il pianeta Deloyeran è un Paese dell'America Latina che vuole emanciparsi dal giogo statunitense - l'immaginario stato di Medoul - durante la Guerra Fredda, e in esso si respirano atmosfere, anche per merito di divise, motivetti militari etc, di guerre civili spagnole e cubane). Il totale realismo di fondo in strategie di guerra, implicazioni del conflitto (economiche, politiche e sociali) e disegno dei personaggi (che siano eroi od odiose spie o tiranni) proietta meritatamente Dougram nell'Olimpo dei capolavori come prima storia robotica ambientata in un contesto narrativo realistico ed estremamente attendibile. Quella del regista è la volontà di "documentare" la guerra invece di "narrarla" in modo spettacolare, tanto che addirittura buona parte delle immancabili schermaglie tra il Dougram e i Soltic nemici avvengono sempre giusto negli ultimi tre minuti di episodio (come in Baldios), giusto per fornire l'obbligatorio contentino mecha  a Sunrise e sponsor. Non c'è infatti da stupirsi come il film che riassume Dougram e che esce nel 1983, Dougram: A Documentary of the Fang of the Sun, ad attestato della filosofia del regista si presta a riepilogare, come da titolo, il conflitto come un vero e proprio documentario in b/n, che ne riassume le fasi principali tramite una voce narrante in terza persona.

Il 13 marzo 1982, in piena trasmissione di Dougram, esce nei cinema il terzo lungometraggio riassuntivo di Gundam, Incontro nello spazio, ennesimo successone. Vista la totale, straordinaria riabilitazione del titolo, Sunrise inizia a realizzare le potenzialità commerciali dell'opera e decide così di darle un sontuoso seguito, che possa sfruttare le migliori tecnologie e animazioni del tempo nell'ottica di un kolossal televisivo. Deve però addestrare a tal proposito uno staff degno di questo obiettivo: ha numerosi artisti, sceneggiatori e animatori promettenti, che necessitano però di farsi le ossa in un mondo nuovo e in continua evoluzione come quello dell'animazione. È da queste premesse che tra l'81 e l'85, anno in cui esce finalmente l'agognato sequel, lo studio fa girare al regista Yoshiyuki Tomino e ai suoi uomini tre lunghe produzioni televisive per prepararli ad adempiere a tali ambizioni. Si tratta di serie chiaramente fatte "tanto per fare", senza intrecci particolarmente elaborati, ma che hanno la fortuna di risolversi in due ottimi titoli e solo uno mediocre, tutti particolarmente importanti . Il primo a uscire, il 6 febbraio 1982, è l'irresistibile Blu Gale Xabungle. Un western-fantascientifico di 50 episodi che, raccogliendo l'eredità di Daitarn 3, si propone come serie allegra e divertente, colma di prese in giro ai nuovi stereotipi dell'animazione robotica televisiva, pur non priva di un soggetto coinvolgente. Nel pianeta Zola spiccano due classi sociali: i Civilian, poveracci regrediti che vivono nell'ignoranza, e gli Innocent, potenti conoscitori delle antiche arti scientifiche e tecnologiche di un tempo ormai dimenticato, che comandano sui primi negando loro ogni tipo di conoscenza. Il vivacissimo protagonista cowboy Jiron Amos, preso possesso di una macchina da guerra, lo Xabungle appunto, e desideroso di vendicare la sua famiglia uccisa dal killer Timp, nella sua caccia finisce col girovagare per il mondo, unendosi a un gruppo di commercianti e fuorilegge e costringendoli tutti ad unirsi a lui nella sua guerra personale, che finisce presto con l'estendersi a un target ben più grande, gli stessi Innocent, rivelando la dimenticata origine dell'ordine sociale del pianeta. Quella di Xabungle è una storia che, nonostante la sua estrema semplicità e lentezza, basata quasi interamente su azione e lunghe battaglie, può vantarsi di un cast carismatico e divertente, protagonista di gag e tormentoni che a tutt'oggi riescono a strappare la risata rivelando la grande modernità del titolo. Non trascurabili neppure gli sviluppi narrativi, con le loro fasi finali che si rivelano molto suggestive quando i vari misteri iniziano ad avere una loro risposta. Bella serie insomma, che attesta come il regista Yoshiyuki Tomino sia a suo agio sia nelle storie più cupe e tragiche che in quelle spensierate. Da notare anche tre importanti innovazioni che Xabungle apporta al genere: la presenza di ben due modelli identici dello stesso robottone protagonista, lo Xabungle, guidati contemporaneamente da Jiron e da un suo compagno; il primo esempio di vascello mobile guidato dagli eroi che può trasformarsi in un gigantesco robottone, l'Iron Gear; e infine - e questa è l'innovazione più importante che verrà usata poi nella pressoché totalità dei robotici Sunrise - il rimpiazzo, a metà serie, del robottone protagonista con un nuovo modello più evoluto e potente, che ne prende ufficialmente il posto.

