lunedì 30 novembre 2009

Recensione: Death Note

DEATH NOTE
Titolo originale: Death Note
Regia: Tetsuro Araki
Soggetto: (basato sul fumetto originale di Tsugumi Ohba & Takeshi Obata)
Sceneggiatura: Toshiki Inoue
Character Design: Masaru Kitao
Musiche: Hideki Taniuchi, Yoshihisa Hirano
Studio: Mad House
Formato: serie televisiva di 37 episodi (durata ep. 23 min. circa)
Anni di trasmissione: 2006 - 2007
Disponibilità: edizione italiana in DVD & Blu-ray a cura di Dynit



Light Yagami è uno studente modello: eccelle in ogni disciplina scolastica, ha successo con le donne, è brillante in ogni sua attività ed è dotato di un'intelligenza fuori dal comune. Trova un giorno per terra un misterioso quadernetto, il Death Note, che, a leggere le istruzioni riportate al suo interno, sembra abbia il potere di uccidere le persone semplicemente scrivendoci sopra il nome. Eliminato un teppistello lì vicino come prova, e incontrato poi lo shinigami (una delle divinità della morte) che ha perso il libretto, si rende conto con entusiasmo che è tutto vero: invece di provare rimorso per ciò che ha fatto, in preda a un delirio di onnipotenza inizia a compiere un massacro su scala mondiale di qualsiasi malvivente del globo, in modo da creare una società, nella sua mente distorta, in cui tutte le persone rette e oneste possano vivere felici. A mettersi sulle tracce di Kira (così viene soprannominato il misterioso sterminatore di criminali, pronuncia giapponese di "Killer") è l'Interpol, con la speciale consulenza del misterioso L, giovane super-detective prodigio. Presto L inizierà a sospettare proprio di Light e, deciso a smascherarlo, lo affronterà faccia a faccia. Il cupo antieroe avrà il suo da fare per sviare il suo avversario e continuare al contempo a uccidere criminali...

Il parere del Mistè

Nel 2004 l'affermato mangaka Takeshi Obata inizia a disegnare, su sceneggiatura della misteriosa Tsugumi Ohba (pseudonimo di un autore o autrice che tutt'ora non ha ancora rivelato la propria identità, di cui si sa solo che nelle interviste parla al femminile1), Death Note. Al di là della macabra e ingegnosa idea del "quadernetto della morte", forse rubata al semi-sconosciuto racconto horror a fumetti The Miracolous Notebook (1973, di Shigeru "Kitaro dei cimiteri" Mizuki)2, forse no (mai citato tra le ispirazioni3), il manga ottiene istantaneamente, nei suoi quattro anni di serializzazione, un successo clamoroso, segnalandosi come una delle più significative hit dell'ultima decade: 30 milioni di copie vendute in Giappone4 (ma la cifra sicuramente si è alzata nel tempo, dal momento che la fonte è del 2015), nell'arco di poco più di un decennio e con "solo" 12 volumi totali all'attivo, zittiscono tutti. Del resto, leggendo l'opera, è facile capire come la sinergia di tanti elementi di qualità non poteva che portare a quel fantasmagorico best seller che ancora oggi fa parlare di sè (mentre scrivo, nel 2016 è uscito un terzo live-action giapponese e nei prossimi anni ne avremo anche uno hollywoodiano). In Death Note troviamo una trama tenebrosa, violenta e originale, disegni realistici e "fighettosi" particolarmente attraenti, due personaggi (Light ed L) dal carisma trascinante e soprattutto un coinvolgimento inaspettatamente altissimo, considerando un intreccio che si dipana attraverso fittissime e lunghe sessioni dialogiche date dai cervellotici duelli "mentali" - a colpi di deduzioni e ragionamenti logici per prevedere le mosse dell'altro - a cui si lasciano andare i due "eroi", l'uno contro l'altro,  per nascondere o svelare l'identità di Kira. Non mancano certo "furberie" degne di un qualsiasi shounen (i power up sono dati, in questo caso, dalle numerose "regole" del Death Note da seguire che continuano a essere svelate ogni volta che serve un artificio per salvare Light in extremis prima che venga "smascherato" da L) ma, in generale, Death Note, riuscendo a essere così genuinamente avvincente fin dal primo capitolo, attesta perfettamente la grande abilità di sceneggiatrice della Ohba, abilità di cui concederà il bis nella sua opera successiva, Bakuman (2008), ancora una volta fatta disegnare a Obata e ancora una volta strabordante di dialoghi e al contempo coinvolgentissima. Tuttavia, è innegabile che l'elemento davvero primario di successo che ha reso così famoso, affascinante e discusso questo moderno noir non possono che essere le sue implicazioni psicologiche, le stimolanti riflessioni (assolutamente, è bene metterlo in chiaro, non volute dall'autrice, interessata solo a scrivere una buona storia di intrattenimento5) che sorgono spontanee su quale dei due super-geni ha il pensiero o l'ideale più condivisibile dal lettore, tra chi è a favore dello sterminio sistematico dei criminali e chi il combattere l'uccisore di delinquenti. Basti solo pensare a quante numerosissime polemiche avverranno in svariati Paesi del mondo (Cina6, Taiwan7, USA8, Russia9, Belgio10, Australia11, oltre ovviamente al Giappone12) quando salteranno fuori studenti che a casa o a scuola compilano un personale "quadernetto della morte", tentativi da parte delle autorità di far cessare la circolazione del manga,  accuse di istigazione al suicidio o di "turbamento di coscienze", professori che minacciano studenti delle elementari di scriverci sopra il loro nome, reali assassini che si firmano "Kira", etc. Sia quel che sia, con buona pace dei detrattori, Death Note vende come il pane, piace un po' a tutti e il suo successo è testimoniato dalla nascita di romanzi spin off, film (i primi due due, usciti nel 2006, incassano 8 miliardi di yen13), videogiochi e sopratutto l'affermatissima trasposizione animata presa in esame, altro successo strepitoso di pubblico14 che è anche premiato al Tokyo Anime Fair del 200715.

