lunedì 17 marzo 2014

Recensione: 009 Re:Cyborg

009 RE:CYBORG
Titolo originale: 009 Re-Cyborg
Regia: Kenji Kamiyama
Soggetto: (basato sul fumetto originale di Shotaro Ishinomori)
Sceneggiatura: Kenji Kamiyama
Character Design: Gato Aso
Musiche: Kenji Kawai
Studio: Production I.G, SANZIGEN Animation Studio
Formato: lungometraggio cinematografico (durata 103 min. circa)
Anno di uscita: 2012


La scalata ai vertici dell’animazione porta inevitabilmente a confrontarsi con i grandi classici, non una sfida a fare meglio di chi ha gettato le basi, nemmeno la costruzione di semplici remake (con tutti i pro e i tanti, troppi contri che può avere una simile operazione), bensì una sorta di acquisizione e comprensione di idee e concetti per una riproposizione adeguata, con mezzi e stili, ai tempi odierni. Kenji Kamiyama ha già avuto modo di scontrarsi con grandi colossi nipponici: dal lungo, complesso e soddisfacente lavoro con la saga di Ghost in the Shell: Stand Alone Complex (2002) ne è uscito a testa alta tanto da non considerare eccessivo l’accostamento qualitativo né ai pilastri di Oshii né al manga di Shirow, e dopo un titolo originale come Eden of the East (2009) torna l’occasione di un importante parallelo, stavolta con budget e ambizioni cinematografici che Production I.G. è ben lieta di dare al suo pupillo.
               
Cyborg 009 inizia la sua serializzazione nel 1963 e diventa bene o male l’opera della vita di Shotaro Ishinomori, al quale lavora, tra alti e bassi, tra pause e riprese, tra brusche decisioni che scontenteranno i fan e necessari passi indietro, per ben 17 anni: la storia di nove cyborg dalle fattezze umane diventa la prima esperienza supereroistica nipponica e si presta, negli anni, a una montagna di riproposizioni, tra anime (tre serie, delle quali la seconda, del 1979, diretta da sua maestà Ryousuke Takahashi, ben nota in Italia), film, giochi e radiodramma, con 009 Re:Cyborg come sua ultima incarnazione, allo stesso tempo sequel e restart del franchise.

Kamiyama gioca d’azzardo, svecchia i nove protagonisti con un restyling deciso ma necessario, sventra l’impianto action con una colata imponente di fantapolitica che azzera il ritmo e aumenta la mole dialogica, farcisce il background di attualità (terrorismo, precisi riferimenti geografici) e tenta di arricchire un piatto già abbondante con raffinati simbolismi d’autore: sia come regista che come sceneggiatore ha tecnica, capacità e astuzia per rischiare, il supporto di Production I.G. inoltre gli permette di agire a suo piacimento, ma il risultato finale è un’opera di difficile, se non impossibile classificazione, già a partire dallo spunto iniziale (attacchi terroristici che distruggono grattacieli in tutto il mondo) che scontenta ovviamente i fan (se era prevedibile la diversità dal costrutto originale era meno ipotizzabile un simile tocco autoriale) e paradossalmente anche chi cerca una materia matura e profonda, perché Kamiyama fa il proverbiale passo più lungo della gamba e pare non essere in grado di controllare e tenere a bada i tanti elementi in gioco, sbilanciandoli per ritmi, sostanza e minutaggio per tutta la durata della pellicola.

 

Pare di assistere a un puzzle dove i pezzi non sono stati assemblati, 009 Re:Cyborg è infatti un insieme di (bellissime, per carità) sequenze che però mai riescono a contribuire a un fine unico: tutto è scomposto, diviso, spezzato, fine a se stesso, è arduo inquadrare in un disegno complessivo l’intero lavoro, frutto di sprazzi di genio, di guizzi meravigliosi, ma anche e soprattutto di una visione d’insieme di fatto esilissima. Seguire i nove cyborg, chi lavora già sottocopertura in varie organizzazioni mondiali chi riattivato per l’occasione, è quindi mediamente arduo perché è ottusamente caotico l’impianto narrativo che li vede collaborare sulla distanza per capire chi ci sia dietro gli attacchi terroristici, quale sia il suo scopo primario e pianificare quindi un valido piano d’attacco. Necessarie scintille hollywoodiane splendono in mirabolanti inseguimenti spaziali, lunghe disquisizioni filosofiche brillano in dialoghi molto buoni, ben scritti e lessicalmente vigorosi, personaggi ottimamente disegnati si ergono come protagonisti di scene che vivono di vita propria, ma niente, niente di questi virtuosi momenti convivono in una trama talmente stratificata e complessa da essere sfuggita presto di mano a Kamiyama stesso, troppo concentrato a dare un’impronta esageratamente personale e intellettuale a tutti i costi a una storia di supereroi e incapace di tenere per le redini di questo mostro che si sfilaccia, sbanda e scappa da ogni buco di sceneggiatura, un blob grossomodo informe ed enigmatico che non lascia spazio a una naturale esposizione di cause ed effetti preferendo i simboli alle spiegazioni, le riflessioni interiori a dialoghi chiari, il tutto a favore di un ermetismo strano e fuori luogo che affonda inevitabilmente il film.

Poco importa quindi lo straordinario lavoro tecnico con una regia meticolosa e immersiva, né la fusione di animazione tradizionale e CG (senza contare il 3D) in qualcosa di così potente e fluido da stordire, nemmeno l’emozionante colonna sonora di un ritrovato Kenji Kawai aiuta nel collegare una pellicola disordinata e disomogenea, talmente impegnata a mostrarsi come qualcosa d’altro da non riuscire nemmeno a esprimere una minima base narrativa – e ne è terribile esempio la lunga, eccessivamente ambiziosa, involuta e concretamente malfatta conclusione, da sola simbolo dell’incompletezza di un’opera sulla carta eccellente e importante ma in realtà confusa e innocua.

Voto: 5,5 su 10  

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Un film immenso e straordinario,che rinnova l'opera più importante di Shotaro Ishinimori adattandola al mondo moderno (e oggi la situazione internazionale è più oscura e complicata, tanto che ormai è difficile distinguere chi opera per la salvaguarda delle persone dai terroristi), nel quale Kenji Kamiyama eguaglia e supera - a modo suo - il suo maestro, Mamoru Oshii, ereditandone la visione "analitica e visionaria del futuro" per mostrarci che tutti noi siamo solo pedine di un gioco di cui non conosciamo i burattinai nè l'esito (che potrebbe portarci alla rovina).

Simone Corà ha detto...

Sì, Kamiyama punta davvero molto in alto, non è mai stato così ambizioso, però secondo me non è proprio riuscito a gestire questa mole di concetti - e non è questione che alla fine nella trama rimangano molti punti oscuri, ma è proprio nella visione d'insieme che le cose non funzionano, è un film troppo convulso, troppo frammentario, troppo grosso per riuscire a esprimersi bene.

E per dirti, preferisco di gran lunga l'ermetismo filosofico di un Oshii in Innocence, che per quanto enigmatico e difficile è costruito e narrato alla perfezione. :)

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