Il secondo titolo Sunrise/Tomino esce nel 1983, ma passa decisamente in secondo piano, per importanza, rispetto al cult fondamentale del 3 ottobre 1982, ovvero il secondo, epocale anime robotico che rivoluziona per sempre il genere: Fortezza super dimensionale Macross. Il relitto di una gigantesca nave aliena schiantatasi sull'isolotto di Sud Ataria, il Macross, viene lentamente ricostruito dai terrestri, e dopo dieci anni di riparazioni è pronto a essere collaudato. Peccato che la sua riattivazione non solo richiami sul pianeta una bellicosa razza di alieni, gli zentradi, ma teletrasporti pure la nave nei dintorni di Plutone insieme a tutti gli abitanti dell'isola. Inizia così, per loro, un lungo viaggio di ritorno verso la Terra, frammentato dai frequenti scontri con gli alieni che si incrociano con storie d'amore dell'eroe Hikaru Ichijo e misteri sul legame tra terrestri e zentradi. Creato da Studio Nue e dal suo membro Shoji Kawamori, ma animato in collaborazione con Anime Friend grazie all'imponente budget profuso dai produttori Tatsunoko e Big West, Macross è un originale mix di fantascienza robotica, romanticismo e musica, è la prima serie animata i cui tratti principali sono delineati da una nuova generazione di registi (la cosidetta "Seconda") che hanno maturano la loro esperienza e competenza non dal mondo del cinema ma da quello della stessa animazione, con cui sono cresciuti fin da piccoli e di cui conoscono i meccanismi. Shoji Kawamori e il regista Noboru Ishiguro hanno ben capito come pensi e cosa voglia il pubblico odierno: disegni non necessariamente realistici ma attraenti, occhi sbrilluccicosi, capigliature che vantano sfumature di colori riflessi, robot sfavillanti e pieni di dettagli sofisticati, orecchiabili stacchetti musicali, scene che mettano letteralmente a nudo le avvenenti e bellissime ragazze che gravitano intorno all'eroe... In Macross c'è questo e anche di più, partendo dal sensuale e caldo tratto dell'esordiente Haruhiko Mikimoto per arrivare alle splendide unità robotiche Valkyrie e ai numerosi inserti j-pop cantati da Mari Iijima, doppiattrice della cantante Lynn Minmay che grazie a questo ruolo è la prima idol a sbocciare attraverso l'industria animata. Kawamori e Studio Nue catturano l'attenzione del pubblico offrendo triangoli amorosi (tra l'eroe-pilota Hikaru Ichijyo, il suo superiore Misa Hayase e la già citata Minmay), battaglie galvanizzanti e animate in modo magistrale, mecha che si transformano in una versione umanoide attraverso una sequenza sofisticata che farò scuola, scene ecchi. Non manca neppure l'originalità di un eroe che è un semplice pilota di un normalissimo Valkyrie, non più quindi il principale salvatore della patria ma un semplice soldato, il cui contributo alla guerra vale tanto quanto quello dei suoi compagni. Varietà, questa, che garantisce a Macross una visione gratificante, anche a dispetto di cattivi abbastanza piatti e una sceneggiatura un po' dispersiva e in alcuni punti sconclusionata, più che altro per la volontà di allungare il brodo regalando alla storia altre nove episodi dopo i 27 previsti, immancabilmente mediocri e svogliati. La "ricetta Macross", basata sul rendere brillante ogni singolo aspetto grafico/tecnico di un anime per appagare i sensi del pubblico (gli embrioni del moderno concetto di fanservice), è salutata trionfalmente dal pubblico con la coniazione della parola "otaku" (per indicare i fan "fissati" morbosamente su una propria passione, in questo caso anime), ma solo dopo diversi anni anche recepita dall'industria. Rimane un calcio di inizio di tutto rispetto, che, anche se non subito compreso, ha il merito di far entrare nella Storia il nome di Shoji Kawamori, destinato, con i suoi spettacolari caccia militari-robotici Valkyrie, palesemente ispirati al Grumman F14 Tomcat,  a diventare una figura di primissimo piano tra i mecha designer, trovando poi una carriera carica di soddisfazioni sia in questo campo che in quello registico.

 Dougram (1981), l'indimenticabile ingresso di Ryousuke Takahashi nel firmamento animato

Il 1983 è culla di almeno tre titoli molto importanti, tutti e tre a opera dell'ormai immancabile studio Sunrise. Per il primo di essi si torna alle produzioni concepite per "addestrare" lo staff di Yoshiyuki Tomino. In quel periodo il regista ha appena iniziato a scrivere The Wings of Rean, il primo romanzo di quello che sarà un lungo ciclo letterario fantasy (24 volumi!) ambientato nel mistico mondo di Byston Well. Lo studio lo convince a rielaborarlo in animazione, aggiungendo come di consueto i mecha per compiacere il produttore Clover e trasformarlo in una produzione robotica. Il 5 febbraio 1983 viene trasmesso Aura Battler Dunbine, a rappresentare la prima, storica commistione tra mondi fantasy e robot. Il protagonista, Sho Zama, finisce a Byston Well e affronta, alleandosi ai ribelli capitanati da Nie Givun, il malvagio impero di re Drake che anela al dominio, forte delle avanzate conoscenze militari e tecnologiche portate sul pianeta da un altro terrestre, Shott Weapon. L'elemento robotico (impreziosito da un "bestiale" mecha design a cui prende parte il futuro grande artista Yutaka Izubuchi) risiede negli aura battler, insettoni alti 7 metri, assemblati con inserti organici e usati come unità di combattimento, la cui potenza fisica e magica deriva dalla forza spirituale di chi li pilota. Nonostante l'ottima fama di cui gode, Dunbine è, a mio parere, tendenzialmente troppo lento e scritto in molto altalenante nei suoi 49 episodi per dirsi completamente riuscito, ma ha dalla sua ottimi personaggi, riuscite parentesi sentimentali e un fortissimo, sentito messaggio contro la guerra e il progresso tecnologico: non c'è speranza di risolvere i conflitti sociali o salvaguardare le tradizioni del proprio Paese se si scelgono le tecnologie, strumenti freddi, impersonali e amorali che possono solo accrescere incomprensioni e distruggere identità dei luoghi. Lo ricorda allo spettatore il finale più crudele e tragico che il regista abbia mai filmato, di una potenza espressiva tale da meritare da sola la visione dell'intera serie. Per dovere di cronaca, Tomino e Sunrise torneranno anni dopo a esplorare il mondo di Byston Well con altre produzioni animate, ma di queste meno se ne parla, meglio è.

L'1 aprile torna invece nei palinsesti televisivi Ryousuke Takahashi, creando un'opera di culto che diventa di sicuro la più famosa e rappresentativa della carriera e della sua filosofia votata al realismo: Armored Trooper Votoms, il primo Real Robot veramente completo della Storia. In quest'opera abbiamo di nuovo un intreccio costruito su un poderoso background militare e forti influenze di Storia contemporanea (la guerra del Vietnam vissuta nell'arco narrativo del pianeta Kummen), ma nel genere viene compiuto un passo in avanti fondamentale: sparisce per la prima e unica volta il robottone protagonista. Le unità robotiche del mondo di Votoms, i verdissimi Scopedog, robot bipedi monoposto paragonabili a carri armati umanoidi, sono sì dotati di armi belliche notevoli, ma non hanno nulla di invincibile e possono essere distrutti anche da un banale colpo di arma da fuoco (come dimostra lo spin-off Armor Hunter Mellowlink scritto dallo stesso Takahashi nel 1988, dove il protagonista non usa nessun robot e anzi abbatte quelli nemici con tattiche di guerriglia, a mani nude). Inseguito dai sicari di due eserciti e dall'Organizzazione Segreta nata in seno ad entrambi per aver visto scoperto segreto militare, lo stoico eroe Chirico Cuvie avrà modo di pilotare un gran numero di unità, essendo giustamente armi prodotte in massa dall'esercito. Eccolo quindi vivere alla giornata in ogni episodio, cercando indizi per capire come sopravvivere e indagando sui misteriosi esperimenti militari e le finalità dell'Organizzazione, ed eccolo usare il primo Scopedog che gli capita di trovare per affrontare i suoi inseguitori o spostarsi da un luogo all'altro. Appena svolto il compito o persa l'unità (che può facilmente venire distrutta negli scontri), Chirico andrà subito a rimediarne un'altra, prima che i nemici lo trovino di nuovo. Si può quasi dire che il robotico non è più il genere principale, ma solo il condimento di quello che è in verità un lungo e complesso thriller militare di ambientazione fantascientifica. L'importanza di Votoms è palese, eppure è proprio il suo estremo realismo - corroborato da una regia nuovamente distaccata e dialoghi così fitti e meticolosi da trasmettere una certa freddezza - l'elemento capace di distruggere alla radice la filosofia su cui si basa il genere, spogliandolo di ogni residua connotazione epica o eroica, da ogni sense of wonder. Con Votoms e lavori successivi, infatti, Ryousuke Takahashi si guadagna l'appellativo di "sovrano del Real Robot" in primis per l'assenza di altri contendenti, l'unico regista a seguire un trend votato simbolicamente alla de-sacralizzazione del genere. Si tratta comunque di una serie, eretica o meno, eccezionale, estremamente autorale e animata/disegnata magistralmente nelle sue 52 puntate, degna dei fasti di Dougram, e che si evolverà negli anni successivi, come Gundam, in un lungo franchise di OVA che perdura tutt'oggi, che amplia notevolmente la sua storia.

