lunedì 21 gennaio 2013

Recensione: Una lettera per Momo

UNA LETTERA PER MOMO
Titolo originale: Momo e no Tegami
Regia: Hiroyuki Okiura
Soggetto & sceneggiatura: Hiroyuki Okiura
Character Design: Hiroyuki Okiura, Masashi Ando
Musiche: Mina Kubota
Studio: Production I.G
Formato: lungometraggio cinematografico (durata 120 min. circa)
Anno di uscita: 2011
Disponibilità: edizione italiana in DVD & Blu-ray a cura di Dynit


L'undicenne Momo Miyaura vive la vita con distacco da quando le è morto il padre, tragedia resa ancora più terribile dal fatto che l'ultima volta che lo ha visto vivo ci ha litigato pesantamente e non ha mai avuto modo di farci pace. L'eredità del genitore consiste in una lettera di riappacificazione, iniziata a scrivere prima dell'incidente, che la ragazza continua a fissare ogni giorno straziata, un "cara Momo" subito abbandonato per la difficoltà a trovare le parole adatte. Si è appena trasferita nella cittadina dell'isola di Shio, nel mare interno di Seto, paese natio della madre, cercando con lei di ricominciare da zero, ma non ci riesce, e deve sforzarsi anche solo a rompere il ghiaccio con gli abitanti. Presto tre buffe presenze ectoplasmatiche iniziano a terrorizzarla, salvo diventare poi i suoi primi amici: sono tre yōkai guardiani dell'aldilà, e hanno il compito di tenere d'occhio le famiglie degli spiriti appena giunti all'altromondo pieni di rimpianti. Momo troverà con loro, forse, il modo di chiedere scusa al genitore e sapere cosa voleva dirle...

Il parere del Mistè

Dopo ben sette anni di realizzazione1, nel 2011 vede la luce il secondo lungometraggio di Hiroyuki Okiura. Ce lo siamo inspiegabilmente perso per strada per ben dodici anni (dopo il fondamentale Jin-Roh - Uomini e lupi del 1999, realizzato insieme a Mamoru Oshii), ma l'artista, Production I.G e un nutrito staff di forti personalità del mondo dell'animazione tornano in grande stile con Una lettera per Momo, un bel film che, a dispetto di un magro bottino ai box office nazionali e internazionali (poco più di 6 milioni e mezzo di dollari totali2, pur a fronte di una bassissima distribuzione estera), fa il giro del mondo nei vari festival cinematografici ottenendo ottimi riconoscimenti3 (vincendo anche l'Excellence Prize al Japan Media Arts Festival4). Gli attestati internazionali della critica sono una buona indicazione della bontà del lavoro di Okiura: non solo opera di grande sfarzo grafico, ma anche un educativo racconto di formazione sulla rielaborazione di un lutto, sulla morte che non deve essere la fine di tutto. Un film commovente che, affine come tematiche e spirito all'altrettanto toccante Colorful di Keiichi Hara, uscito l'anno prima, attesta l'ottimo momento che sta vivendo il cinema d'animazione giapponese, non più solo ad appannaggio delle megaproduzioni ghibliane e dei loro eterni due registi.

La storia di Momo sarà anche molto semplice, prevedibile e sicuramente debitrice all'estetica e all'intimo poetico miyazakiani, ma poco importa se centra ugualmente i suoi bersagli rivelandosi un film delizioso, toccante e fatto con amore. Tecnicamente non gli si può rinfacciare niente, in quanto ben vale l'abnorme tempo di realizzazione speso in disegni e fondali ricchissimi di dettagli, addirittura strabordanti, quasi interamente disegnati a mano (pochissima Computer Grafica per esplicita richiesta di Okiura, che ritiene che una vicenda che tratta di sentimenti umani debba essere affidata a disegnatori e non a fredde tecnologie5) e così realistici (anche per merito dell'influsso del character designer Masashi Ando, collaboratore di vecchia data di Miyazaki e Satoshi Kon, noto nell'ambiente per il suo tratto estremamente verosimile) che non è neanche strano scoprire che la fittizia isola di Shio sia pesantemente ispirata (c'è stata anche una location hunting) a quella realmente esistente di Osaki Shimojima6. In Momo gli ambienti sono valorizzati da una fotografia di livello tale da trasformare in cartolina ogni inquadratura: le due ore di durata potrebbero scorrere anche solo beandosi delle prelibatezze grafiche, tra splendidi paesaggi portuali, un mare dato da un'acqua così pulita e trasparente che è possibile distinguere dall'alto i contorni degli scogli e dei fondali, la silenziosa casa di Momo e minimarket infarciti di ogni genere di prodotti. Stupefacenti anche le animazioni, fluide e verosimili a livelli di eccellenza, tanto che una giornalista della rivista americana Variety ne sarà così esterrefatta da scrivere che è sicuramente stato utilizzato il rotoscopio7.


