Visualizzazione post con etichetta Shinichiro Watanabe. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Shinichiro Watanabe. Mostra tutti i post

lunedì 3 novembre 2014

Recensione: Terror in Resonance (Zankyō no Terror)

TERROR IN RESONANCE
Titolo originale: Zankyō no Terror
Regia: Shinichiro Watanabe
Soggetto: Shinichiro Watanabe
Sceneggiatura: Shoten Yano, Hiroshi Saeko, Jun Kumagai, Kenta Ihara
Character Design: Kazuto Nakazawa
Musiche: Yoko Kanno
Studio: Mappa
Formato: serie televisiva di 11 episodi  (durata ep. 24 min. circa)
Anno di uscita: 2014


Strana coincidenza che in così poco tempo Shinichiro Watanabe sia al timone di così tanti progetti. Il 2014 non è ancora finito e sono ben tre le serie che portano la sua firma: le due stagioni di Space Dandy e questo Terror in Resonance. Grande e inattesa prolificità per un autore che ha fatto della taciturna e calcolata semina uno dei suoi tratti caratteristici: se si esclude il breve apporto all'omnibus Genius Party (2007), ben otto anni dividono il Jammin' Apollon (2012) da Samurai Champloo (2004) e altri sei, tolto un altro corto per il progetto Animatrix (2003), distanziano quest'ultimo da quella prima bomba epocale, l'indimenticato Cowboy Bebop (1998) che tanto ha dato e continua a dare all'animazione. 

Spogliato totalmente del suo io più ironico e scanzonato, privo addirittura di qualsiasi gioco musicale nonostante il l'ottimo lavoro di Yoko Kanno alla colonna sonora, da sempre sua fedele direttrice d'orchestra, Watanabe mette in Terror in Resonance il suo sguardo più serio e risoluto, trovando nello straordinario chara design di Kazuto Nakazawa la perfetta chiusura del cerchio, disegnato in maniera sin troppo perfetta ma comunque con notevole stile da un gruppo di sceneggiatori con curriculum ancora acerbo. I temi trattati sono forti ma non è la presunta ambizione concettuale a risaltare (storia ed eventi sono infatti fin troppo lineari e derivativi), ma è la personalità dei personaggi, il loro dialogare e i sentimenti espressi a muovere una serie scritta da mano, si nota, ancora inesperta (Seko ha collaborato con Hiroyuki Imaishi per Panty and Stocking with Garterbelt e Kill la Kill, Kumagai ha giusto capitanato il recente Hamatora), ma contenuta e diretta con estrema professionalità da un pilastro dell'animazione come Watanabe. Il resto lo fanno gli interventi drammatici di una Kanno che non ha mai sbagliato un colpo e soprattutto gli splendidi disegni di Nakazawa, che cerca e trova un taglio più realistico, pur senza infrangere lo stile nipponico, per ricreare una maggior concretezza e sostenere così il tono adulto della storia.

Storia che non si sposta poi molto da certi argomenti di cui l'animazione sembra soffrire parecchio il fascino, abbiamo a che fare con la solita combo di ragazzetti, uno freddo e taciturno, l'altro più solare e alla mano, entrambi al limite del genio, che giocano a scacchi con la polizia (chi ha detto Death Note?) sfidandola in un bomb-game abbastanza tradizionale per intenti e meccaniche di gioco. Anche il resto si adagia comodo su determinati standard nipponici, come la moe ingenua e inesperta, il detective che sfida la legge pur di trovare la verità e la nemesi femminile bellissima e infallibile, ma pur non essendoci chissà quale ricchezza alla base di tutto, Terror in Resonance vive di dettagli e profondità psicologiche, di piccoli, credibili gesti e di reazioni commoventi: la calma carismatica di Twelve e la meravigliosa amicizia con Lisa, il gelo millimetrico che fuoriesce da Nine e con cui si scontra con Five, la caparbietà di Kenjiro e il rapporto che ha con i colleghi, e ancora la mole di agenti segreti e politici che confabulano e tentano disperatamente di fermare gli attacchi terroristici con cui Sphynx cerca di mettere in ginocchio il Giappone, sono i veri mattoni che sostengono l'opera. Il realismo (complici i fondamentali e già citati disegni di Nakazawa), la meticolosa regia di Watanabe e le ottime animazioni dello studio Mappa, è quindi ciò che trasuda da una serie che, probabilmente, con altri nomi coinvolti rischiava di passare inosservata nella slavina di bambinate commerciali in cui sembra ormai essersi trasformata la scena odierna. 


Non che Watanabe eviti cadute a tratti anche abbastanza evidenti (l'eccessiva dipendenza di Lisa, l'esagerata megalomania di Five, alcune concessioni all'azione spettacolare e pompata che stona con il ritmo serratissimo), ma l'esperienza e la grande gestione di caratteri fa sì che la semplicità della storia raccontata non impedisca mai di rimanere affascinati e coinvolti, né che la facile prevedibilità dei colpi di scena sminuisca lo spessore di una serie che, in 11 episodi, si limita a dire, bene, ciò che deve, seguendo una traccia ben collaudata e spremendola con forza per estrarne il succo migliore. Si può, e si deve sempre, pretendere di più, ma se l'animazione desse più spazio a opere come queste si potrebbe tirare un bel sospiro di sollievo.

Voto: 6,5 su 10

lunedì 20 ottobre 2014

Recensione: Space Dandy Season 2

SPACE DANDY SEASON 2
Titolo originale: Space Dandy Season 2
Regia: Shinichiro Watanabe
Soggetto: BONES
Sceneggiatura: Kimiko Ueno (ep.1-7-10), Keiko Nobumoto (ep.2-6-9), Masaaki Yuasa (ep.3), Hayashi Mori (ep.4), Kiyotaka Oshiyama (ep.5), Shinichiro Watanabe (ep.8-13),  Toh Enjoe (ep.11), Dai Sato (ep.12)
Character Design: Yoshiyuki Ito
Mechanical Design: SATELIGHT (Thomas Romain)
Musiche: Space Dandy Band
Studio: BONES
Formato: serie televisiva di 13 episodi (durata ep. 24 min. circa)
Anno di trasmissione: 2014


Eroe pieno di sé, pessimo pilota, orgoglioso maschilista e spinto da un discutibile senso dell’umorismo, Dandy è il prototipo del tamarro senza freni, troppo stupido per capire dove sbaglia ma incredibile trascinatore e dotato di un carisma straripante. Per quanto la sci-fi in cui viene calato non sia soltanto un bonario frullare di colori e deformità aliene che ci si potrebbe attendere da un prodotto comico, bensì un lussurioso scenario ricco di inventiva e trovate visive, la concezione demenziale idealizza il buon Dandy in pilastro assoluto, tutto gira attorno alle sue scelte idiote confermandolo come un catalizzatore di simpatici disastri, spesso talmente vasti da comportare la morte sua e dei due soci con cui viaggia da un pianeta all’altro in cerca di razze ancora sconosciute.

