giovedì 9 febbraio 2012

Recensione: Pom Poko

POM POKO
Titolo originale: Heisei Tanuki Gassen Ponpoko
Regia: Isao Takahata
Soggetto: (basato sul romanzo originale di Kenji Miyazawa)
Sceneggiatura: Isao Takahata
Character Design: Shinji Otsuka
Musiche: Koryu, Manto Watanobe, Yoko Ino, Masaru Goto, Ryojiro Furusawa
Studio: Studio Ghibli
Formato: lungometraggio cinematografico (durata 119 min. circa)
Anno di uscita: 1994
Disponibilità: edizione italiana in DVD & Blu-ray a cura di Lucky Red


Giappone, anni '60: l'urbanizzazione causata dal boom economico inizia a erodere gli spazi verdi per far spazio a quella che sarà la moderna Tokyo. Intere aree boschive sono sventrate dagli escavatori e a farne le spese sono le creature della foresta. Fra queste ci sono i tanuki, i cani viverrini, che tempo dopo, nei primi anni dell'Era Heisei (i '90), non potendone più, decidono di contrastare gli umani sfruttando l'antica e quasi dimenticata arte della metamorfosi. Per far questo mettono da parte le lotte fra clan e si uniscono in un piano che però procede a fatica, fra l'impossibilità di fermare davvero l'urbanizzazione, i tentativi di far credere agli umani che le colline siano stregate e le divergenze intestine sulla reale direzione verso cui far convergere le loro azioni.

Il parere del Di Giorgio

L'idea che i tanuki possiedano l'arte della metamorfosi è profondamente radicata nella cultura e nel folklore giapponese e non stupisce che Isao Takahata, nel comporre questo suo sorprendente capolavoro, a tal punto la dia come dato inoppugnabile da sfruttarla in senso espressivo: la capacità metamorfica dei cani procione, infatti, non è soltanto propedeutica alle svolte impresse alla narrazione attraverso la dicotomia umani/animali, ma serve a porre le due categorie sullo stesso piano (abbattendo le differenze fisiche) e a esprimere i vari stati d'animo dei personaggi. In questo senso si passa, senza alcuna soluzione di continuità, dalla forma animale a quella antropomorfa, transitando per stadi intermedi dove le sagome sono più indefinite: il tutto obbedisce ai sentimenti e alla relazione che in quel momento ogni tanuki intrattiene con l'ambiente circostante, e serve a ribadire lo stato di incertezza o di euforia o di inadeguatezza.

La scelta di modulare il tono del racconto sulla base della forza visiva legata alla capacità metamorfica dei tanuki pone fin da subito Pom Poko come un inno fantastico al processo creativo connaturato a quell'animazione che ha sempre prediletto l'uso di animali “umanizzati”: tale scelta finisce così per rimarcare una cifra universale (e trasversale) che va oltre la caratterizzazione profondamente nipponica del racconto. È infatti indubbio che lo spettatore occidentale possa sentirsi disorientato di fronte alla moltitudine di riferimenti che Takahata inserisce rispetto ai miti e alle tradizioni folkloristiche giapponesi (tanto che sarebbe consigliabile l'uso di appositi glossari integrativi alla visione), ma è pur vero che il linguaggio narrativo e visivo è comunque capace di raggiungere una dimensione universale perché pesca a piene mani dal reale e da sentimenti profondamente condivisi dal pubblico di ogni latitudine. In questo senso Takahata rinnova una volta di più il suo piacere per una dicotomia che, nei fatti, preferisce evidenziare i punti di contatto piuttosto che quelli di differenza. Ecco dunque che la sua visione del fantastico non può mai prescindere dal reale: sebbene le continue visioni di cui è infarcito il film non nascondano un piacere quasi infantile della creazione per immagini, esse non sono mai disgiunte da uno sguardo molto lucido sulla Storia e la società nipponiche, al punto che la natura antropomorfa dei tanuki offre anche più di uno spunto satirico verso abitudini profondamente umane della società giapponese, in particolare per ciò che riguarda il rapporto con la memoria, la gerarchia e gli adulti. Qui si avvertono echi dell'indiscusso capolavoro dell'autore, il celebre La tomba delle lucciole (1988), dove pure l'ideale edenico incarnato da un'infanzia che cercava di rifuggire il rapporto con una realtà difficile trovava la sua ragione d'essere in rapporto alla stessa (che alla fine arrivava a vincere la sua partita).