È un sollievo che il regista, nonché sceneggiatore, non voglia porre tutte le ambizioni della pellicola sulla sola enfasi grafica, ma compia soprattutto un ottimo lavoro di caratterizzazione dei personaggi, raccontando con sensibilità ed estremo realismo le dinamiche familiari e le scene di vita quotidiana tra un'immatura Momo, che vive il lutto egoisticamente come se riguardasse solo lei, e la madre Ikuko, che si carica il fardello sulle spalle facendo finta di niente e cercando di dare forza alla figlia con sorrisi forzati. Ben rappresentato - come sottolinea lo stesso regista, ammettendo che la sua fonte di ispirazione maggiore viene da Chie the Brat (1981) di Isao Takahata8 - da personalità vivide e reali, la cui psicologia è ricavata dalla vasta molteplicità di sfaccettature caratteriali e dal linguaggio e movimento del corpo, il cast trova subito quella tridimensionalità adatta a imprimersi e a commuovere negli ovvi momenti lacrimevoli dedicati allo spirito del padre. L'evoluzione del rapporto tra madre e figlia, con immancabili, dure incomprensioni e riappacificamento risolutore, è l'elemento migliore del film, quella componente adulta che dà vigore  a una storia abbastanza ordinaria (forse anche troppo, si può tranquillamente ammettere) giostrata sul rapporto d'amicizia tra Momo e i consueti mostriciattoli graziosi e amiconi che sembrano sbucati fuori da un film di Miyazaki e che legheranno la ragazzina alla presenza del padre. Ispirato, come facilmente intuibile, a una storia vera (una donna conosciuta da Okiura nelle stesse condizioni di Ikuko9), a cui il regista aggiunge l'idea romantica dello spirito dei defunti che veglia sui vivi e gli yokai10, Momo è tuttavia un'opera che, nonostante l'argomento, non è certo cupa o nichilista come Jin-Roh. È invece una storia che vuole essere speranzosa, un tranquilizzante inno alla vita che, nelle intenzioni del regista, faccia uscire gli spettatori dalla sala con un sorriso11: per questo trova quelle caratteristiche un po' "giocose" (lo spazio forse eccessivo dato ai tre allegri spiritelli dal ruolo scontatissimo) e "ghibleggianti" che talvolta gli sono - anche a ragione - rimproverate per banalità e stucchevolezza di realizzazione.

Non si può in effetti negare che Momo pecchi di uno stile di raccontare storie che si è sicuramente già visto e segue schemi più che collaudati, ma ritengo che se riesce comunque a trovare la sua magia (difficile non provare autentica commozione nel contesto del suo pur immaginabile finale) merita ugualmente il rango di una di quelle produzioni che, nonostante una certa prevedibilità di fondo, lasciano un bel ricordo a fine visione e soprattutto il piacere di essere state viste.

Voto: 8 su 10

Il parere del Corà

Non è una novità che certo cinema ponga un'importanza fondamentale all'estetica tralasciando, volutamente o meno, la narrazione primaria, di fatto semplificata e/o sacrificata all'altare di una spettacolarizzazione che pare, a volte, unico mezzo espressivo di un film. Ma se è vero che bisogna distinguere semplicità da semplicità, in fondo sta in questa sottile differenza l'abilità di un artista, è spesso difficile riuscire a dire qualcosa di buono quando è la banalità il solo motore di un film, nonostante lo sfarzo grafico, nonostante l'impressionante lavoro tecnico, nonostante la rassicurazione di prodotto per famiglie di disneyana memoria, nonostante siano serviti ben sette anni per realizzare Una lettera per Momo, seconda prova, dopo il capolavoro Jin-Roh, di Hiroyuki Okiura.

La semplicità della storia di Momo è infatti di quelle derivative e insipide, di quelle facilmente costruite su anni e anni di trame pressoché identiche che la privano quindi di qualsiasi spessore, di qualsiasi grinta, di qualsiasi energia sebbene Okiura tenti in tutti i modi di ingannare lo spettatore attraverso una maestosità visiva eccezionale, paragonabile, almeno in termini tecnici, ai lavori Ghibli. Perché, rispetto a questi ultimi, prodotti dove è proprio certa semplicità a fare la differenza, in Una lettera per Momo non troviamo alcun tipo di magia nel raccontare l'adolescenza, non troviamo nessuna fantasia nel parlare per simboli, non troviamo nessun trasporto nel rappresentare la vita problematica di una ragazzina orfana di padre appena trasferitasi con la madre in una città isolana. Okiura sceglie infatti la strada più comoda, se così si può dire di un'opera che ha necessitato di anni per essere completata, e prepara una storiella stiracchiata e poco coinvolgente, uno straccio, uno schizzo, una sorta di pretesto con buoni sentimenti sul quale installare le meraviglie grafiche di una Production I.G. in stato di grazia (ne è d'esempio l'estenuante fuga dal cinghiale, lunghissima sequenza pressoché inutile perché priva di importanza ai fini della trama e di idee sul piano realizzativo, ma graficamente incredibile). Perché se Momo appare ben caratterizzata in una figura classica ma sempre piacevole, a non funzionare sono i personaggi che gravitano attorno a lei, a partire dai pessimi tre oni, sbadatamente figurati in bambinesche fantasie e autori di gag e comportamenti fiacchi e irritanti. Il resto si perde in un cast appena tratteggiato (Yota e la sorellina, gli zii, Koichi), oppure del tutto dimenticato (il gruppo di amici di Yota), privando così di un opportuno scenario, di una forza contestuale il racconto di formazione di cui Momo è protagonista.