Space Dandy (2014) ricomincia laddove era finito, Shinichiro Watanabe ripropone la stessa, inarrestabile colata di avventure strampalate e autoconclusive dal ritmo martellante, e se è confermata la mancanza di una qualche trama orizzontale è palpabile invece il tentativo di cambiamento, un minimo differenziarsi da una soluzione narrativa che era comunque vincente e di grande impatto ma che, quando ci sono di mezzo grandi nomi come Dai Sato, Keiko Nobumoto e Masaaki Yuasa, non è mai abbastanza. Difficile comprendere cosa i vari sceneggiatori abbiano realmente progettato, se si tratti di necessario alleggerimento, di voglia di qualcos’altro o se di semplice difficoltà nella gestione del materiale, rimane tuttavia una pellicola di dispiacere nel percepire il mutamento come una sperimentazione sì molto libera e visionaria, ma che spesso si limita a uno strato visivo che annulla la bontà narrativa della serie precedente.

A contraddistinguere Space Dandy dalle altre tamarrate spaziali che lo hanno preceduto, c’era un non comune spessore narrativo che esplodeva tanto negli episodi più dementi quanto, e soprattutto, nei momenti di maggior riflessione e intimismo, donando alla serie una marcia psicologica e per certi versi anche drammatica che nessun altro prodotto simile poteva vantare. Space Dandy Season 2 non modifica certo la sua forza espressiva (episodi sregolati e imbottiti di idee come quello iniziale, dove Dandy si confronta con i suoi sé di altri universi, si riconfermano brillanti e magnetici), ma è proprio laddove l’originale si scostava un po’ mostrando una personalità superiore, che gli sceneggiatori ridefiniscono lo script per caricare eccessivamente un cannone visivo che, purtroppo, pare invece sparare a salve. Con continue modifiche nello stile grafico, spesso più grossolano, a volte più lavorato e dipinto, e una regia che si alterna tra desolazioni esistenziali colme di silenzi a fratture tachicardiche e inflessioni da videoclip, le puntate meditative del passato sono sostituite adesso da furie visive di grande effetto ma di poca sostanza, tanto che anche nei momenti musicali la Season 2 perde quella sua caratteristica predominante, marchio di fabbrica che da sempre inquadra lo stile di Watanabe. Tra una pochezza di idee sconfortante (il fiume spaziale che si ripresenta concettualmente in più puntate, replicandosi sbadatamente), una triste mancanza di umorismo e di intelligenza citazionista (il terribile episodio sulla dance music), la Season 2 precipita in una parentesi centrale anestetica, dove tutto soffoca nel tentativo di aggrapparsi a nuove soluzioni, purtroppo poco interessanti.


Ciò non toglie meravigliosi alti a una serie che sembrava immune ai bassi, e infatti botte come il vagabondaggio forsennato tra universi alternativi o la mitragliata rock di quando Dandy mette su una band assieme al comandante dell’esercito imperiale, o ancora la raffinata esposizione dialogica nella puntata processuale, l’inevitabile omaggio al 2d videoludico o il mindfuck epocale sulle dimensioni parallele, per non parlare dello straordinario epilogo, in grado di tirare i fili dei concetti e delle tematiche trattate con una logica inarrivabile, lasciano soddisfatti – seppur non del tutto sazi.

Non era forse giusto chiedere di più, è comprensibile come il pensiero dietro a questa seconda serie fosse motivato da risultati incredibili già raggiunti, il trio delle meraviglie ha mescolato il dramma e la filosofia in un’opera demenziale ed era lecito si orientassero verso altro. Ciò che ne esce è purtroppo qualcosa di mediocre che forse funziona solo per il carisma incontenibile di un personaggio e un’ambientazione resi memorabili nella prima stagione, ma a questo punto, dato l’interrogativo con cui si chiude il circo, concedetemi almeno di sperare in un futuro ritorno di Dandy.

Voto: 7,5 su 10

PREQUEL
Space Dandy (2014; TV)

lunedì 15 settembre 2014

Recensione: Space Dandy

SPACE DANDY
Titolo originale: Space Dandy
Regia: Shinichiro Watanabe
Soggetto: BONES
Sceneggiatura: Shinichiro Watanabe (ep.1-9), Dai Sato (ep.2-6-13), Kimiko Ueno (ep.3-4-7-10-12), Ichirou Ohkouchi (ep.5), Michio Mihara (ep.6), Keiko Nobumoto (ep.8), Toh Enjoe (ep.11)
Character Design: Yoshiyuki Ito
Mechanical Design: SATELIGHT (Thomas Romain)
Musiche: Space Dandy Band
Studio: BONES
Formato: serie televisiva di 13 episodi (durata ep. 24 min. circa)
Anno di trasmissione: 2014


Non sempre riunire grandi nomi porta a risultati soddisfacenti, è lecito aspettarselo da una semplice logica matematica ma non è raro che a enormi aspettative conseguano invece epocali macerie. In Wolf’s Rain (2003), titolo per me esemplare, l’accumulo di BIG non aveva aiutato una storia tragicamente vuota a dire qualcosa in più del nulla che aveva da offrire, e lo stesso sunto razionale a cui era giusto aggrapparsi lasciava intendere che Dai Sato e Keiko Nobumoto, dopo la bomba Cowboy Bebop (1998), non avessero chissà quale beneficio da trarre l’uno dall’altra per una nuova serie. In effetti la carriera solista li avvantaggia, uno crea il gran successo commerciale di Eureka Seven (2005) e l’altra, con Tokyo Godfathers (2003), sigla forse l’opera più dolce del compianto Satoshi Kon. Ma lo studio BONES non demorde, nel 2014 li accoppia nuovamente insieme ad altri sceneggiatori rinomati, mettendo alle redini del progetto proprio quel Shinichiro Watanabe che nel 1998, con le gesta di Spike Spiegel e della sua crew spaziale, si è creato un posto fondamentale nella storia dell’animazione.

Di certo non è un caso che ritornino anche ambientazioni, concetti e intenzioni, Space Dandy è un omaggio neanche tanto velato a Cowboy Bebop tanto nelle ambientazioni cosmiche quanto nella scoppiettante sequenza di avventure, nell’ironia brillante e nell’importanza musicale, addirittura il protagonista Dandy campa grossomodo facendo lo stesso mestiere di Spike, ma sarebbe ingiusto etichettare come banale autocompiacimento un’opera che in realtà è molto più potente della banale parodia che sembra promettere.

Prendiamo l’episodicità strutturale: l’avventura della settimana, con un inizio e una fine a sé stanti che niente danno all’orizzontalità di una trama che, a dirla tutta, in questa prima serie è del tutto assente, è elemento che dà valore aggiunto all’insieme per l’esaltazione, non solo comica, di quello che succede. Sembra impossibile che, a partire dalla quotidiana caccia a una qualche razza aliena con cui Dandy, avventuriero spaziale all’inseguimento di marziani sconosciuti, e i suoi due aiutanti, un gatto gigantesco e parlante di nome Meow e un robottino tuttofare chiamato QT, possa generarsi una vastità di soluzioni così maestosa da lasciare senza fiato, eppure ogni singolo episodio esplode di invenzioni visive e uditive, ogni avventura trasuda di una meraviglia così genuina e solare, così fuori di testa e imprevedibile che, in più di un’occasione, Dandy e soci trovano la morte alla fine della puntata (per poi tornare vivi e vegeti nella successiva) perché non sono semplicemente ipotizzabili escamotage ancora più estremi dei mostri o delle entità che devono affrontare.