Il 21 ottobre 1983, ancora una volta, Tomino - ma questa volta alla sola voce del soggetto - dice la sua con un altro titolo curioso e avveniristico, Round Vernian Vifam, a opera del regista Takeyuki Kanda, che, pur non raggiungendo mai la fama del suo blasonato collega e di Ryousuke Takahashi, è dietro buona parte delle varianti più originali del genere. Questa serie televisiva di 46 episodi rappresenta un esperimento curioso, quello di presentare l'immancabile conflitto - come ai vecchi tempi, la guerra tra la Federazione Terrestre e una minacciosa popolazione aliena - dal punto di vista di semplici bambini, che si trovano a sopravvivere da soli senza alcuna presenza adulta che li aiuti. È la storia di 11 ragazzi, di età poco più che scolare, il cui pianeta-colonia Creado diventa il campo di battaglia da cui si propagano poi le fiamme del conflitto. Riunitosi da soli sull'astronave Janus, iniziano una lunga odissea spaziale per provare a rintracciare i loro genitori, cercando al contempo di resistere agli attacchi nemici, auto-governandosi e imparando timidamente a manovrare i robot da guerra - i Round Vernian - per aumentare le speranze di sopravvivenza. Una serie, si diceva, molto particolare e ambiziosa, che vuole, ancor più di Gundam, tracciare un percorso di maturazione rivolgendolo questa volta a teneri bambini, che imparano molto prima del tempo lezioni importanti come prendersi le responsabilità per i propri errori e pensare agli altri nei momenti di difficoltà, o addirittura a iniziare a scoprire timidamente la propria sessualità. Robot che necessitano di oltre quindici episodi prima di essere utilizzati la prima volta, schermaglie robotiche ridotte al minimo sindacale (al punto che per interi episodi è possibile non ve ne sia neanche una), realistiche iterazioni e reazioni psicologiche e una splendida imprevedibilità della storia sono elementi di grande interesse che accrescono il valore dell'opera; caratterizzazioni interessanti, simpatiche e sensate a cui affezionarsi, nonostante l'età bassissima del cast, anche di più. Peccato per pochi ma decisi svarioni di credibilità nei momenti chiave che, se non gettano alle ortiche il tutto, quantomeno ridimensionano significativamente le ambizioni dell'opera, che si rivela così un semplice, piacevole precursore, non perfettamente riuscito, del capolavoro Infinite Ryvius (1999), che pur parlando dello stesso argomento evita parentesi robotiche e, pertanto, esula da questa trattazione.

L'avvento della "Seconda generazione di registi": Macross (1982)

La terza opera di preparazione per Yoshiyuki Tomino, l'ultima in attesa del sequel di Gundam, debutta su Nagoya Broadcasting Network il 4 febbraio 1984 e si merita un notevole approfondimento, pur a fronte di una qualità non certo elevata. Si parla di Heavy Metal L-Gaim, lunga serie di 54 episodi scritta e disegnata da Mamoru Nagano, il Char Aznable della "Proclamazione della nuova era dell’animazione" e futuro scrittore di The Five Star Stories, il più importante e acclamato manga sci-fi/fantasy mai partorito dal fumetto giapponese. Questo manga, che nell'arco dei suoi 12 densi volumi racconta i fatti salienti della Galassia Joker, lungo un arco immaginario di ben 20.000 anni (!), rappresenta ciò che doveva essere fin dal principio quest'opera animata sviluppata con non molta convinzione. Ambientato nel sistema stellare Pentagona, retto dalla tirannia del sovrano Oldna Posoidal, L-Gaim racconta di come Daba Myroad, principe dello scomparso regno di Mizum e pilota del potente Heavy Metal (mecha tipo) L-Gaim, guidi una rivolta stellare di liberazione, insieme al suo fidato amico Kyao e ai nuovi alleati che incontrerà nel suo cammino. Per com'è impostata, la serie è deludente: adagiata sulla stessa lentezza scanzonata di Xabungle (presentando anch'essa un abnorme numero di combattimenti ininfluenti), cerca di mascherarla nuovamente con una comicità sgangherata e zeppa di siparietti, ma, ingabbiata da personaggi noiosi e irritanti, non riesce mai a replicarne i fasti ilari. Si tratta di un'opera piuttosto tediosa e scritta svogliatamente - tanto da amareggiare gli stessi Tomino e Nagano - eppure importante per la cura riversata nei suoi elementi secondari. Gli splendidi disegni e le ottime animazioni denotano un aspetto tecnico e visivo di primo livello, impreziosito da una regia spettacolare, capace, da sola, di rendere guardabili interi episodi dove non accade niente e non muore mai nessuno. Interessante anche l'innovativa trovata di anticipare i temi degli episodi "chiave" nelle preview dei precedenti ("Next Mecha", "Next Character", "Next Drama", idea poi ripresa in Five Star Stories), ma è sopratutto il mecha design di Mamoru Nagano ad assurgere a epocale. L-Gaim enuncia per la prima volta la sua concezione sull'argomento nelle affascinanti vesti degli Heavy Metal, sorta di armature medievali fantascientifiche piene di placche e decorazioni dalle linee raffinate, ora curve, ora taglienti, ora spigolose, che creano bizzarre ed elegantissime fisionomie umanoidi, spettacolo di una bellezza assoluta che rappresenterà una fonte di influenza fortissima nell'ambiente, imprescindibile nell'ispirare il design dei robot più moderni come quelli di Xenogears, Zone of the Enders, Linebarrels of Iron etc. Ultima curiosità il fatto che, scontentato come già detto dal risultato, Nagano alla fine ricicli mecha e personaggi di L-Gaim proprio in The Five Star Stories che inizia a disegnare due anni dopo. Le origini animate del fumetto sono subito richiamate osservando personalità come Ladios Sopp (anagramma di Oldna Posoidal, e come lui ha una doppia identità), il giovane Chorus III (è praticamente Daba Myroad), il Mortar Headd Jünoon (il primo L-Gaim) e Mel Schacher (Full Flat), giusto per citare le influenze più note.