 

Con così poco mordente ai binari di partenza, la trama assume presto una forma piatta e prevedibile, incapace di dare risalto e profondità drammatica al lutto di Momo e al dolore della madre - il tutto è eccessivamente soffocato dall'onnipresenza degli insopportabili demoni e da una sbrigatività narrativa che tronca stranamente interessanti sottotrame (la sorella di Yuta e la sua capacità di vedere gli spiriti), che sbanda priva di idee (la già citata sequenza del cinghiale) e che anche nei momenti più epici e caldi non sa graffiare come dovrebbe (il poco significativo capitolo finale, che nelle mani di un Miyazaki si sarebbe trasformato in un tripudio di invenzioni visive). Resta ovviamente il superbo, strabiliante comparto grafico, che sa stupire con una cura per i dettagli raramente vista altrove e un realismo fotografico nel disegno degli ambienti, una magnificenza visiva esaltata da animazioni stratosferiche che però, per quanto mi riguardano, non bastano a salvare una pellicola tanto, tanto attesa dalla sua tiepida mediocrità.

Voto: 5 su 10


FONTI
1 Guido Tavassi, "Storia dell'animazione giapponese", Tunuè, 2012, pag. 534
2 Sito internet "Box Office Mojo", incassi di "Una lettera per Momo", alla pagina web http://www.boxofficemojo.com/movies/?id=lettertomomo.htm
3 Vedere punto 1
4 Vedere punto 1, a pag. 535
5 Booklet allegato al DVD/Blu-ray di "Una lettera per Momo", "Note di produzione" (Dynit, 2013, pag. 16)
6 Come sopra
7 Vedere punto 5
8 Intervista a Hiroyuki Okiura pubblicata nel booklet del punto 5 (a pag. 15)
9 Vedere punto 8, a pag. 14
10 Come sopra
11 Vedere punto 8, a pag. 14-15

lunedì 14 gennaio 2013

Recensione: Black★Rock Shooter

BLACKROCK SHOOTER
Titolo originale: BlackRock Shooter
Regia: Shinobu Yoshioka
Soggetto & sceneggiatura: Mari Okada
Character Design: huke (originale), Yusuke Yoshigaki
Musiche: Eiji Mori
Studio: Ordet, SANZIGEN Animation Studio
Formato: serie televisiva di 8 episodi (durata ep. 24 min. circa)
Anno di trasmissione: 2012
Disponibilità: edizione italiana in DVD & Blu-ray a cura di Dynit


All’inizio Black★Rock Shooter è solo un’illustrazione a cura dell’artista huke, che ritrae una misteriosa ragazza in nero e dagli occhi azzurri. Poi ci sono i Supercell, band j-pop guidata dal compositore Ryo, che proprio all’immagine di Huke si ispira per una canzone. I due artisti uniscono allora le forze per la creazione di un video musicale, che diventa trampolino di lancio per artbook e action figure oltre a illuminare lo studio Ordet e il regista Shinobu Yoshioka: ne nasce un OAV di 50 minuti che racconta dell’amicizia tra due ragazze, dei loro problemi e delle emozioni contrastanti che si danno letteralmente battaglia in una sorta di simbolica dimensione parallela. Successivamente vengono prodotti un videogioco e un manga, ormai prassi per molti franchise nipponici di successo, mentre a febbraio 2012 studio Ordet e Yoshioka ritornano nuovamente nell’universo di BlackRock Shooter per realizzare, stavolta, una serie tv di 8 episodi. Via ogni riferimento al precedente OAV, si riparte da zero con una nuova storia, una nuova sceneggiatrice (mica una qualsiasi, Mari Okada, ben nota, nel 2006 e 2008, per i suoi lavori Red Garden e Toradora!) e, soprattutto, un guest director d’eccezione, Hiroyuki Imaishi, alle prese con la direzione della computer grafica. Ed è proprio sotto questo aspetto che Black Rock Shooter diventa qualcosa di mai vista primo d’ora.

Scenari desolanti, atmosfere post-apocalittiche, devastazioni nucleari, rovine incomprensibili, tecnologie non-umane, su questi ambienti Imaishi fa muovere BlackRock Shooter, enigmatica e silenziosa ragazzina armata di un’enorme mitragliatrice, impegnata a combattere, di volta in volta, contro altre ragazze armate sino ai denti con pistole gigantesche, complesse armature, catene chilometriche e colossali ragni meccanizzati. L’anime inizia con un vertiginoso piano-sequenza, e i tecnicismi registici che si susseguono danno vita a scene potentissime e visionarie, dove queste incomprensibili combattenti si fronteggiano mitragliandosi con gatling sempre più grosse e trasformabili (Gurren Lagann docet), mentre eserciti di corpi marciano marziali, mentre gli sfondi si frantumano e si riassemblano come un ciclopico cubo di Rubik, mentre i colori fortissimi e stravaganti variano dal verde al blu al rosso. Visivamente, abbiamo a che fare con qualcosa di realmente incredibile, in tutta sincerità non credo che in animazione si siano mai raggiunti simili traguardi nella gestione registica, qui siamo davvero oltre la mera spettacolarità di una scena d’azione, siamo oltre l’abbondanza grafica che può garantire il budget destinato a un film cinematografico, siamo oltre l’uso della CG per velocizzare i lavori, siamo invece di fronte a qualcosa di nuovo, a un’energia straordinaria, a un’abilità tecnica fuori dal comune. Imaishi crea un nuovo standard, inutile girarci attorno.