Episodi incredibili come quello iniziale, in cui fronteggiano una sequenza di creature cannibali dalle dimensioni sempre più grandi tanto da non poter essere contenute in un pianeta, oppure quello in cui vecchi elettrodomestici si fondono per creare e nutrire una colossale entità antropomorfa, scoppiano di immagini e sensazioni giocando sì facile sulla semplicità del bigger is better ma gestendo alla perfezione il crescendo umoristico, che mai diventa totalizzante annullando quello che in fin dei conti è e rimane il punto focale di Space Dandy (impreziosito anche dalla matita di Yoshiyuki Ito, schizoide ma esemplare nel contenere le espressioni in deformità mai esagerate): il sense of wonder.

Pur con la mancanza di background che possa in qualche maniera localizzare e dare una qualche forma geografica ai luoghi visitati (non vale citare la fumosa e impalpabile guerra tra i due imperi, Gogol e Jaicro, che si contendono l’universo), ogni pianeta su cui Dandy mette piede e ogni specie aliena da cui deve scappare appaiono straordinariamente casuali nella totale libertà artistica con cui devastano lo schermo a suon di immagini pompate e sonorità strillate che vanno dal rock progressivo alla dance senza dimenticare un retrogusto videoludico a 8 bit che rimane costante in tutta la serie (rigoroso e perfettamente in tema con la serie che i crediti delle musiche siano dati alla misteriosa Space Dandy Band). Gemme come la puntata sulla corsa tra bolidi o il ramen proveniente da una dimensione incomprensibile sono puri stordimenti generati da un equilibrio perfetto tra narrazione e regia, che trova nel pimpante flusso di colori e in un pentagramma frenetico una ricchezza che in animazione non si vedeva, con la stessa forza dinamica, dai tempi di Gurren Lagann (2007) e, in generale, dalla migliore e ormai perduta GAINAX.

Tutto questo funziona così bene che anche nei momenti meno adrenalinici Space Dandy, date le false credenziali con cui può essere etichettato, può mostrare lati impensabili: introspezioni filosofiche e dai tempi dilatati come negli episodi della specie vegetale senziente e del pianeta-libreria, oppure profonda commozione come quando Dandy visita il pianeta natale di Meow e conosce la sua famiglia o quando QT si innamora di una caffettiera. Si tratta di scelte narrative diverse non solo dal punto di vista del distacco concettuale dalla comicità imperante (che comunque rimane proprio per mezzo di quello squisito bilanciamento), ma proprio per la profonda caratterialità che fuoriesce da personaggi che solitamente si prestano a esile ironia slapstick o deformed, mentre qui acquisiscono una personalità vera e tridimensionale, tanto che anche la spavalderia grezza e ignorante di un personaggio favolosamente stupido come Dandy guadagna un inaspettato spessore che fa schizzare il suo carisma a vette inarrivabili.


È a questo punto che si capisce come il grossolano umorismo tra il demenziale e l’ecchi – che spunta senza soluzione di continuità tra un ristorante come il Boobies (e con un nome così non credo serva descriverlo), il vano inseguimento che conduce il gorilla-scienziato Dr. Gel per catturare, per motivi ancora sconosciuti, Dandy, gli ovvi omaggi al robotico e ad altra fantascienza animata o gli interventi del narratore per spiegare buchi di trama o per dare indizi ai protagonisti –, possa risultare gradevole, distensivo e ben centellinato pur nella sua voluta bassezza proprio per l’ampiezza di registri che Watanabe e gli altri sceneggiatori sono riusciti a far convivere in un’opera strampalata e ridicola ma in grado di mostrare facce intelligenti e preziosamente nascoste di un’animazione che troppo, troppo spesso si accomoda su se stessa e pare non abbia voglia, o addirittura non le interessi, reinventarsi.    

Voto: 9 su 10

SEQUEL

lunedì 8 ottobre 2012

Recensione: Jammin' Apollon (Sakamichi no Apollon)

JAMMIN' APOLLON
Titolo originale: Sakamichi no Apollon
Regia: Shinichiro Watanabe
Soggetto: (basato sul fumetto originale di Yuki Kodama)
Sceneggiatura: Ayako Katoh, Yuuko Kakihara
Character Design: Nobuteru Yuki
Musiche: Yoko Kanno
Studio: Mappa
Formato: serie televisiva di 12 episodi (durata ep. 23 min. circa)
Anno di trasmissione: 2012

 

Appena entrato in una nuova scuola superiore di Tokyo, Kaoru Nishimi è subito perseguitato dai bulletti dell'istituto. Ha la fortuna di stringere amicizia e trovare protezione in Sentaro, l'attaccabrighe temuto dai compagni, scoprendo in lui un ragazzo problematico che agisce in tal modo per darsi la forza di sopportare una tesa situazione familiare. Accumunati dall'amore per la musica, presto i due iniziano a vedersi nel negozio di dischi di una compagna di classe, Ritsuko, mettendo su un piccolo complesso jazz...

Jammin' Apollon segna il ritorno alla regia di Shinichiro Watanabe, entrato nel mito quasi quindici anni prima con Cowboy Bebop e poi rapidamente, e stranamente, scomparso dall'industria dell'animazione, se si escludono partecipazioni sporadiche ad antologie di episodi all-star (Animatrix e Genius Party) e la poco calcolata, quasi dimenticata serie tv di Samurai Champloo. Ma Jammin' Apollon significa anche il ritrovato sodalizio tra lui e la Yoko Kanno, il cui apporto rappresentava uno dei massimi punti di forza nella saga del cacciatore di taglie spaziale, creatrice di straordinarie tracce sonore che abbracciavano ogni variegato stile musicale per risaltare con universalità le avventure di Spike Spiegel. Un grande team-up che si rinnova nel 2012, in un soggetto non originale che traspone, con svariati tagli e modifiche ma seguendone fedelmente la storia fino alla fine, il josei omonimo, recentissimo, della Yuki Kodama. Manga, quest'ultimo,che senza troppi giri di parole rappresenta la classica opera di formazione giovanile con sottofondo musicale, uno dei tanti figli di Piano Forest dove protagonisti pieni di complessi e appartenenti a ceti diversi (Kaoru figlio di famiglia benestante e castratrice che vuole per lui le università e gli incarichi più prestigiosi; Sentaro che si dà da fare coi fratellini poveri e il padre alcolizzato) stringono amicizia grazie alla musica. Niente di particolare o memorabile, una storia corale come tante che segue le ferree regole del genere: innamoramenti giovanili e prime delusioni sentimentali, amicizie che travalicano differenze di classe, gente in cerca di un posto nel mondo, tragedia che separa le strade di più persone fino alla commossa riconciliazione anni dopo... Fortuna che a dirigere c'è Shinichiro Watanabe. Per fortuna.