Il 7 luglio esce invece quello che è sicuramente il must dell'anno: Macross - Il Film (meglio noto al pubblico internazionale con il ben più evocativo titolo The Super Dimensional Fortress Macross: Do You Remember Love?), il punto di massima gloria raggiunto dalla poetica estetica di Shoji Wakamori e Studio Nue. Trattasi di un vero e proprio remake cinematografico di Macross fatto da zero (non, quindi, un film riassuntivo), comprensivo di numerosi, importanti cambiamenti strutturali e narrativi che trasformano di fatto l'intreccio originale in una vera e propria storia romantica dove le battaglie spaziali sono relegate a semplice contorno. Animazioni straordinarie e mai viste prima, nuove struggenti canzoni (che faranno la fortuna della doppiatrice Mari Iijima) e un chara design rinnovato e maestoso, molto più adulto, a opera di Haruhiko Mikimoto, migliorano la piacevole storia originale rendendola un capolavoro a suo modo epocale e avveniristico, che attesta nel modo più indimenticabile la bontà della rivoluzione grafica operata dal capostipite. Il suo è un successo che sembra preannunciare la nuova era televisiva dei registi della "Seconda Generazione", ma che ironicamente segna invece il loro allontanamento. Gli studios, forse spaventati dall'audacia di simili innovazioni e sperimentazioni, decidono di allontanare gli adepti "esiliandoli" nel mercato home video, lontano dal grosso pubblico. La loro è una mossa che sancisce, così, la nascita dell'elitario mercato degli OVA, dove si faranno le ossa tutti i vari "pionieri" che vogliono seguire la poetica visiva di Kawamori.

Un altro titolo da citare in quell'annata. Il 17 settembre Fight! Super Robot Lifeform Transformers simboleggia nel genere la seconda (dopo Mighty Orbots, che inizia giusto due giorni prima), storica serie animata di co-produzione internazionale, tra la nipponica industria di giocattoli Takara e la compagnia statunitense Hasbro. Scritto, diretto e disegnato dallo staff americano della Sunbow Productions, ma animato da uno giapponese che fornisce anche il mecha design (e tra gli artisti figura anche Shoji "Macross" Kawamori), Transformers è il primo titolo di quella che sarà una lunghissima e apprezzata saga-cult, capace di durare per decenni e trovare svariate timeline e stagioni, alcune realizzate da staff unicamente giapponesi e altre solo americani, fino al trionfo dei kolossal di Michael Bay. Segreto del successo di questa prima serie, poi mantenuto con mille variazioni nelle opere successive, è l'idea di guerre combattute tra potenti mecha trasformabili, senzienti e dotati dell'uso della parola, dotati ciascuno di personali armi avveniristiche. È la storia di un eroico esercito di robot, gli Autobots, le cui frequenti battaglie con i malvagi Decepticons finiscono con il coinvolgere anche il pianeta Terra e alcuni umani. Idea semplice ma d'effetto, che ben si presta a mille avventure e combattimenti, forti dell'attraente mecha design e della continua trasformazione - i bambini non aspettano altro - degli eroi di metallo in veicoli da strada, creature, aerei etc. Impossibile non citare questa parentesi produttiva, che, pur avendo svariati precedenti, fin dagli anni '70, è la prima a trovare un grossissimo successo di pubblico, tale da inaugurare una vera e propria moda di collaborazioni internazionali che darà poi luce a opere come Il fiuto di Sherlock Holmes (1984), Thundercats (1985), The Adventures of Galaxy Rangers (1986) etc.