Ma BlackRock Shooter non è solo Imaishi, in fondo le parti in CG da lui dirette occupano pochi minuti nel complessivo della serie. La storia della Okada racconta principalmente di due adolescenti delle scuole medie, Mato Kuroi e Yomi Takanashi, della loro amicizia e del rapporto con alcune compagne di classe, il tutto però filtrato attraverso le paure, le insicurezze, i disagi dovuti alla loro età, le cosiddette paranoie mentali che trasformano in tragedia ciò che magari non è niente di grave, alterando e distorcendo emozioni e sentimenti. Okada caratterizza bene i personaggi, li dota di un buon bagaglio di informazioni utili a giustificare i loro comportamenti e infilza spesso e volentieri lo spettatori con momenti di bullismo verbale piuttosto feroci. Ne esce quindi una storia forse a tratti forzata ma di grande impatto nella ricerca di un realismo profondo e attento, che non si ferma al sentimento di superficie ma che scava per capire, scoprire cosa ci sia dietro, quale sia il motivo che porta alle incomprensioni, ai sospetti, ai malintesi, ai litigi, all’odio.

E sicuro fascino viene dato dal legame con la dimensione parallela, non più un qualche specchio simbolico delle turbolenze adolescenziali, ma un vero e proprio scenario fantascientifico dove le stesse protagoniste sono, o saranno, in gioco, accompagnate da un ottimo crescendo musicale, a partire dalla sigla (proprio il brano dei Supercell ispirato all’immagine originaria di huke), che rafforza di malinconica energia le scelte intraprese dalle ragazze con quel piglio sofferto, anche doloroso, che in fondo tutti abbiamo provato quando avevamo tredici anni.

Voto: 8 su 10

giovedì 10 gennaio 2013

Recensione: I racconti di Terramare

I RACCONTI DI TERRAMARE
Titolo originale: Gedo Senki - Tales from Earthsea
Regia: Goro Miyazaki
Soggetto: (basato sui romanzi originali di Ursula K. Le Guin)
Sceneggiatura: Goro Miyazaki, Keiko Niwa
Character Design: Akihiko Yamashita
Musiche: Tamiya Terashima
Studio: Studio Ghibli
Formato: lungometraggio cinematografico (durata 115 min. circa)
Anno di uscita: 2006
Disponibilità: edizione italiana in DVD & Blu-ray a cura di Lucky Red



Siamo nel magico, medievaleggiante mondo di Earthsea, in un periodo storico particolarmente infelice in cui si succedono siccità, epidemie, carestie e oscuri presagi. Tutto sembra far intendere che l'equilibrio tra il mondo degli umani e quello dei draghi stia venendo meno. Prigioniero di una doppia personalità malvagia che lo porta a uccidere suo padre, regnante di Enlad, il principe Arren fugge dal castello dopo aver recuperato dal cadavere del genitore una magica spada. Vagando per le lande del regno incontra Sparviere, abile mago di un tempo che non esiste più, trovando in lui un buon amico e compagno di viaggio. Insieme, si stabiliscono temporaneamente nel rifugio di una vecchia conoscenza di quest'ultimo, dove Arren conosce la sua bella figlia adottiva, Therru. Peccato che i quattro saranno presi in mezzo a una guerra personale tra Sparviere e lo stregone Aracne, a capo di una organizzazione di negrieri e che coi suoi poteri cerca di scoprire il segreto della vita eterna. Per dare il suo contributo alla battaglia, Darren dovrà affrontare il suo animo malvagio e sfruttare le misteriose capacità della sua spada...

Il ciclo di Earthsea, epopea fantasy di cinque romanzi pubblicati tra il 1968 e il 2001 dell'autrice americana Ursula Kroeber Le Guin, non è solo estremamente ben apprezzato, ricordato e premiato da critica e pubblico come una delle migliori saghe di genere per ragazzi (o meglio giovani adulti, pensando ai suoi temi ben poco infantili sulla crescita e su metaforici rimandi all'identità culturale, alle strutture sociali, a psicologia e sociologia), ma è stata anche una delle letture più apprezzate da Hayao Miyazaki negli anni '80, periodo in cui ha inutilmente cercato di convincere l'autrice a vendergli i diritti per poterne fare un film animato. Al tempo, però, il regista non è ancora famoso all'estero per i suoi film (Studio Ghibli deve ancora nascere) e la Le Guin, non conoscendolo e associando l'animazione cinematografica solo alla Disney, che pure non apprezzava, declina l'offerta (dal rifiuto, come sappiamo, nasce nel 1982 il manga Nausicaä della Valle del Vento). Poi, Miyazaki assurge una star internazionale e l'autrice, dopo aver visto nel 1999 Il mio vicino Totoro (1988), diventa una sua grande fan e si convince a esaudire il suo desiderio, addirittura dando indicazioni sul periodo storico di Earthsea in cui ambientare la vicenda (nell'arco di quindici/venti anni tra il primo e il secondo romanzo, quando non si sa quali avventure ha vissuto il mago Sparviere, protagonista della saga). Nel 2005 un summit a casa sua decide come verrà affrontata la questione: Miyazaki si è "temporaneamente" ritirato dalle scene (dopo Il castello errante di Howl, 2004), ma il film sarà affidato alle mani di suo figlio Goro, architetto paesaggista e all'epoca direttore del Ghibli Museum, per il quale il produttore Toshio Suzuki nutre grandi aspettative (caldeggiato anche da un "certo" Hideaki Anno) nonostante la ferma contrarietà del padre. La Le Guin è riluttante ma alla fine accetta, rassicurata del fatto che il prodotto sarà attivamente supervisionato da Miyazaki senior. Se ne pentirà amaramente, poiché quest'ultimo, come sapremo, non seguirà neanche minimamente il progetto, preferendo non interferire in alcun modo nel debutto e nella visione del figlio1.