Con la consueta classe edifica un monumento alle potenzialità della regia, con un uso creativo delle inquadrature che tiene inchiodati alla visione facendo presto dimenticare la banalità della storia. Ovviamente la musica è, nelle opere di Watanabe, sempre protagonista assoluta, e anche se in questo caso non ha importanza centrale l'amore del regista per la quarta arte è onnipresente, trovando sfogo nelle frequenti Jam Session di Kaoru e amici con l'indugio visivo nella spettacolare sollecitazione di batterie, trombe e pianoforti, a cui dà "voce" la Kanno con splendide tracce musicali a tema. Un atto d'amore per il jazz, già protagonista anche in Cowboy Bebop, che è uno dei motivi principali per consigliare la produzione agli appassionati di questa musica.



Chi cerca in Jammin' Apollon una bella storia prenda atto che, se la trama è quanto di più semplice ci si possa attendere, quantomeno i protagonisti godono di una buona caratterizzazione. Le loro vicissitudini seguono i vari cliché del caso, ma almeno l'interesse di sapere cosa succederà nella prossima puntata è genuino e non ci si annoia mai grazie al buon ritmo complessivo e all'assenza di particolari punti morti. Parte non indifferente del successo della produzione, oltre all'accoppiata Watanabe/Kanno e alle ovvie, ottime animazioni del caso, va ricondotta anche ai deliziosi disegni di Nobuteru Yuki, estremamente espressivi ed estremamente realistici, perfetti nell'aggiornare in animazione il tratto originale della Kodama (finalmente ragazze acqua e sapone e non bombe sexy, e anche il protagonista occhialuto non è certo un eroe che si vede molto spesso). Fa il resto la splendida opening Sakamichi no Melody.

Unico limite da accettare, sciaguratamente, è la terribile visione idealizzata che ha l'autrice originale dell'amicizia maschile. Come molte mangaka shoujo/josei, anche la Kodama sembra voler pensare a rapporti al limite dell'omosessualità, dipingendo in modo assolutamente innaturale l'amicizia tra Kaoru e Sentaro. Si vedranno così i due spesso dipinti con caratteri femminei, che piangono per le tragedie dell'altro, si consolano abbracciandosi, si prendono a schiaffi invece che a pugni, compiono dei ragionamenti tutto fuorché virili. Come nel manga, tutto è replicato fedelmente anche nella controparte animata. Questo per dire che, se Jammin' Apollon ha trovato, curiosamente, un certo credito nel pubblico di lettori yaoi, non è stato certo per caso. La sua è una tale esagerazione nei comportamenti umani che più che più di una volta certe reazioni psicologiche perdono di credibilità diventando grottesche, estremizzate da una mentalità femminile che non conosce quella dell'altro sesso.

Rimane, al di là di questo e nonostante la storia innocua, una visione piacevole, registicamente di gran classe e con una colonna sonora ancora una volta da urlo, che sicuramente non deluderà i fan del regista.

Voto: 7 su 10

lunedì 29 marzo 2010

Recensione: Cowboy Bebop - Il Film

COWBOY BEBOP: IL FILM
Titolo originale: Gekijōban Cowboy Bebop - Tengoku no Tobira
Regia: Shinichiro Watanabe
Soggetto: Hajime Yatate, Keiko Nobumoto
Sceneggiatura: Keiko Nobumoto
Character Design: Toshihiro Kawamoto
Mechanical Design: Kimitoshi Yamane
Musiche: Yoko Kanno
Studio: BONES
Formato: film cinematografico (durata 115 min. circa)
Anno di uscita: 2001
Disponibilità: edizione italiana in dvd a cura di Columbia Tristar

 
Anno 2071, pianeta Marte: Spike e compagni sono questa volta pagati per affrontare il misterioso Vincent, ex militare apparentemente uscito di senno e intenzionato a diffondere sul mondo un terrificante virus trafugato al suo stesso esercito. Sulle tracce del terrorista si mette anche lo stesso governo marziano, impaurito che vengano alla luce certi compromettenti esperimenti fatti in passato. Il suo sicario è la bella Electra, misteriosamente legata a Vincent...

Cowboy Bebop: Il Film è l'ennesima prova che essere un grande regista non è necessariamente un Seal of Quality che riscatta tutto. Siamo nel 2001, pochi anni dopo il planetario successo di critica e pubblico di Cowboy Bebop, serie televisiva dal budget faraonico che fa conoscere al mondo l'enorme talento registico di Shinichiro Watanabe. Tutti si aspettano un capolavoro dal film cinematografico in cantiere: stesso identico staff produttivo (anche se le animazioni sono a opera del neonato studio BONES, nato da una scissione interna di Sunrise che qui è solo produttore), e uno Shinichiro Watanabe che dice che ci saranno atmosfere del passato, animazioni strepitose, grande enfasi posta sulle espressioni facciali e atmosfere arabesche... Un hype immenso che è solo causa dell'estrema amarezza del risultato finale. Dietro uno dei titoli italiani meno originali di sempre (perché non mantenere quello internazionale, il suggestivo Knockin' on Heaven's Door?), una gran delusione.

Intendiamoci, in superficie sembra davvero di guardare Cowboy Bebop. Ci sono Spike e la ciurma dell'indimenticabile astronave, animazioni da infarto, commistioni spettacolari tra musica e immagini, un villain apparentemente intrigante, silenzioso e letale, che vorrebbe scimmiottare l'indimenticabile Vicious della serie tv. Ma nulla di tutto questo convince, è tutta apparenza. Quanto più il film tenta di far respirare lo spirito del passato, tanto più questo è contraddetto e rovinato da atmosfere esageratamente seriose. Giacché se ne dica, il vero punto di forza della serie televisiva non sono gli ottimi personaggi, né le grandi musiche o le animazioni all'avanguardia. Bensì, semplicemente, la sua semplicità. La semplicità di un soggetto quasi basico, ma scritto così divinamente da rendere mozzafiato quasi 20 episodi semplicemente riempitivi, di livello così alto da far dimenticare la loro futilità ai sensi della (breve) trama principale. Qui in ogni momento Watanabe e la sceneggiatrice Keiko Nobumoto cercano il capolavoro, riprendendo atmosfere cupe e pachidermiche dei thriller di Oshii e inventandosi un noir cupo e serioso assurdamente intricato. Ma tutto questo, purtroppo per loro, non è Cowboy Bebop.


I personaggi classici sono ombre rispetto al passato, quelli nuovi (il villain Vincent e la bella Electra) mal sfruttati e, sopratutto, non c'è un solo momento in cui la storia riesca a interessare. Shinichiro Watanabe, incredibilmente svogliato dietro a quella che è forse la grande occasione della vita per garantirsi una lauta pensione, dirige una storia contorta, noiosa e confusionaria con lo stesso spirito di uno scolaro costretto a fare i compiti a casa: non una graffiata d'autore, non un guizzo per rendere appassionante ai fan quella che, in fine dei conti, è una side-story (l'avventura è ambientata tra gli episodi 22 e 23 della serie tv) senza ripercussioni, non un solo tentativo di scacciare la noia che regna imperante nelle lunghe due ore di film, rette su dialoghi boriosi e sequenze action banali e senza stile. Tutto è freddo, tecnicamente perfettino ma emotivamente insignificante.