Votoms (1984), il primo, inimitato Real Robot

È altrettanto fondamentale l'anno 1985, che presenta due capolavori e un titolo di grande importanza nel chiudere per sempre il capitolo "Super Robot" di nagaiana memoria. Dopo la "gavetta" di Xabungle, Dunbine ed L-Gaim, il 2 marzo Yoshiyuki Tomino e il suo staff sono pronti a dare, con Mobile Suit Z Gundam, finalmente seguito al capolavoro del 1979, con una produzione televisiva dove le più avanzate conoscenze tecnologiche e l'arte suprema della cel-animation partoriscono 50 episodi di una qualità tecnica e grafica da capogiro, con animazioni di elevatissima qualità, pittorici disegni (di nuovo Yoshikazu Yasuhiko) e uno splendido, dettagliatissimo mecha design a opera dei migliori artisti del settore (Kunio Okawara, Mamoru Nagano e Kazumi Fujita in primis). Ambientato alcuni anni dopo il termine della serie storica, Z Gundam prende vita in uno scenario ancora più drammatico: la Federazione Terrestre è ora governata dall'élite militare fascistoide dei Titans e un disilluso Amuro Ray si trova presto costretto ad allearsi coi suoi ex nemici, i reduci di Zeon, per combatterli. Interessante notare come il protagonista di Z Gundam sia in realtà un nuovo personaggio, Kamille Bidan, che pilota il robottone che dà il titolo all'anime, mentre Amuro e Char (ora camuffato nelle vesti del carismatico Quattro Bageena) sono comprimari che appaiono soltanto in alcune porzioni di storia. Tomino, noto solitamente per la sua regia funzionale, questa volta si distingue per una direzione spettacolare e avvincente, confezionando un prodotto registicamente superlativo. Con un cast mastodontico di una cinquantina di individui e altrettante (come minimo) unità robotiche, Z Gundam si ricorda come una storia dall'ambizione smisurata, che, con i suoi innumerevoli cambi di scenario (spazio, mare, terra, colonie etc) e la gestione di svariati, numerosi gruppi di personaggi e addirittura di fazioni in guerra, vuole raccontare la storia di Kamille, di Amuro e Char, ma anche di un impressionante numero di ulteriori personaggi, a formare un affresco corale. Il regista, però, esagera decisamente con la carne al fuoco, spesso e volentieri non riuscendo a reggere la mole esasperata di sottotrame e rapporti interpersonali. Nonostante l'alta qualità generale, infatti, la serie è diretta controvoglia, da un autore che fino a poco prima diceva che non avrebbe mai dato seguito a Mobile Suit Gundam e ora sente che sta ribadendo le stesse cose perché "costretto" da Sunrise. Rimane comunque ai posteri, nonostante uno spazio addirittura esiguo per raccontare tutto, una lunga serie tv che, epocale sotto il profilo tecnico, si imprime alla memoria per un gran numero di personaggi indimenticabili, evocativi momenti registici, un intreccio intricato, la cupa, tesa atmosfera che non viene mai meno e disegni di bellezza inaudita. Da non dimenticare neanche, poi, un avveniristico monito che il regista dà al nascente, tragico pubblico degli otaku che nasce in quegli anni con Macross, incarnando il loro modo di pensare nel suo protagonista Kamille (un po' come fatto in Amuro Ray cinque anni prima): devono aprirsi al mondo, integrarsi nella società, smettere di lambiccarsi su quesiti esistenziali o fuggire dal contatto con gli adulti, sennò finiranno, come l'eroe nel finale, a friggersi letteralmente il cervello. Al di là delle previsioni, però, Z Gundam non si rivela un successone come da pronostico: pur cavandosela discretamente, tanto da rendere di fatto il Mobile Suit bianco l'emblema di studio Sunrise, non riesce neanche minimamente ad avvicinarsi allo share delle repliche della prima serie. È per questo motivo che già dal seguito, realizzato l'anno dopo, Sunrise inizia a cercare di estendere il target delle produzioni gundamiche televisive a un pubblico più giovanile, rinnegando le atmosfere cupe e adulte di Z e capostipite. Negli anni a seguire nasce così uno sterminato franchise comprendente una ventina di ulteriori produzioni animate, a opera di registi spesso diversi, e centinaia di videogiochi, manga e romanzi, quasi a imitare lo stesso Expanded Universe di Star Wars: ulteriori seguiti, prequel, side-story e alternate universe che, in animazione, nonostante una qualità media accettabile, talvolta molto buona, sarà ovviamente impossibile trattare in dettaglio. Bisogna comunque puntualizzare che, al timone della regia di almeno altri otto titoli gundamici, pur con svariati pregi Tomino ribadirà spesso le stesse cose e anche abbastanza svogliatamente, frustrato dal fatto che il suo nome venga sempre e solo accostato a seguiti di Gundam che, fosse per lui, non sarebbero mai nati. Per questo, anche se conosciuto dal mondo sopratutto per la serie del Mobile Suit bianco, il regista ammetterà platealmente, in più di un'occasione, di detestarlo. Di queste sue nuove incursioni le più degne di nota sono il bel film Il contrattacco di Char (1988), che segna una simbolica conclusione alla saga e alle infinite guerre tra Federazione/Zeon e Amuro/Char (ma Sunrise gli imporrà di crearne altre nei sequel successivi), e un sontuoso titolo del 1999 che avrà il suo spazio quando ci arriveremo.

Il 5 aprile debutta invece in tv una nuova produzione Ashi Productions di 38 episodi, Dancouga, col gravoso compito di chiudere una volta per tutte il capitolo delle classiche, indimenticabili produzioni Super Robot di vecchia tradizione, quelle delle invasioni extraterrestri quella che hanno imperversato per tutti gli anni '70. Dancouga lo fa nel modo più spettacolare possibile, mettendo fine a un'epoca, ma, al contempo, dando il benvenuto a un'altra, quella opere televisive basate sulle rivoluzioni di Gundam e Macross e al contempo trovando, nel suo staff, un nuovo grande BIG: Masami Obari, mechanical designer di grande personalità, capace di diventare, insieme a Shoji Kawamori, Mamoru Nagano, Yutaka Izubuchi e il futuro Hajime Katoki, tra i più importanti e rinomati in questo campo. Il fascino della sua arte si nota nei tondeggianti e luccicanti robot spaziali, nelle mostruosità robotiche che mescolano artigli, tentacoli e fauci con corazze meccaniche, ma sopratutto nel possente, megalitico robottone protagonista, il Dancouga, colosso alto oltre 30 metri (!) nato dalla fusione tra mecha a forma di giaguari, aquile e mammuth (!!). Il titolo rappresenta l'ultimo esponente televisivo delle classiche tradizioni di "terrestri vs perfidi invasori" e "team di 3-5 piloti", pur non rinunciando alle innovazioni portate dai suoi "colleghi" altolocati, tra cui le immancabili puntate autoconclusive rette su una forte continuity, la prima apparizione del robottone protagonista quasi a metà serie (riprendendo l'idea dal classico Danguard Ace), e un uso di quest'ultimo estremamente discontinuo, tanto platealmente superiore è la sua forza rispetto a quella di qualsiasi altro nemico. Caratterizzazioni energiche e tamarre e cattivi pressoché monodimensionali riportano la mente a un passato ingenuo ma indimenticabile, mentre colorati disegni e BGM accattivanti condiscono una serie tanto volutamente banale nella trama quanto carismatica in tutti gli elementi di corollario, moderni e accattivanti per l'epoca e che, a tutt'oggi, fanno la loro figura. Un bel comparto musicale retto su svariate opening, ending e insert song j-pop, infine (segno che la rivoluzione musicale di Macross inizia a prendere piede), attesta l'accattivante piacevolezza dell'opera, nonostante un budget decisamente basso che è forse il motivo principale del suo originale insuccesso televisivo. Negli anni a seguire ci pensano i suoi seguiti, realizzati sottoforma di OVA (sopratutto God Bless Dancouga, 1987), a riabilitarlo facendogli trovare la giusta notorietà. Dancouga attesta, simbolicamente, la fine di un'epoca.