Il risultato finale esce nel 2006 e spacca nettamente critica e pubblico: col suo incasso di oltre 7 miliardi e mezzo di yen risulterà il film giapponese più visto nel 20062, ma al contempo il pubblico si dividerà tra chi lo odierà profondamente e chi lo apprezzerà3. Goro Miyazaki vincerà gli "ambiti" trofei Bunshun Kiichigosho (come ricorderete, i "Razzie Awards" giapponesi) come peggior regista del peggior film dell'anno4, ma al contempo I racconti di Terramare (che brutta la nostra abitudine dell'italianizzare nomi di luoghi) verrà anche candidato al prestigioso Nippon Academy Sho5 evidenziando la profonda disparità di valutazione tra gli stessi organi specializzati. La Le Guin infine, nonostante gradirà l'opera per la sontuosa messa in scena, dirà che è nel complesso estremamente delusa, dicendo che il film non rende minimamente giustizia allo spirito e alla filosofia dei suoi scritti6 (per lei un'altra pessima trasposizione insomma, dopo l'altrettanto criticatissimo film TV americano in due parti Earthsea del 2004, anch'esso da lei rigettato e insultato7).


In verità, fatico anche solo a capacitarmi che a qualcuno possa essere piaciuto molto il lungometraggio, graficamente notevole e raccontato più che bene ma di una superficialità e di una sconclusionatezza narrativa addirittura inconcepibili, di gran lunga il peggior script mai visto in un Ghibli. I racconti di Terramare inizia mostrando due giganteschi draghi che si affrontano in mare, segno nefasto che qualcosa di oscuro sta accadendo nel mondo di Earthsea dato che è da tempi immemori che le bestie alate non si fanno vedere nel mondo degli umani: a confermarlo, sappiamo poco dopo che il regno di Enlad è martoriato da disordini, siccità e altre piaghe che stanno turbando la pace e sembrano profetizzare un futuro ancora più spaventoso. Come si coniuga questo prologo col contenuto reale del lungometraggio non lo sapremo mai, così come non ci sarà dato sapere il senso e l'origine della spada magica di Darren, della sua metà oscura, il perché lo stregone Aracne abbia fattezze e voce femminili, i suoi scopi e il significato dell'enigmatico finale che tira le fila della vicenda. Sono TUTTI interrogativi evocati e mai spiegati, dimenticati criminalmente per strada, a cui è impossibile rispondere anche solo con l'interpretazione. Sembra che scrivendo la sceneggiatura non si sappia come caratterizzare il mondo di Earthsea, le sue regole e la vicenda da raccontare, e così si tratteggia a casaccio il background fantastico sprecando tempo e risorse in elementi di puro setting (i riferimenti al degrado politico e sociale del regno e l'idea che "magia" significa, in quel mondo immaginario, conoscere il nome davvero "naturale" delle cose invece di basarsi sulla catalogazione da parte dell'intelletto umano) che non hanno alcun peso, dimenticandosi le nozioni basilari per la comprensione. Forse il film acquista più chiarezza se contestualizzato nella saga letteraria (ma forse anche no, non bisogna però dimenticare che, nonostante le chiare indicazioni date dall'autrice, alla fine Miyazaki Jr. scrive una vicenda che integra elementi narrativi dall'intero corpo dei romanzi senza badare alla continuity ufficiale8), ma per chi non l'ha letta?