Risulta difficile pensare che dietro i creatori di questo film ci siano i geni della meravigliosa serie animata del 1998, eppure i risultati parlano chiaro: Cowboy Bebop - Il Film è una delusione sotto ogni punto di vista, una produzione ambiziosa ma mal scritta, distantissima dalle atmosfere scanzonate dell'opera di riferimento e capace, paradossalmente, di dire qualcosa sopratutto a chi non ha mai visto quest'ultima. Per gli altri, inutile ribadirlo, una visione che è un affronto a un grande passato, immeritevole di essere infangato così. (Never) see you again, space cowboy!

Voto: 5,5 su 10

MUST SEE
Cowboy Bebop (1998-1999; tv)

giovedì 25 marzo 2010

Recensione: Cowboy Bebop

COWBOY BEBOP
Titolo originale: Cowboy Bebop
Regia: Shinichiro Watanabe
Soggetto: Hajime Yatate
Sceneggiatura: Keiko Nobumoto
Character Design: Toshihiro Kawamoto
Mechanical Design: Kimitoshi Yamane
Musiche: Yoko Kanno
Studio: Sunrise
Formato: serie televisiva di 26 episodi (durata ep. 24 min. circa)
Anni di trasmissione: 1998 - 1999
Disponibilità: edizione italiana in dvd a cura di Dynit

 
Anno 2071: Spike Spiegel, in passato abilissimo sicario, e Jet Black, ex-poliziotto, sono due space cowboy, cacciatori di taglie, che a bordo dell'astronave Bebop scorazzano per il sistema solare a guadagnarsi il pane catturando ricercati, cercando di dimenticare dei passati tragici. Nel loro viaggio stringeranno amicizia con quelli che diverranno nuovi membri della ciurma, finendo con l'affrontare, insieme a loro, più volte i propri fantasmi...

Il 1998 e il 99 saranno ricordati lungo come l'apice, in casa studio Sunrise, dell'esplorazione di nuove strade narrative. Sono gli anni della riconferma dell'estro dei grandi registi, di storie estremamente adulte e cervellotiche, di alti budget spesi per animare storie dal soggetto talentuoso. Nondimeno, l'anno dell'esplosione di nuovi talenti registici. In un biennio glorioso in cui vedono la luce Brain PowerdThe Big O e Infinite Ryvius, non bisogna dimenticare la meritatissima risonanza mondiale ottenuta dal capolavoro Cowboy Bebop, una di quelle produzioni capaci di convincere anche il detrattore più scettico dell'animazione made in Japan delle sue potenzialità creative. Tanto da ergersi, insieme a Evangelion, Utena ed Escaflowne, come uno degli anime televisivi più popolari degli anni '90.

Shinichiro Watanabe, regista sconosciuto ai più anche se dietro la vice-regia del noto Macross Plus, è un talento a lungo inespresso e dal grande potenziale, ed è solo con Cowboy Bebop che firma, finalmente, l'opera della carriera, facendo conoscere il suo nome al grande pubblico ed entrando di prepotenza nell'empireo dei migliori registi. Ma cos'è innanzitutto Cowboy Bebop? Un noir? Una sgangherata commedia fantascientifica? Un thriller dalle venature ironiche? Si può definire, quasi sulla falsariga dello storico Patlabor, una sorta di slice of life, almeno per larghi strati della sua durata. Un genere caratterizzato dalla quasi inesistenza di storia portante, retto su episodi che rappresentano ritagli di vita generale di personaggi qualunque. Potenziale tedio se la vita dei protagonisti è noiosa o loro stessi sono poco interessanti, ma spettacolo se espresso dalle personalità giuste. In questo contesto eroi sono cacciatori di taglie spaziali alle prese, in ogni episodio, con una nuova, avvincente avventura data da inseguimenti, scazzottate e sparatorie in giro per un civilizzato sistema solare del futuro. Avventure sorprendentemente varie e che affrontano ogni genere narrativo (noir, horror, comico, anche western), legate da un disegno portante che si rivela solo a serie inoltrata.

 

Quella che è la grande particolarità della serie, vera innovazione creata e portata avanti da Watanabe in tutte le sue opere successive, è una felicissima commistione musica-immagini, già richiamata dall'opening strumentale Tank! che, col suo virtuosismo, i tempi veloci, l'improvvisazione e la struttura armonica, inaugura i propositi di sperimentazionale musicale del Bebop nel titolo. La soundtrack di una Yoko Kanno mai più così conosciuta in Italia si ricorderà per la grande, variegatissima quantità di tracce, ognuna a tema con le atmosfere particolari suscitate da ogni episodio: tra jazz, funk, blues, soul, ritmiche tribali e molti altri stili, si forma uno dei più celebri accompagnamenti musicali della Storia dell'animazione. Colonna sonora che, accompagnata a fluidissime animazioni - dove arti e articolazioni si flettono in movimento con un realismo a dir poco straordinario - e alla regia di Watanabe, consegna ai posteri tracce indelebili di vero cinema. Le capacità tecniche del regista sono fuori discussione: a suo agio, come fosse la cosa più normale del mondo, ad animare eleganti scene introspettive o anche duelli o inseguimenti grondanti adrenalina, sfrutta la OST per realizzare sequenze strabilianti, dove udito e vista sono contemporaneaente sollecitati da immagini, idee e accoppiamenti così strabilianti da far raggiungere l'orgasmo dei sensi (ricordando talvolta, a mio parere, addirittura il miglior Kubrick).

Da non dimenticare neanche la stravaganza di villain, avvenimenti e situazioni che la crew del Bebop deve incontrare in ogni avventura - a indicare la grande versatilità della sceneggiatrice Keiko Nobumoto -, o la palesissima cifra stilistica giapponese che traspare nella caratterizzazione fisica di questo futuro iper-tecnologico, dove assassini con la katana e donne dall'abbigliamento succintissimo suggeriscono in ogni inquadratura la nazionalità dello staff Sunrise e un erotismo elegante dato dal suggerimento di corpi eccitanti, occhi languidi o sguardi di ghiaccio. Merito di questo va ricondotto anche al contributo al chara design di Toshihiro Kawamoto, già celebre per i lavori gundamici di Stardust Memory e The 08th MS Team, che in Cowboy Bebop continua a ipnotizzare con un segno estremamente realistico e seducente, ben risaltato dall'azzeccato uso dei primi piani.

La vera forza espressiva di Cowboy Bebop non risiede però né nella magniloquenza visiva né nella straordinaria colonna sonora, perchè è la semplicità la vera grande gemma del lavoro di Shinichiro Watanabe. Non servono necessariamente storie complesse per creare buona animazione, bastano anche solo poche, buone idee chiare in testa. Un simpatico gruppo di personaggi ben caratterizzati, puntate semplici ma ben scritte e un villain finale convincente sono elementi più che sufficienti per ricavare una produzione di qualità. Cowboy Bebop è un inno alla semplicità, al divertimento, al piacere di affezionarsi ai protagonisti e alle loro vicende personali, pur non mancando in tutto questo, all'occorrenza, anche intermezzi seriosi e addirittura atmosfere cupe e pulp, focalizzate nello sviscerare il passato di Spike e i suoi rapporti col malvagio Vicious. Un finale epico consegna infine al mito uno dei capolavori per eccellenza degli anni 90.