Il 3 ottobre, infine, su Nippon Television è trasmessa una delle più belle serie in assoluto di Ryousuke Takahashi, nonostante sia paradossalmente, come il precedente, innocuo Panzer World Galient (1984) dello stesso regista, ancorata a una tradizione robotica votata alla spettacolarità che al realismo, ben lontana dal rigore ostentato di Dougram e Votoms: la serie tv Blue Comet SPT Layzner. Durante un futuristico prosieguo della Guerra Fredda, un gruppo di ragazzi, residenti su una neutrale base ONU marziana, scopre, grazie all'amicizia con l'ibrido umano-extraterrestre Eiji, che la razza di quest'ultimo, i Grados, intende conquistare la Terra. Per mezzo del misterioso SPT (mecha tipo) da lui pilotato, il Layzner, i ragazzi iniziano così un viaggio spaziale per tornare sul loro pianeta ad avvisare i terrestri, cercando di sopravvivere sia agli attacchi alieni che a quelli, sospettosi, da parte delle due Superpotenze.  L'opera di Takahashi, oscura, drammatica e sicuramente debitrice come soggetto e temi al Baldios di Ashi Productions, pone al centro della vicenda il tema dell'incomprensione e della difficoltà di comunicazione, vissuto dal punto di vista del tragico eroe Eiji che, non creduto dai terresti visto che è un mezzosangue, ha estrema difficoltà a farsi accettare da loro, e questo avrà terribili conseguenze per la Terra. Come in Dougram e Votoms, Takahashi rivisita nella trama sprazzi di Storia contemporanea, con l'invasione aliena che, per le sue modalità barbare, intenzionate a cancellare ogni minima forma di civiltà e cultura dei terrestri, si rifà all'invasione nipponica della Corea durante la Seconda Guerra Mondiale, elemento che in patria lo renderà parecchio inviso all'opinione pubblica. I consueti dialoghi di ferro, le personalità estremamente delineate e vivide, uno spiazzante cambio di scenario a metà serie (che abbraccia il mondo post-apocalittico di Ken il guerriero) e una cornice tecnica portentosa, nuovamente a opera della "solita", grande Sunrise, attestano i punti di forza e carisma dell'opera. Peccato per il suo triste destino: l'insuccesso commerciale e, si vocifera, le polemiche politiche, lo portano a doversi chiudere con largo anticipo rispetto ai tempi previsti, con gli ultimi quattro episodi affrettatissimi come non mai: e così, come Gundam, Baldios e Ideon prima di lui, Layzner conosce una conclusione degna solo successivamente, nel mercato home video, quando nello stesso anno di conclusione di serie, il 1986, escono tre OVA di cui i primi due riepilogativi e il terzo, Seal 2000, a rappresentare una versione estesa del finale originale. Da segnalare come, oltre alla sua enorme qualità narrativa, l'opera si contraddistingue nel genere anche per essere il primo titolo a proporre un robottone protagonista (il Layzner) governato da una A.I. parlante, e anche per essere il primo a inventare la cosiddetta idea del "berserk mode" del mecha, riferito al momento in cui, negli scontri più terribili, l'eroe di metallo a un certo punto smette di rispondere ai comandi del pilota e "impazzisce" attaccando da solo i nemici, con una ferocia e una potenza smisurate.

Layzner (1985), l'ennesimo bel titolo sfortunato, rovinato dall'insuccesso commerciale

Della seconda metà degli anni '80, più che citare le diverse produzioni gundamiche nate da Z, bisogna invece amaramente constatare come il robotico televisivo sia destinato a decrescere fortemente in numero di serie annuali, anno dopo anno: nuove  mode (il majokko, gli adattamenti animati da shounen manga, il fantasy) stanno velocemente imponendosi ai gusti delle nuove generazioni di spettatori, e anche se il genere non sparirà mai ufficialmente dai palinsesti televisivi, è indubbio che la sua popolarità sta conoscendo il suo tramonto. Per questo l'attenzione del dossier verterà ora sugli OVA, le opere animate concepite per il mercato home video, create dagli adepti esiliati della "filosofia Macross" e inaugurate nel 1983 da Dallos a opera dell'acclamato regista Mamoru Oshii. Parliamo di un nuovo "mondo" rappresentato da quegli artisti della "Seconda generazione di registi" interessati a mostrare, in un formato privo di paletti di censura, narrazioni, generi e scene impossibili da mostrare nei circuiti televisivi: storie horror, erotiche, splatter o connubi vari che trovano budget spesso molto più corposi di quelli televisivi, esprimendosi spesso in animazioni sontuose, disegni e musiche di alto livello che ben giustificano l'esborso monetario per l'acquisto di VHS o laser disc da parte degli appassionati, non più bambini (quello che era il target principale del genere) ma lavoratori. È la filosofia della sperimentazione narrativa e tecnologica quella che anima i pionieri figli di Kawamori, ed è in questo nuovo formato che il genere robotico continuerà a sopravvivere trovando  nuova linfa.

Si parte, in quest'ambito, con la leggendaria e bizzarra trilogia robotica realizzata da studio AIC e dal suo regista/disegnatore Toshiki Hirano, il cui primo esponente, realizzato tra il 1985 e il 1989 in co-produzione insieme agli studi Artland e Artmic, è Megazone 23. Tre lunghi episodi, da un'ora e mezza ciascuno, che per volontà creativa ma anche problemi produttivi vedono alternarsi di volta in volta staff diversi, col risultato del totale cambio di disegni e regia da una puntata all'altra. Si tratta di un'opera ambiziosa, nata da un'abortita serie televisiva, che vede partecipare alla sua creazione un gran numero di artisti di primissimo livello (gli eccezionali chara designer Toshiki Hirano, Haruhiko Mikimoto, Yasuomi Umetsu e Hiroyuki Kitazume, il compositore Shiro Sagisu, il soggettista/mecha designer Shinji Aramaki e il regista Noboru "Macross" Ishiguro), e che si ricorda per una trama corposa capace di mescolare, in una saga generazionale lunga un centinaio d'anni, invasioni aliene, complotti militari, stacchetti musicali à la Macross, realtà fittizie create per ingannare l'uomo (tanto che si parla spesso di uno dei più noti precursori dei Matrix americani), scontri tra robottoni ed echi tominiani (nel raffronto tra pulsioni giovanili e cinismo del mondo degli adulti). Sicuramente un calderone carismatico che trabocca di inventiva e idee, e, anche se queste non sempre sono sempre all'altezza, quantomeno i disegni, le musiche e le animazioni, tutti di impressionante qualità, fedeli alla "ricetta Macross" diventano spesso i veri protagonisti, rubando la scena. Molto affine a Megazone 23 è il successivo Fight! Iczer-1 (1985), sempre di 3 episodi, questa volta ad opera del solo studio AIC, di Toshiki Hirano e del ritrovato mecha designer Masami Obari. La storia (guerra aliena tra l'androide femminile Iczer-1 e l'umana Nagisa contro la minacciosa razza femminile  extraterrestre delle Cthulhu) è un puro pretesto per una cornice tecnica e grafica di livelli, ancora una volta, pazzeschi, dove i caldissimi, splendidi e quasi infantili disegni di Hirano si accompagnano a intermezzi erotici/yuri, truci scene horror/splatter, robottoni, duelli di Beam Saber à la Star Wars e azione costante, sormontati da animazioni dalla fludità straordinaria. Un capolavoro di tecnica dove conta non tanto la storia, ma il modo in cui è raccontata, è il trionfo del fanservice e degli elementi di corollario. Atto conclusivo della trilogia è il fantastico Dangaioh (1987), nato dalle ceneri di un abortito remake dello storico Mazinger Z di Go Nagai. È un Super Robot di antica e ingenua tradizione, dove i quattro eroi piloti che pilotano l'omonimo mega-robottone devono in ognuna delle 3 immancabili puntate sconfiggere l'emissario di turno dei pirati spaziali Banker, ma l'opera è un'autentica meraviglia grafica, dove ancora una volta gli strabilianti disegni di Hirano, i mastodontici, splendidi robottoni di Masami Obari e Shoji Kawamori e animazioni di grande fluidità - key animation a cura di Hideaki Anno, destinato a diventare uno dei massimi BIG degli anni 90 - regalano un'estetica spettacolare destinata a fare Storia. Ricapitolando, tre miniserie OVA che diventano, grazie ai loro superbi aspetti tecnici/visivi/sonori, capaci di far soprassedere su trame complesse raccontate frettolosamente o incomplete, i massimi emblemi della filosofia di Shoji Kawamori.