È un Ghibli in controtendenza, I racconti di Terramare, se rapportato alla gioiosa visionarietà "infantile" dei film di Miyazaki padre. Pur fresco del classico design dello studio, semplicistico, grazioso ed espressivo, manca completamente di un qualsiasi accenno a humor ed elementi solari o carini, trovando pesanti riferimenti a morte, schiavismo, stupro, consumo di droghe e abbandono di minori. È indubbiamente un film cupo, che vuole anche disquisire di argomenti molto seri (il senso della vita e quello della morte), ma è scritto male, dannatamente male, infarcito di accenni a cose non spiegate, privo di un degno lavoro di scrittura sulle motivazioni, le personalità dei protagonisti e i loro rapporti interpersonali (superficiali e brutalmente accelerati nei momenti chiave, vedasi lo schizofrenico rapporto tra Arren e Therru), ucciso da dialoghi e scene (apparentemente?) illogiche. Addirittura non si riesce a capire qual è il ruolo concreto di Sparviere nella vicenda, considerando che in teoria sarebbe l'eroe dei romanzi ma è trattato come un semplice e anche inutile comprimario, e in cosa consistono le macchinazioni di Aracne (perché Arren dovrebbe essere la chiave per raggiungere la vita eterna? Altra domanda di cui non avremo mai risposta). La prima metà del film, come se non bastasse, sembra addirittura incoerente con la seconda: fa presagire - per colpa della mole di domande e spunti abbandonati - sviluppi spettacolari che non ci saranno, e anche le atmosfere e il mood paiono "bugiardi", dati quelli che si vedranno successivamente. Si passa infatti da una parte iniziale e centrale di stampo avventuroso e misterioso a un prosieguo lentissimo, riflessivo, iper-dialogato e caricato di verbosismi e che tale rimane fino alla conclusione, rappresentando a suo modo un notevole anticlimax (senza dimenticare che è così letargico da sfidare lo spettatore a resistere al sonno). Mi verrebbe a questo punto da domandarmi anche il senso del titolo che volge al plurale.



I racconti di Terramare è sbilenco, farraginoso, inspiegabile e inspiegato. Un disastro narrativo, ma che fa a pugni con una confezione incantevole. Guardare il film su un grande monitor significa rimanere estasiati dallo spettacolo di colori e architetture delle location: immancabili castelli, cittadine e torri sospese (a cui si aggiungono ovviamente dragoni giganteschi) dell'immaginario fantasy splendono grazie a inquadrature e fotografie paesaggistiche che sottolineano meravigliosamente la dimensione magica ed estetizzante dei luoghi, facendo assumere al tutto il look e lo spirito del più ispirato gioco di ruolo alla giapponese. Il film mutua il suo design fantasticheggiante da Il viaggio di Shuna, manga fantasy (inedito in occidente) disegnato da Miyazaki senior nel 19829 (non è da escludere che sempre a esso siano ispirate le simili ambientazioni del memorabile J-RPG del 2010 Ni no Kuni - La Maledizione della Strega Cinerea, sviluppato da Level 5 in collaborazione con Ghibli) e in questa occasione la factory miyazakiana supera decisamente sé stessa in fondali ricolmi di suggestione e animazioni di un realismo portentoso. Anche la colonna sonora di Tamiya Terashima si rivela di livello, con le sue tracce minimaliste ma di inaspettata solennità.

Vale la pena salvare ancora qualcosa? Forse sì. Mi riferisco quantomeno alle intenzioni del regista, che fallisce in tutto ma almeno dimostra che voleva raccontare qualcosa. Miyazaki Jr. sfrutta il mondo di Earthsea per raccontare una storia di formazione abbastanza intellettuale, per rispondere alla domanda: "come può un ragazzo dei giorni nostri, nella società del benessere, trovare la strada per diventare un bravo adulto?". I racconti di Terramare è, nelle ambizioni del regista, la storia di un ragazzo vissuto nella bambagia che temendo la morte va incontro ad angoscia esistenziale, uccide il padre e poi inizia un lungo percorso di depressione, ansia e disperazione che lo porta a fuggire da sé stesso e dal suo regno, fino all'incontro con Therru, personificazione della Vita che sopravvive oltre la morte del singolo, che la genera come atto di vita stessa. Sarà lei a portarlo a riflettere sulle sue colpe e sul senso della vita che non può esistere senza la morte, convincendolo a prendersi le responsabilità di quello che ha fatto10. Peccato che questo messaggio è così raccontato male, così occultato dalla confusionaria avventura principale, che emerge ben poco. Alla fine rimane un film che curiosamente trova motivo di visione giusto per gli aspetti scenici di contorno.

Voto: 5,5 su 10


FONTI
1 Il lungo retroscena è dato principalmente da due fonti, entrambe ricche di dettagli: il saggio "Storia dell'animazione giapponese" (Guido Tavassi, Tunuè, 2012, pag. 450-451) e le impressioni della stessa Le Guin sul film, rievocate in un lungo post sul suo blog ufficiale che spiega ulteriori retroscena (alla pagina http://www.ursulakleguin.com/GedoSenkiResponse.html). La "raccomandazione" di Goro Miyazaki da parte di Hideaki Anno viene invece da un post di Shito (Gualtiero Cannarsi, traduttore ufficiale Lucky Red di tutti i film Ghibli) apparso nel Ghibli Forum italiano alla pagina web http://www.studioghibli.org/forum/viewtopic.php?f=21&t=1926&start=345#p71498
2 "Storia dell'animazione giapponese", pag. 451
3 Lettera di un corrispondente dal Giappone della Le Guin, pubblicata sul  blog ufficiale dell'autrice alla pagina http://www.ursulakleguin.com/GedoSenkiCorrespondents.html
4 Vedere punto 2
5 Come sopra
6 Opinioni della Le Guin del punto 1
7 Memorabile stroncatura della Le Guin pubblicata sul sito Locus Online alla pagina  http://locusmag.com/2005/Issues/01LeGuin.html
8 Vedere punto 2
9 Come sopra
10 La lunga spiegazione viene da Shito ed è ripartita in due post-chiave apparsi nel Ghibli Forum italiano. Il primo è quello citato nel punto 1, il secondo è alla pagina web http://www.studioghibli.org/forum/viewtopic.php?f=21&t=1926&start=345#p71530

lunedì 7 gennaio 2013

Recensione: Round Vernian Vifam - "Memories of Kate", A Tearful Recovery Plan!!