Cowboy Bebop è una di quelle poche visioni veramente irrinunciabili per un appassionato di animazione, una di quelle costose licenze Sunrise il cui arrivo qui merita di essere benedetto al cielo. Se a questo aggiungiamo un doppiaggio italiano STRAORDINARIO, tra i migliori di sempre, e un adattamento quasi perfetto (il "quasi" è da riferirsi a giusto un paio di errori non voluti, a cui pongono rimedio i due boxoni Dynit integrando la correzione nei sottotitoli), non c'è alcuna scusante per non vederlo. Peccato unicamente per la carriera di Shinichiro Watanabe, che dopo l'opera di debutto realizzerà poco e senza più esiti così felici.

Voto: 9 su 10

SIDE-STORY
Cowboy Bebop: Il Film (2001; film)

venerdì 19 febbraio 2010

Recensione: Macross Plus - Movie Edition

MACROSS PLUS: MOVIE EDITION
Titolo originale: Macross Plus - Movie Edition
Regia: Shoji Kawamori, Shinichiro Watanabe
Soggetto: Studio Nue, Shoji Kawamori
Sceneggiatura: Keiko Nobumoto
Character Design: Masayuki
Mechanical Design: Shoji Kawamori, Kazutaka Miyatake
Musiche: Yoko Kanno
Studio: Triangle Staff
Formato: lungometraggio cinematografico (durata 115 min. circa)
Anno di uscita: 1995



Sono passati 28 anni dalla grande migrazione spaziale di uomini e zentradi dalla Terra, e ora la razza terrestre si è espansa creando un imponente numero di colonie disseminate per tutto il cosmo. Anno 2040, pianeta Terra, Macross City: la tecnologia si è ormai così evoluta da generare intelligenze artificiali tendenti all'autocoscienza come Sharon Apple, acclamatissima idol cibernetica che, collegandosi con il corpo umano della bella Myung Fang Lone, dà voce alle canzoni immaginate da quest'ultima. Myung è una bella ma malinconica ragazza, provata dai terribili fatti del passato che hanno posto fine alla sua forte amicizia con l'umano Isamu Alva Dyson e lo zentradi Guld Goa Bowan, ora piloti rivali di Variable Fighter di due compagnie diverse nel progetto federale Super Nova, e non sa decidersi se valga la pena riaprire con loro un dialogo. La situazione si sblocca quando i due dovranno mettere da parte le ostilità e allearsi per forza contro Sharon che, entrando così tanto in sintonia con Myung da provare i suoi stessi sentimenti, va in tilt finendo con l'impazzire, imprigionandola e e poi prendendo possesso del vecchio vascello stellare SDF-1 Macross, attorno a cui è costruita la metropoli.

Un solo mese dopo la pubblicazione dell'ultimo episodio di Macross Plus (1994), è tempo per la miniserie di rifarsi il trucco e uscire al cinema in una fiammante nuova versione filmica, attestando nuovamente la passione da parte del suo creatore di riraccontare la storia con modifiche e aggiustamenti vari, secondo la concezione, da lui stesso ribadita fin dai tempi di Do You Remember Love? (1984), di visioni diverse su di una stessa vicenda, in modo che solo guardandole entrambe si possa capire come siano "andati per davvero" gli immaginari fatti storici di cui si parla. Nel caso di Macross Plus, poi, il discorso cambia un po', visto che il suo adattamento cinematografico altri non è che un "ritorno" all'idea iniziale di quell'opera, configurata fin da principio come un film e solo dopo trasformata in serie home video - si legge infatti in giro (ma mancano fonti ufficiali), che il lungometraggio si basi proprio sulla primissima sceneggiatura scritta da Keiko Nobumoto, quella nata appunto per il Macross Plus cinematografico. Non sarà dunque un caso, perciò, se l'esile trama originaria, eccessivamente dilatata nei 4 sonnolenti OVA, si riscopra meglio raccontata e nel complesso più riuscita nella seconda versione. In verità, la sostanza non è che cambi chissà quanto (come si può leggere nella votazione, passiamo a una ordinaria sufficienza e niente più di questo), ma almeno molte delle insopportabili lungaggini passate ci sono state risparmiate: ne traggono beneficio la vicenda principale dell'autocoscienza di Sharon, meglio approfondita, e, perché no, anche i turbamenti amorosi di Isamu, Guld e Myung, risparmiati da masturbazioni mentali e migliorati in caratterizzazione dei rapporti interpersonali (pur senza esagerare).

A dispetto di Do You Remember Love?, la Movie Edition di Macross Plus non è ridisegnata e rianimata da zero: si configura invece come un classicissimo film riassuntivo ottenuto con un nuovo rimontaggio delle vecchie scene, con circa 20 minuti di animazione inedita. Si poteva fare di più, d'accordo, ma i miglioramenti sono notevoli, i raccordi tra le scene perfetti e soprattutto le scene inedite sono così spettacolari da dare l'impressione che il tutto sia nuovo di zecca e non minestra rimescolata con qualche ingrediente in più: cambiano le sequenze d'apertura e di chiusura; molte sequenze, pur portando allo stesso risultato, vengono modificate in particolari vistosi; i platonici sentimentalismi sfociano finalmente in sesso (suggerito), le sequenze più acclamate di battaglie aeree vengono allungate a dismisura e con nuove soluzioni visive; le morti dei personaggi diventano più epiche ed eroiche, e alcuni tratti delle caratterizzazioni di alcuni attori sono modificati. Anche le spettacolari esibizioni live di Sharon sono arricchite da nuove fighetterie estetiche particolarmente intriganti.


È pacifico che non si possano fare miracoli: la storia, pur coi suoi toni oscuri, continua a essere un mero pretesto per aggiornare Macross agli anni '90 e rimane, nel complesso, una classica storiella d'amore adolescenziale interpretata da adulti particolarmente inverosimili e antipatici, che cerca di prendersi più seriamente di quello che è con atmosfere tenebrose, violenza ed epici scontri tra robot, ma chi riesce ad apprezzarlo nonostante questo avrà di che divertirsi, con un lavoro che migliora sensibilmente i mediocri OVA.
Macross Plus (1994-1995: serie OVA)

SEQUEL
Macross 7 (1994-1995; TV)
Macross 7 The Movie: The Galaxy's Calling Me! (1995; film)
Macross Dynamite 7 (1997-1998; serie OVA)
Macross Frontier (2008; TV)
Macross Frontier The Movie: The False Diva (2009; film)
Macross Frontier The Movie: The Wings of Goodbye (2011; film)
Macross FB7: Listen To My Song! (2012; film)
Macross Delta (2016; TV)
The Super Dimension Fortress Macross II: Lovers Again (1992; serie OVA)

giovedì 18 febbraio 2010

Recensione: Macross Plus

MACROSS PLUS
Titolo originale: Macross Plus
Regia: Shoji Kawamori, Shinichiro Watanabe
Soggetto: Studio Nue, Shoji Kawamori
Sceneggiatura: Keiko Nobumoto
Character Design: Masayuki
Mechanical Design: Shoji Kawamori, Kazutaka Miyatake
Musiche: Yoko Kanno
Studio: Triangle Staff
Formato: serie OVA di 4 episodi (durata ep. 40 min. circa)
Anni di uscita: 1994 - 1995
Disponibilità: edizione italiana in DVD & Blu-ray a cura di Dynit