A Kawamori è giusto dedicare ancora un riconoscimento: nel 1987 è regista dell'OVA The Super Dimensional Fortress Macross - Flash Back 2012, capitolo idealmente conclusivo della sua fortunatissima creazione. La sequenza finale scartata da Macross: Il Film, un lungo concerto finale dell'idol Lynn Minmay, è riutilizzata in un music video di circa 30 minuti, dove le scene della sua esibizione sono frammentate da inserti che rievocano i momenti migliori della serie tv e del lungometraggio. Il succo è una piacevole mezz'ora riepilogativa in cui sono ricantate tutte le amatissime canzoni dell'idol, a salutare la partenza di Lynn, Hikaru e Misa dalla Terra verso lo spazio, in cerca di nuovi pianeti da colonizzare. Le movenze strepitose della cantante, i disegni nuovamente sbalorditivi di Haruhiko Mikimoto e il riciclo di brani musicali immortali come Ai, Oboeteimasu ka rendono Flash Back 2012, di fatto, l'OVA musicale più celebre della Storia, che pur non essendone il capostipite (il primato spetta a Love, Live, Alive del 1985, epilogo al pessimo Genesis Climber Mospeada di studio Tatsunoko) è di certo quello più rappresentativo: uscito sotto l'egida di Shoji Kawamori che ha inaugurato la tradizione degli stacchi musicali, chiude simbolicamente il cerchio. Passeranno ben sette anni prima che il regista/mecha designer torni a ideare, scrivere e dirigere incarnazioni di Macross, ma queste, pur viaggiano mediamente su una qualità discreta, presenteranno bene o male sempre gli stessi ingredienti riciclati all'infinito e senza particolare varietà, fotocopie senz'anima della fortunata trilogia degli anni '80 che rimane, sicuramente, l'incarnazione migliore dello sterminato franchise. Da menzionare, quantomeno, l'evoluzione artistica e professionale di Shoji Kawamori, destinato non solo a lavorare come mecha designer in molte delle produzioni robotiche più famose della Storia, ma anche, finendo tra i vertici dello studio SATELIGHT, a diventare tra i massimi sperimentatori, ancora una volta, delle possibilità tecniche dell'animazione, pioniere e poi maestro delle integrazioni 3D e CG.

 
 Dangaio (1987), l'apice della "filosofia Macross"

Nel 1988 è importante ricordare, sempre nell'home video, l'acclamato Punta al top! GunBuster (1988), diretto da un ancora sconosciuto Hideaki Anno. GunBuster è sia uno dei vari figli di Macross che il secondo grande cult (dopo Le ali di Honneamise) del neonato studio GAINAX, rappresentando, a testimonianza della filosofia otaku dello studio, un'attenta, sensibile rielaborazione degli stilemi e delle tendenze assimilati, in vent'anni, da ogni più disparata opera animata. Ecco quindi un titolo originale, Top o Nerae! GunBuster, che strizza l'occhio al classico Ace wo Nerae! (Jenny la tennista in Italia) e ne ripresenta una sorta di remake nel primo episodio introduttivo; ecco robottoni giganteschi ed "esagerati" oltre ogni limite di credibilità, ecco una fisica di estremo realismo nel ballonzolamento dei seni, che rende labile il confine tra malizia e classe autorale; ecco personaggi volutamente adagiati sugli stereotipi per celebrarli; riecco lo splendido chara design di un ritrovato, amatissimo Haruhiko Mikimoto, e autorali tocchi di classe come eyecatch e scene varie che strizzano l'occhio a Ideon... La trama, decisamente evocativa, pone in essere le missioni spaziali di Noriko Takaya e della sua senpai Kazumi Amano, in un minaccioso futuro dove le due rappresentano l'ultima speranza del genere umano di sconfiggere la solita, bellicosa minaccia aliena, in quanto prescelte per pilotare il gigantesco GunBuster. Grande elemento di originalità della storia, raramente sfruttato in serie successive, è la teoria einesteniana della relatività che ne muove il mondo, fatto di viaggi nell'iperspazio che hanno ripercussioni sulle leggi temporali della Terra e perciò, di riflesso, nei rapporto sociali delle eroine con i loro cari. Un finale evocativo, girato in un geniale b/n, già attesta l'importanza che avrà la regia di Hideaki Anno nel contraddistinguere i suoi futuri, affermati lavori.