ROUND VERNIAN VIFAM: "MEMORIES OF KATE" - A TEARFUL RECOVERY PLAN!!
Titolo originale: Ginga Hyōryū Vifam - "Kate no Kioku", Namida no Dakkai Sakusen!!
Regia: Takeyuki Kanda
Soggetto: Hajime Yatate (basato sul romanzo originale di Jules Verne)
Sceneggiatura: Hiroyuki Hoshiyama
Character Design: Toyoo Ashida
Mechanical Design: Kunio Okawara
Musiche: Toshiyuki Watanabe
Studio: Sunrise
Formato: OVA (durata 57 min. circa)
Anno di uscita: 1985


È passato un anno dalla guerra fra la Federazione Terrestre e gli Astrogator. Ora, gli undici ragazzi tornati sulla Terra sono invitati dal governo di Kukto a presenziare ai negoziati di pace ufficiali, per sponsorizzarli con la loro popolarità, aprendo le porte al concetto di fratellanza fra i due popoli. Per Fred e amici è l'occasione di riabbracciare Kachua e Jimmy e rivedere Jeda, ora leader del nuovo governo, ma non immaginano certo che troveranno di fronte ai loro occhi anche una rediviva Kate, che riuscì a salvarsi miracolosamente dalla distruzione della sua navicella al prezzo, però, di perdere completamente la memoria...

Nel settembre 1985, con "Memories of Kate", Sunrise regala agli appassionati un epilogo che mette fine ufficiale alla storia di Round Vernian Vifam (1983), commuovendoli con un degno ritrovo dei ragazzi con Kachua, momento toccante che dà un senso al malinconico finale televisivo. Il prezzo da pagare è però talmente alto da, addirittura, non valere la visione: il dover sopportare forzature clamorose che mandano allegramente a quel paese un po' tutta la credibilità, già talvolta dura da  accettare, della serie televisiva.

Pietre dello scandalo non possono che essere gli improbabili ritorni sulla scena di Shido Mueller e di Kate, entrambi dati per morti e invece sopravvissuti per degli eventi fortuiti francamente ridicoli. Anche se stupidi colpi di scena come questi sono purtroppo diventati la norma nella stragrande maggioranza delle odierne produzioni cartacee e animate, robotiche (pensiamo, nel 2004, agli orrori di Gundam SEED Destiny, paradigma assoluto della categoria) e non, la cosa è ugualmente imperdonabile visto che è concepita in un periodo dell'animazione, gli anni '80, in cui tale buonismo o ricerca del colpo di scena ad effetto erano assenti, stabilendo così un deprecabile precedente che ha origine proprio in una saga che tentava, nel 1983, di essere più realistica del solito. Per questo motivo "Memories of Kate" rappresenta concettualmente una gran brutta conclusione, perché toglie senso al drammatico destino dell'unico adulto che per un po' di tempo aveva frequentato i ragazzi nella Janus fungendo da "madre", e costringendoli così, terminata la propria esistenza, a diventare adulti prima del tempo. Ora, invece, scoprire che non solo è sopravvissuta, ma addirittura, perduti i ricordi, è stata salvata da quel Shido Mueller che per l'incredibile coincidenza de "il mondo è davvero piccolo" conosce Fred e gli altri ragazzi, getta nell'idiozia uno dei momenti più tragici e sentiti non solo da parte dei ragazzi, ma anche dallo spettatore.


Pessima trovata, ma davvero: si fosse originariamente evitato di dare alla donna un destino tragico, togliendola dalle scene senza dover per forza ricorrere alla morte, la sua apparizione qui non suonerebbe così presuntuosa e offensiva, l'OVA perderebbe i suoi residui ridicoli e coinvolgerebbe nella sua forte drammaticità di fondo - i tredici ragazzi sotto shock nel ritrovare la madre adottiva senza più alcun ricordo di loro e delle vicende affrontate insieme. I loro tentativi di fargliela tornare e le loro reazioni psicologiche rappresentano sequenze particolarmente riuscite, che, insieme alla spiegazione di com'è proseguita la loro vita durante l'anno immaginario e al bel finale, simboleggiano i punti di interesse della produzione (oltre, ovviamente, al solito spazio dedicato a tratteggiare ciascuno di loro, per celebrare degnamente le loro memorabili caratterizzazioni).

Purtroppo non si riesce proprio a soffocare una forte sensazione di presa in giro, in una storia importante ai fini della continuity e proprio per questo odiosa nel suo rinnegare fatti imprescindibili della storia originale. Si può solo far finta che "Memories of Kate" non esista, o rassegnarsi pensando alla saga di Vifam come una a bella storia di personaggi ma dalle pesantissime, odiose e imperdonabili iniezioni di implausibilità. Quale che sia l'approccio scelto, meglio consolarsi con l'episodio extra di 3 minuti allegato originariamente all'OVA, Chicago Super Police 13, simpatica parodia con i 13 ragazzi, in ruoli alternativi, calati in un thriller-noir americano degli anni '40. Molto meglio lui.