Sono passati 28 anni dalla grande migrazione spaziale di uomini e zentradi dalla Terra, e ora la razza terrestre si è espansa creando un imponente numero di colonie disseminate per tutto il cosmo. Anno 2040, pianeta Terra, Macross City: la tecnologia si è ormai così evoluta da generare intelligenze artificiali tendenti all'autocoscienza come Sharon Apple, acclamatissima idol cibernetica che, collegandosi con il corpo umano della bella Myung Fang Lone, dà voce alle canzoni immaginate da quest'ultima. Myung è una bella ma malinconica ragazza, provata dai terribili fatti del passato che hanno posto fine alla sua forte amicizia con l'umano Isamu Alva Dyson e lo zentradi Guld Goa Bowan, ora piloti rivali di Variable Fighter di due compagnie diverse nel progetto federale Super Nova, e non sa decidersi se valga la pena riaprire con loro un dialogo. La situazione si sblocca quando i due dovranno mettere da parte le ostilità e allearsi per forza contro Sharon che, entrando così tanto in sintonia con Myung da provare i suoi stessi sentimenti, va in tilt finendo con l'impazzire, imprigionandola e e poi prendendo possesso del vecchio vascello stellare SDF-1 Macross, attorno a cui è costruita la metropoli.

La serie home video Macross Plus è sicuramente uno degli esponenti più famosi e acclamati del lungo franchise di Macross. I suoi 4 episodi, usciti tra il 1994 e il 1995, segnavano al tempo una sorta di spartiacque: con la loro stellare confezione tecnica, data da animazioni spaccamascella, disegni meccanici di una complessità disumana, scene d'azione aerea dall'epico gusto cinematografico e una commistione magistrale tra disegni tradizionali e avanzatissima CG, sconvolsero il pubblico diventando prestissimo un autentico cult - soprattutto in America, dove è praticamente ancora oggi venerato come il "Messia" dell'animazione insieme ai soliti Akira (1988), Ninja Scroll (1993), Mobile Suit Gundam Wing (1995), Neon Genesis Evangelion (id.) e Ghost in the Shell (id.). Anche oggi, dopo oltre 20 anni, la miniserie continua ad ammaliare in questi elementi di estrema spettacolarità, al punto che il suo stesso creatore Shoji Kawamori ammette che in questo lavoro trovano spazio molte delle sue scene preferite della saga1. Ma l'autore non aveva precedentemente giurato che non avrebbe mai più lavorato su Macross?

Si era rimasti al punto, a inizio anni '90, in cui Kawamori aveva messo una pietra tombale sopra ogni idea di dare un seguito all'opera storica, tanto da non sporcarsi neanche le mani con l'orribile The Super Dimension Fortress Macross II: Lovers Again (1992), ostinatamente voluto dal produttore Big West. Diceva (come ben sappiamo) che qualsiasi seguito avrebbe fatto perdere freschezza all'originale, e, in aggiunta a questo, in quel periodo le sue convinzioni otaku vacillavano fortemente di ritorno da un angoscioso viaggio in Cina, che gli fece scoprire (parla addirittura di shock culturale) che lì i bambini privi di televisione erano mediamente più intelligenti di quelli giapponesi che ce l'avevano2 (alla faccia di sfruttare l'animazione per far maturare i ragazzi!). L'idea di tornare a dirigere un lavoro senza pretese, insomma, non gli piaceva per niente3. Succede però che, all'indomani di un'offerta del produttore Minoru Takanashi di Bandai per realizzare dei nuovi Macross4, ci ripensi, prenda tempo e alla fine accetti: vuole parlare di cose per lui di una certa importanza sociale (nel caso dell'opera qui recensita, il lavaggio del cervello con la tecnologia "droga" le persone5, da inquadrarsi nell'A.I. Sharon, e, ovviamente, il pericolo del devolvere troppo potere alla macchine), e per farlo giunge all'amara conclusione che è più facile convincere gli sponsor a finanziare un'opera con "Macross" nel titolo che un progetto davvvero originale e indipendente6. Della sua abbandonata intenzione di non dire mai più nulla sulla saga sopravvive giusto l'ostinazione di non utilizzare più il cast storico formato di Hikaru Ichijo, Lynn Minmay e Misa Hayase: da Macross Plus in poi, a ogni nuova incarnazione animata (sì, superato lo scoglio, Kawamori tirerà poi fuori un Macross dopo l'altro), ambientata sempre in periodi precisi di una complessa timeline, i personaggi si rinnovano, seguendo la moda di Gundam.


La miniserie prende forma: ad animare è scelto lo studio Triangle Staff; Kawamori scrive il soggetto ignorando completamente l'esistenza di Macross II (affermando di non averlo neanche mai voluto vedere7), realizza il mecha design, cura gli storyboard e supervisiona i lavori, e per musiche e regia sono scelti due giovani, enormi talenti che nel futuro entreranno nel mito e che già qui realizzano un loro personale capolavoro: Yoko Kanno e Shinichiro Watanabe. Con i suoi 4 episodi da 40 minuti l'uno e un budget mastodontico, Macross Plus, come l'originale del 1982, fa la Storia per la sua potenza estetica e sonora. Ma, a dispetto delle ambizioni del suo creatore e delle tante belle premesse, l'opera paga dazio nel porre l'intero motivo di interesse principalmente su questi elementi di superficie, trascurando nettamente il resto.