Gli anni '80, ancora, si distinguono per i 7 episodi che caratterizzano la serie pilota di OVA Patlabor (1988), destinata a splendere fino a metà anni '90 grazie a diverse, accalamatissime incarnazioni. Ideato come progetto multimediale (anime e manga) dall'ambizioso gruppo all-star Headgear, formato dal regista Mamoru Oshii, la chara designer Akemi Takeda, il mecha designer Yutaka Izubuchi, lo sceneggiatore Kazunori Ito e il mangaka Masamu Yuki (quasi tutti conosciutosi nell'ambito della lunga serie tv comica Lamù la ragazza dello spazio), Patlabor è il primo, unico e inimitato slice of life robotico. In un vicino futuro l'industria nipponica inizia a produrre robot per l'edilizia, i Labor, ma spesso e volentieri la criminalità organizzata se ne impossessa per usarli a scopi illeciti. La polizia decide quindi di istituire un corpo specializzato nel pilotare mecha militari, i Patrol Labor, per affrontare le varie minacce che quotidianamente mettono in pericolo l'ordine a Tokyo. Patlabor si configura come riuscitissimo mix di vita quotidiana, poliziesco e commedia, basata su episodi solitamente autoconclusivi dove l'esilarante e caratterizzatissimo Secondo Plotone della Seconda Sezione Veicoli Speciali deve far fronte al caso della giornata, che può essere di combattimento metropolitano ma anche di divertissement scanzonati, come falciare i campi di grano, intrattenere superiori con la puzza sotto al naso, stanare coccodrilli dispersi nelle fogne etc, sempre sotto gli occhi implacabili di giornalisti e opinione pubblica. Quelli della serie OVA sono sette episodi divertenti, nati per sondare l'interesse del pubblico in vista di un'eventuale serie televisiva e che presentano, nell'arco della loro durata, già tutti i personaggi e le atmosfere che si ritroveranno in futuro, tra puntate di registro comico e intermezzi seriosi che sconfinano nel thriller urbano. Il 15 luglio 1989, un mese dopo la fine della serie, esce ai cinema Patlabor: The Movie, che si configura tranquillamente come uno dei grandi film di Mamoru Oshii. Headgear decide che il pubblico già conosce e ama i personaggi introdotti dalla miniserie, seppur ancora embrionali, ed è già pronto a rivederli insieme. Prima ancora della versione tv concepisce così, con l'apporto alle animazioni del neonato studio Production I.G, un primo, ambizioso film celebrativo, centrando decisamente il bersaglio. Animazioni stupefacenti e un mecha design dettagliatissimo di Yutaka Izubuchi proiettano nella Storia un thriller coinvolgente e ben realizzato, che vede la Seconda Sezione indagare su uno spaventoso virus informatico che mira a distruggere Tokyo. Non si può davvero parlare male di un lungo film che traccia una vincenda cupa e avvincente senza mai far venire meno le divertenti caratterizzazioni dei personaggi, destinati, coi loro tormentoni, a diventare quasi di famiglia per lo spettatore. Si parla di un ottimo lungometraggio che, in virtù del meritato successo, attesta il carisma della serie che esplode, l'11 ottobre dello stesso anno, con il primo episodio della serie televisiva, 47 episodi prodotti da Sunrise che ripresentano tutti i grandi punti di forza di pilot e film, attestando tranquillamente come la migliore incarnazione della saga, nonostante l'ottima qualità del manga, è quella animata, dove puntate stravaganti e demenziali, alternate con altre seriose, simboleggiano la cifra stilistica e autorale impartita da Ito e Oshii, ripetendo i fasti e il mood di Lamù. Qualità ulteriormente ribadite e affinate nella seconda serie OVA che esce dal 1990 fino al 1992, conosciuta in Italia come Patlabor: NEW OAV e animata da Sunrise e Studio DEEN, nata per chiudere, tra le varie cose, l'unica sottotrama televisiva. Sedici episodi di qualità eccelsa, che nel mondo dell'home video vedono il ritorno a regista titolare di Oshii (mancante nell'incarnazione televisiva) che si sbizzarrisce, insieme al fidato Ito, nello scrivere le avventure più riuscite della Seconda Sezione Veicoli Speciali. Questa si può definire senza dubbio la miglior incarnazione dell'intero franchise, dove suggestioni registiche, avventure tra le più bizzarre ed esilaranti e sontuosi approfondimenti del cast raggiungono i più felici risultati.

Insieme a film e serie tv/OVA di Patlabor, infine, il biennio conclusivo degli anni '80 dà i natali ad altre due opere acclamate, di cui una, di sicuro, immeritatamente. L'11 marzo esce ai cinema The Five Star Stories, ambizioso lungometraggio Sunrise che si prefigge lo scopo di sintetizzare, nell'arco di poco più di un'oretta, il primo volume dell'omonima, già citata space opera cartacea di Mamoru Nagano, iniziata nel 1986 e divenuta subito uno tra i più grandi capisaldi del fumetto giapponese fantasy/sci-fi. Si tratta di un lungometraggio graficamente e tecnicamente clamoroso, capace, con i bellissimi disegni di Nobuteru Yuki, la splendente imponenza dei robotici Mortar Headd e le animazioni stratosferiche, di regalare indelebili suggestioni visive facendo pregustare l'epicità dell'originale, diffondendo ancor più di Heavy Metal L-Gaim il rivoluzionario mecha design dell'autore. Peccato, appunto, che si tratti di un antipasto senza utilità, che già in partenza fallisce nel suo impossibile compito di rendere decentemente l'affresco di personaggi, terminologie, date, geografie e riferimenti che costellano il fumetto rendendolo unico nella sua strabiliante complessità.  Il film è un puro esercizio grafico, non per nulla realizzato contro il volere dello stesso Nagano, che troverà fama nel mondo giusto per la straordinaria confezione. L'ultimo vero ruggito da leone degli Eighties è la prima serie OVA realizzata per il decimo anniversario del franchise Gundam, da parte del regista Fumihiko Takayama: il commovente Mobile Suit Gundam 0080: War in the Pocket, il cui primo episodio esce giusto pochi giorni dopo il film di Five Star Stories, il 25 marzo. Nulla di particolarmente avveniristico o epocale, ma di sicuro una produzione di alto livello. L'artista dell'acquarello Haruhiko Mikimoto torna ancora una volta a tratteggiare una storia commovente, una side-story ambientata durante la Guerra Di Un Anno narrata nella serie tv del 1979. War in the Pocket vede protagonista un tenero bambino della colonia Side 6, Alfred, stringere amicizia con una spia zeoniana, Bernie, e aiutarla nelle sue attività clandestine così, per divertimento, come se la guerra fosse un eroico gioco. Un'amicizia sincera, la loro, destinata ovviamente a strazianti conseguenze. Con i suoi splendidi dialoghi, una regia sensibile, disegni meravigliosi e un finale toccante e poetico, nel corso dei suoi 6 episodi l'opera si propone come un commovente inno alla pace. Pecca forse di qualche ingenuità nel suo pretesto, ma il messaggio che trasmette è fortissimo e sentito, impossibile non rimanerne colpiti. Un capolavoro drammatico dove paradossalmente gli scontri tra robot sono ridotti al minimo indispensabile e spesso neanche ci sono, per favorire il grande, rinomato punto di forza della filosofia gundamica: il racconto di storie di uomini.

Prima parte del dossier: Gli anni d'oro del Super Robot e le prime evoluzioni del genere (1963-1979)
Terza parte del dossier: Gli anni '90 di Imagawa e Anno (1990-1999)

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