Voto: 5 su 10

PREQUEL
Round Vernian Vifam (1983-1984; TV)
Round Vernian Vifam Part I: A Letter from Kachua (1984; OV)
Round Vernian Vifam Part II: Thirteen Meet Again
(1984; OVA)
Round Vernian Vifam: The 12 People Who Vanished (1985; OVA)
Round Vernian Vifam 13 (1998; TV)

giovedì 3 gennaio 2013

Recensione: Round Vernian Vifam - The 12 People Who Vanished

ROUND VERNIAN VIFAM: THE 12 PEOPLE WHO VANISHED
Titolo originale: Ginga Hyōryū Vifam - Kieta 12-nin
Regia: Takeyuki Kanda
Soggetto: Hajime Yatate (basato sul romanzo originale di Jules Verne)
Sceneggiatura: Hiroyuki Hoshiyama
Character Design: Toyoo Ashida
Mechanical Design: Kunio Okawara
Musiche: Toshiyuki Watanabe
Studio: Sunrise
Formato: OVA (durata 57 min. circa)
Anno di uscita: 1985


È una brutta giornata per Scott, per l'ennesima volta capro espiatorio involontario degli scherzi degli altri elementi maschili del gruppo, trattato male dalla sua adorata Clare e dalle altre ragazze per l'accusa, ingiusta, di averle spiate mentre dormivano. Offeso, il capitano della Janus lascia la nave per dimostrare ai ragazzi quanto siano perduti senza la sua guida, ma non immagina che si troverà sia a dover fronteggiare da solo un attacco dagli Astrogator, sia a rimanere vittima di un inquietante scherzo tesogli dai ragazzi al suo ritorno...

The 12 People Who Vanished, uscito il 25 febbraio 1985, è il terzo OVA basato sulla serie televisiva Round Vernian Vifam (1983): primi due (A Letter from Kachua e Thirteen Meet Again, entrambi del 1984) semplici riassunti; questo, finalmente, una storia inedita, nata per ripagare gli acquirenti del supporto economico (e infatti questa formula verrà riutilizzata anche per i successivi titoli di successo dello studio, nell'eventualità venga deciso di proseguirli con delle uscite extra home video). L'episodio riscuoterà un ottimo successo, tanto da convincere Sunrise a rilasciarne pure un quarto ("Memories of Kate" - A Tearful Recovery Plan!!) sette mesi dopo: il cliente dell'epoca si ritrovava così tra le mani una riuscitissima side story commemorativa ambientata a cavallo tra gli episodi 18 e 21 (quando i ragazzi ancora navigano nello spazio a bordo della Janus, diretti verso la fortezza/prigione kuktoniana di Taut), che, dietro la geniale idea di proporre come copertina un'immagine carica di tensione e mistero, rivelava invece una barzelletta divertente e ispirata.

Non si può negare che l'opera in questione sia un mero riempitivo che non aggiunge nulla di rilevante alla trama, ma ha il merito di essere davvero ben fatta, celebrando benissimo l'indimenticabile cast di Vifam e in particolar modo uno dei suoi elementi più ilari e iconici, lo sfortunatissimo e deriso capitano Scott. Si tratta di un'avventura palesemente tirata a lungo per offrire un minutaggio di almeno un'ora (non si spiegherebbero sennò una breve battaglia isolata del tutto ininfluente ai fini della trama e l'arrivo nell'equipaggio di un puccioso "ospite" extraterrestre anch'esso privo di importanza, tanto che non se ne ha traccia nella serie TV), ma la vicenda principale dell'incazzatura di Scott, del suo abbandono della nave, del ritorno, delle misteriose presenze che sembrano infestare Janus e infine la risoluzione dello scherzo, è molto ispirata, spassosa, con dialoghi brillanti e riuscite gag che permettono a tutti e tredici i ragazzi di splendere ancora  una volta pur nel poco tempo a disposizione. Azzeccata poi l'idea di rendere protagonista a tutto tondo proprio Scott: vittima, suo malgrado, di un cumulo di equivoci e scherzi, botte e umiliazioni, si presta benissimo a fare da involontario buffone, facendo ridere un sacco coi suoi celebri urli isterici, i voli per terra e le estremizzate reazioni.


Difficile dire altro nei riguardi di un OVA sì innocuo, ma così ben realizzato, con cura e amore verso il cast e lo spirito di Vifam, da definirsi un esempio di ideale produzione celebrativa, non per quello ignorabile. È di molto preferibile, ad esempio, alla puntata successiva, quel "Memories of Kate" sicuramente più importante ai fini della storyline, ma anche offensiva verso l'intelligenza dello spettatore con le sue azzardate e dannose "rivelazioni".

Voto: 8 su 10

PREQUEL
Round Vernian Vifam (1983-1984; TV)
Round Vernian Vifam Part I: A Letter from Kachua (1984; OVA)
Round Vernian Vifam Part II: Thirteen Meet Again (1984; OVA)

SEQUEL
Round Vernian Vifam 13 (1998; TV)

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