Le primizie grafiche sono una figata, basate su scatenati e lunghissimi duelli aerei di Variable Fighter (Ichiro Itano, addetto alle coreografie aeree, per realizzarle al meglio possibile viaggerà negli USA per assistere a vere acrobazie di caccia statunitensi!8), su scontri di possente fisicità tra le loro scintillanti versioni antropomorfe (capaci di distruggere realisticamente tutto ciò che sta loro intorno attraverso una fisica degli impatti sbalorditiva), su fondali complessi e curati nel minimo dettaglio e grandi effetti speciali. L'accostamento tra Computer Grafica di alto livello e animazione tradizionale è integrato alla perfezione, le animazioni spaccano lo schermo nelle sequenze action, e l'esordiente Watanabe, con il classico entusiasmo dei debuttanti, offre una regia pirotecnica, zeppa di inquadrature e sequenze vorticose che già sondano il terreno per le cose che si vedranno nel suo Cowboy Bebop (1998) (per quanto il merito nella resa delle scene d'azione spetta molto anche a Kawamori, il loro principale realizzatore negli storyboard9). Lo sfarzo è accompagnato dalle ipnotiche tracce musicali della Kanno, futura regina delle colonne sonore di serie animate, che tira fuori dal cilindro un lavoro magnetico e angosciante, brani elettronici tribal-house, techno, trance e ambient (in contrapposizione col J-Pop facilotto della prima serie), fatti cantare alla idol artificiale Sharon, che ben attestano l'inquietante cifra cyberpunk del titolo. Escluso il chara design adulto e realistico ma al contempo davvero fighetto e impersonale a opera dell'artista noto con lo pseudonimo di Masayuki (fuori luogo in special modo se rapportato ai poetici disegni dello storico chara designer Haruhiko Mikimoto), il risultato imbastito supera abbondantemente la pochezza di un plot più che insipido - giacché Kawamori in futuro si vanterà10 di essere venuto a conoscenza (da parte di Itano che l'ha sentito a sua volta da produttori cinematografici hollywoodiani) che Stealth, film del 2005 di Rob Coen (in Italia Stealth - Arma suprema) sia stato pesantemente ispirato proprio dalla sua opera. Purtroppo, al momento di tirare le somme Macross Plus si rivela, al di là delle intenzioni di "denuncia sociale" (cos'altro c'è da dire sull'argomento dopo Megazone 23?) e delle atmosfere cupissime e drammatiche, la stessa, identica solfa del passato, un triangolo sentimentale che sovrasta tutto (chi sceglierà Myung tra Isamu e Guld?), con contorno di A.I. impazzite, rivalità amorose (questa volta sono i due uomini a contendersi la bella), virili scazzottate e atmosfere muscolose e cameratesche e scontri volanti che strizzano l'occhio a Top Gun (Tony Scott, 1986).

La storia di possessione cibernetica di Kawamori non riesce mai, neanche un secondo, a essere interessante, analizzata in modo così superficiale: il succo si riconduce alla fin fine alle semplici paturnie amorose, che ahimè non colpiscono neanche minimamente, peccando in protagonisti tanto ostinatamente bellocci in design e atteggiamenti quanto piattissimi in interesse, tanto da risultare istantaneamente antipatici, rendendo vuote le sequenze drammatiche/romantiche che li riguardano. In aggiunta a questo la sceneggiatura è annacquata da troppe parentesi inutili, figlie delle infelici vicissitudini produttive del progetto: Macross Plus nasce inizialmente come filmone cinematografico11 (e la sceneggiatrice Keiko Nobumoto scrive appunto la sceneggiatura pensando a quel formato12), salvo trasformarsi - probabilmente per incrementare gli utili - in una serie home video, allungando notevolmente il brodo di un soggetto già di suo sterile. Il risultato finale si esprime in 4 lunghi e noiosi episodi colmi di paturnie amorose che, escluso l'ultimo (improntato sull'azione), non offrono nient'altro a parte la patina spettacolare e qualche isolato momento suggestivo (gli "ectoplasmatici" concerti di Sharon), affogati in scene inutili, sottotrame pretestuose (il progetto Super Nova) e romanticherie platoniche che fanno cadere le braccia, più avvicinabili a un Harmony che a una sincera storia amorosa. Si arriva al punto di odiare le rivalità tra i due protagonisti per contendersi Myung e trovare patetiche le masturbazioni mentali di questi adulti che si comportano come adolescenti, in particolare la bella contesa che continua ad arrovellarsi per decidere quale sarà il fortunato che starà con lei (scelta finale, ovviamente, prevedibilissima sin dal primo istante).

Kawamori ricerca così tanto l'immagine spettacolare negli elementi secondari da trascurare quelli primari. La confezione dell'opera è puro fanservice fine a sé stesso, impossibilitato a reggere la baracca da solo scongiurando una noia che si fa, inevitabilmente, strada fin da subito per la banalità narrativa. Di momenti d'azione memorabili Macross Plus ne offre parecchi e sotto questo punto di vista sa ancora stuzzicare il palato, ma può solo ambire a questo, non riuscendo a saziarlo per il resto. Tutto sommato, regia e cornice a parte, niente di troppo diverso dall'infausto Macross II.


Nota: per qualche strana ragione, Macross Plus è ad oggi l'unico Macross sfuggito in qualche modo alla guerra fratricida tra Big West ed Harmony Gold in merito alla distribuzione estera dei titoli della saga. In Italia abbiamo avuto parecchie edizioni della serie, l'ultima delle quali, nel 2013, a cura di Dynit. I fan si rivolgano a quest'ultima, l'unica forte sia dell'alta definizione che dei sottotitoli fedeli, che permettono di godere dell'opera senza il mediocre doppiaggio italiano, basato sull'adattamento americano di Manga Video pieno di modifiche e dialoghi volgarizzati per sembrare più adulti.

Voto: 5,5 su 10

PREQUEL
Macross Zero (2002-2004; serie OVA)
Fortezza Super Dimensionale Macross (1982-1983; TV)
The Super Dimension Fortress Macross: Do You Remember Love? (1984; film)
The Super Dimension Fortress Macross: Flash Back 2012 (1987; OVA)

SEQUEL
Macross Plus: Movie Edition (1995; film)
Macross 7 (1994-1995; TV)
Macross 7 The Movie: The Galaxy's Calling Me! (1995; film)
Macross Dynamite 7 (1997-1998; serie OVA)
Macross Frontier (2008; TV)
Macross Frontier The Movie: The False Diva (2009; film)
Macross Frontier The Movie: The Wings of Goodbye (2011; film)
Macross FB7: Listen To My Song! (2012; film)
Macross Delta (2016; TV)
The Super Dimension Fortress Macross II: Lovers Again (1992; serie OVA)


FONTI
1 Booklet "Macross Plus: The Ultimate Edition" (allegato al DVD/Blu-ray "Macross Plus", Dynit, 2013), "Ecco come è nato Macross Plus", pag. 3
2 Come sopra
3 Come sopra
4 Intervista a Shoji Kawamori pubblicata in "Anime Interviews: The First Five Years of Animerica Anime & Manga Monthly (1992-97)" (Cadence Books, 1997, pag. 114)
5 Vedere punto 1
6 Vedere punto 4, a pag. 112-113
7 Come sopra, a pag. 114
8 Wikipedia giapponese di "Macross Plus". Ringrazio Garion-Oh (Cristian Giorgi, traduttore GP Publishing/J-Pop/Magic Press e articolista Dynit) per la traduzione
9 Booklet "Macross Plus: The Ultimate Edition", pag. 7
10 Intervista a Kawamori pubblicata nella pagina web http://www.forbes.com/sites/olliebarder/2015/12/10/shoji-kawamori-the-creator-hollywood-copies-but-never-credits/#53d925661683
11 Vedere punto 8
12 Wikipedia inglese di "Macross Plus" (la notizia è riportata priva di fonti, ma è indirettamente "confermata" dal punto sopra)

DISCLAIMER

Questo blog non rappresenta una testata giornalistica, viene aggiornato senza alcuna periodicità e pertanto non può considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della legge 7 marzo 2001 n. 62. Molte delle immagini presenti sono reperite da internet, ma tutti i relativi diritti rimangono dei rispettivi autori. Se l’uso di queste immagini avesse involontariamente violato le norme in materia di diritto d’autore, avvisateci e noi le disintegreremo all’istante.