Stavolta il gioco si fa ancora più sfumato, perché il regista non nasconde l'amarezza per la transizione verso un processo di urbanizzazione condotto in modo anche selvaggio, ma evita ogni tono inquisitorio verso ciò che inevitabilmente avverte come una deriva inevitabile, dei cui effetti si accorgono per primi gli stessi tanuki attraverso l'esperienza diretta: basti pensare non solo alle scene più esilaranti come quelle in cui li vediamo appassionarsi ai programmi televisivi, ma anche alla loro spiccata preferenza per gli edifici abbandonati dagli uomini ed eletti a loro rifugio. Il potere dei cani procione, di conseguenza, diventa non tanto un artificio magico disgiunto dal contesto, ma piuttosto un elemento che permette il ritorno a un immaginario condiviso dagli stessi umani, che non a caso sono tanto atterriti dalle presenze evocate dagli animali quanto affascinati dalle stesse, perché le riconoscono come parte di un proprio bagaglio.

Prevale, anche nei cittadini del film, una sorta di gioia estatica per la cifra meravigliosa messa in campo dai tanuki e dallo stesso Takahata, in un gioco di rispecchiamenti che naturalmente include lo spettatore stesso. Non a caso, a prevalere fra il contrasto evidente di amarezza e dispiacere per il tempo passato e l'inevitabile durezza dello scontro che porterà al presente è soprattutto il divertimento, che passa per un ritmo narrativo sempre molto sostenuto, e per un tono mutevole e capace di illustrare una ampia gamma di emozioni, senza risparmiare chiaramente momenti più drammatici, ma in generale abbandonando il racconto a un piacere dell'essere messinscena di un disegno composito. Pochi registi come Isao Takahata sono infatti in grado di riassumere in un'unica opera il piacere della narrazione e la gioia del vivere ogni emozione come patrimonio indissolubile del processo creativo, ed è questo a scatenare la commozione più sincera davanti alle sue opere e a rinnovare a ogni inquadratura la sorpresa e l'entusiasmo per la loro straordinaria ricchezza artistica e umana.

Voto: 9 su 10

Il parere del Mistè

Lodevolissimo nei suoi messaggi ecologisti (del resto sponsorizzato dalla JA, la Confagricoltura giapponese1) ma a mio modo di vedere, purtroppo, completamente fallimentare nella sua realizzazione, Pom Poko (1994), il film sicuramente più "difficile" e profondamente giapponese dello Studio Ghibli, arriva ufficialmente in Italia a diciassette anni dalla proiezione nelle sale nipponiche. Per il suo terzo ambizioso lavoro con lo studio, costato due anni e mezzo di lavorazione2, Isao Takahata scrive e dirige, ispirato nuovamente (come in Goshu, il violoncellista, 1982) da un racconto dello scrittore/poeta Kenji Miyazawa (Le stelle gemelle, 1918, pubblicato in Italia dalla rivista Il Giappone), la bizzarra storia di una comunità di tanuki in lotta con gli umani per arrestare il progetto di urbanizzazione che sta distruggendo il loro habitat. In patria, l'opera ottiene un altro successo monolitico come la precedente opera del regista, Pioggia di ricordi (1991) (incassa 2 miliardi e 650 milioni di yen nella sola stagione di presentazione, ed è il secondo incasso assoluto dell'anno3), e, come Porco Rosso (1992) di Hayao Miyazaki, vince i premi fondamentali di critica in casa e ad Annecy4. Eppure, a mio modo di vedere, abbiamo un lungometraggio forbitissimo e pregno della cifra intellettuale del suo autore, ma al contempo mal riuscito in ogni possibile pretesa di intrattenimento e comunicazione, incapace di non risultare noioso e interminabile a dispetto delle ottime intenzioni (e in questo risiede la mia grande sorpresa, per il fatto che nonostante questo sarà campione d'incassi ai box office).

Anche se "interpretato" da buffi tanuki antropomorfi, Pom Poko indubbiamente non è e non è mai stata una pellicola dedicata ai bambini. Troppo facile citare l'argomento politicamente impegnato che li allontanerebbe (una favola ecologista contro l'urbanizzazione di Tokyo?) e il fatto che in questo "conflitto", pur condotto con fare apparentemente allegro, muoiano per davvero tanuki e umani. D'altro canto, il film si contraddistinguerà per essere impegnativo anche per gli adulti dagli occhi a mandorla5, data la notevole complessità linguistica. A prestare la voce ai tanuki sono infatti famosi attori di Rakugo6 (antica forma di teatro comico giapponese), noti per il linguaggio serrato e veloce, il racconto "a monologo" e il loro prendere i panni, talvolta, degli stessi personaggi di cui raccontano le gesta. Il narratore è un degno esponente della categoria in questo senso: oltre a tutto questo, rende la comprensione ancora più difficoltosa con il suo uso di metafore, arcaici giochi di parole o modi di dire e discorsi diretti che iniziano di punto in bianco in mezzo a quelli indiretti7 (tanto che lo stesso traduttore e dialoghista italiano del film, Gualtiero Cannarsi, riferirà di un impiegato Ghibli che gli ha confermato come pure loro non riescono a capirlo a meno che non si sforzino di seguire con grande concentrazione8). Come se non bastasse, il clan di tanuki usa un modo di esprimersi da militante sessantottino (specialmente i riferimenti ai piani quinquennali per liberarsi dal giogo umano) e ognuno di essi utilizza dizioni specifiche delle rispettive aree linguistiche e spesso canta o cita antiche canzoni, poesie o filastrocche giapponesi9. Tutto perché l'obiettivo del regista, come da sua personale cifra stilistica, prima ancora di parlare di politica è, in verità, di usare come pretesto la guerra tra le creature e gli umani per parlare ancora una volta dello scontro di valori e modi di pensare tra generazioni differenti per evidenziare lo scorrere del tempo e il cambiamento di mentalità, in questo caso metaforizzando nei tanuki la società giapponese pre-democratica e pre-WWII (quella "della tradizione") e negli umani quella nata dopo l'occupazione americana e che ha vissuto il grande boom economico10.

La sintesi della pellicola è proprio tutta qui: Pom Poko racconta di fatto l'adattamento forzato del popolo giapponese allo stile di vita occidentale, rappresentando, con la (ovvia) sconfitta dei tanuki, la morte dello spirito e delle tradizioni nipponiche11, tema molto caro agli intellettuali (pensiamo anche all'ultranoto Yukio Mishima) come Takahata. Il film verte su questo: ogni fallimento delle varie strategie dei tanuki è una metafora della sconfitta della cultura fagocitata dal Dio cemento, dalle ruspe e dal cambio di mentalità (illuminantissima la parata dei yōkai organizzata dai tanuki trasformisti per riavvicinare gli umani alle loro radici spirituali, e la cosa viene invece applaudita da loro come fosse uno spettacolo da baraccone). Non serve affatto che Takahata senta poi il bisogno di specificare che il lavoro è nato per le platee della sua terra senza pensare minimamente a quelle estere12: se ne sono accorti tutti. Figuriamoci per un un pubblico occidentale capire davvero a fondo gli intenti satirici della pellicola, colma di riferimenti alla storia dell'arcipelago nipponico, al suo folklore (ad esempio l'assunto che volpi e tanuki possano trasformarsi in umani, o che i testicoli di questi ultimi siano giganteschi e portino fortuna), a popolari personaggi feudali del mito (Inugami Gyobu, Kinchō Daimyōjin e Tasaburou il Pelato di Yashima), all'arte del posto e addirittura alle sfumature colloquiali: già il solo titolo internazionale ci suona apparentemente privo di senso (e lo è!) mentre in originale ce l'ha eccome (il titolo originale sarebbe Ponpoko - La guerra dei tanuki dell'Era Heisei, con "ponpoko" a rappresentare il suono onomatopeico che fanno i simpatici animali percuotendosi la pancia13). Da questo discorso si capisce chiaramente come anche l'adattamento italiano dell'opera a opera di Gualtiero Cannarsi, per quanto certosino e ferocemente fedelissimo come sempre, non riesce comunque a rendere pienamente comprensibile la ricchezza culturale dell'opera che solo i giapponesi (e neanche tanti di loro) sapranno cogliere.


Pur con mirabili intenti intellettuali, ahimè, la pellicola ritengo rappresenti la morte dell'intrattenimento, sbagliando alla radice la sua impostazione narrativa. Cos'è che non va? Proprio la pretesa di raccontare la guerra come fosse un "documentario etnografico", narrato in modo distaccato, asciutto e corale dando spazio ai punti di vista e alle "imprese" di svariati tanuki che rappresentano immancabilmente variegate tipologie di sfaccettature umane (il rivoluzionario impulsivo, il pacifista, il teorico, l'anziano rispettato da tutti...). Nonostante non manchi una specie di "protagonista" (il riflessivo Shoukichi che talvolta assume il ruolo di voce narrante), il più delle volte fa solo da presenza sullo sfondo, evidenziando il grosso sbaglio di evitare un qualsiasi eroe di riferimento che possa permettere l'identificazione da parte dello spettatore. Pom Poko è proprio l'arida cronaca delle varie fasi del "conflitto" e delle varie strategie discusse nei "soviet" boschivi che i tanuki mettono in piedi per scacciare gli umani dalle loro terre, del tutto disinteressata a dare colore o background ai personaggi approfondendoli o ricamandoci sopra una qualche sottotrama emozionante. Takahata è così interessato a inscenare nella storia un "Giappone" rappresentato da un ricchissimo e dotto apparato di riferimenti linguistici, artistici e regionali da perdere di vista quella sua poesia per la narrazione che ha reso così indimenticabili La tomba delle lucciole (1988) e Pioggia di ricordi. Impossibile empatizzare con alcunché, emozionarsi e, perciò, sentirsi minimamente coinvolti dal cumulo infinito di verbosi dialoghi da parte di personaggi insignificanti, spezzettati da gag infantili e giocose che non strappano affatto la risata: Pom Poko pecca di essere fin troppo ricco di contenuti ma senza alcuna idea di come renderli interessanti.

Il marchio Ghibli, per carità, si ravvisa nelle atmosfere allegre, nelle numerose canzoni, nelle deliziose animazioni e nelle location realizzate con gioiosa cura figurativa (per quanto ben distanti e non in primo piano come nello sfarzo pazzesco di Pioggia di ricordi), ma non bastano a distogliere Pom Poko dalla sua tremenda noia, difetto su cui è impossibile transigere dato che colpisce il lavoro sin dal primo istante. Sarà stato commercialmente un trionfo assoluto in patria (per quanto, ironicamente, anti-commerciale al massimo per le platee nostrane), sarà stato un film intellettualissimo di Takahata come sempre (forse anche più del solito), ma rimane a mio modo di vedere un macigno indigesto, uno dei pochi film Ghibli davvero venuti fuori male. Che peccato.

Voto: 5 su 10


FONTI
1 Francesco Prandoni, "Anime al cinema", Yamato Video, 1999, pag. 144
2 Guido Tavassi, "Storia dell'animazione giapponese", Tunuè, 2012, pag. 241
3 Vedere punto 1, a pag. 143
4 Vedere punto 2, a pag. 242
5 Post di Shito (Gultiero Cannarsi, traduttore ufficiale Lucky Red di tutti i film Ghibli) apparso nel forum Pluschan alla pagina http://www.pluschan.com/index.php?/topic/2789-porco-rosso-e-ponpoko/page-13#entry141160
6 Vedere punto 1, a pag. 143
7 Vedere punto 5
8 Altro post di Shito apparso nel forum Pluschan alla pagina http://www.pluschan.com/index.php?/topic/2789-porco-rosso-e-ponpoko/?p=140908
9 Vedere punto 5
10 Consulenza di Garion-Oh (Cristian Giorgi, traduttore GP Publishing/J-Pop/Magic Press e articolista Dynit). Confermato da Shito nel forum Pluschan alla pagina http://www.pluschan.com/index.php?/topic/4164-lucky-red-studio-ghibli-e-altro-dragon-ball-harlock-etc/?p=236049
11 Come sopra
12 Intervista a Isao Takahata pubblicata su Kappa Magazine n. 37 (Star Comics, 1995, pag. 121)
13 Vedere punto 2

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