A opera di Mad House, Death Note anime segue fedelmente il manga in ogni aspetto. Senza cambiare di una virgola lo script originario e senza dilungarsi in alcun modo in riempitivi (non c'è n'è bisogno, l'adattamento non necessita di filler in quanto inizia a fumetto bello che concluso), lo sceneggiatore Toshiki Inoue replica in tutti e 37 gli episodi gli stessi pregi e difetti dell'originale, raccontando nuovamente un noir fantastico, teso e ipnotizzante, in cui lo spaventoso antieroe Light epura il mondo dalla delinquenza cercando allo stesso tempo di mantenere segreta la sua identità al perspicace L. Come su carta, l'incredibile cinismo e mancanza di scrupoli del cupo protagonista (non solo assassino di massa ma anche abile manipolatore e approfittatore di persone e sentimenti), il bizzarro carisma della sua nemesi, i loro scontri cervellotici e i numerosissimi colpi di scena che si susseguono con ritmo serrato, tengono col fiato sospeso in una storia stracolma di tensione che invoglia a divorare puntate su puntate. E, proprio come nel fumetto, seguono un drastico calo di idee e credibilità nella pietosa saga del dopo-L (corrispondente alle ultime dieci puntate televisive), pasticcio di spiegoni eccessivi, nuovi personaggi infinitamente meno interessanti e mal gestiti, comportamenti e sviluppi troppo tirati per i capelli per far combaciare gli indizi su Kira e una generale, eccessiva riproposizione degli stessi schemi precedenti privi però della stessa freschezza, capaci di generare solo la sensazione - nonostante la conclusione tutto sommato soddisfacente - di brodo allungato di cui non si sentiva il bisogno (cosa che effettivamente è, come confermato indirettamente dalla Ohba16, non posso però dire andare nei dettagli senza fare grosse anticipazioni su uno dei colpi di scena cardine della storia). Sicuramente, in questo caso sarebbe stata apprezzabile qualche modifica all'intreccio originale, ma purtroppo Mad House opta per la mera copia carbone, apportando come unico cambiamento un addolcimento, del tutto commerciale e incivile, del drammatico finale cartaceo (e curiosamente sceglie anche di non trasporre il piccolo epilogo, che aggiungeva rivelazioni finali di un certo interesse).


Scontato, quindi, confermare che chi ha già letto il manga può saltare a piè pari l'adattamento animato: in esso non troverà nulla di nuovo. Chi non l'ha fatto può, invece, tranquillamente guardare come alternativa una trasposizione più o meno perfetta. La serie può contare su un'esaltante colonna sonora rock (non disdegna neanche azzeccati inserti orchestrali gregoriani per dare enfasi all' autoproclamata "onnipotenza divina" di Light), un eccellente character design (rispecchia perfettamente le inquietanti ombreggiature e l'estetica dark del fumetto), due esaltanti sigle di apertura di aggressivo metalcore e, ancora, una regia di alto livello che segna nel migliore dei modi il debutto in questa mansione di Tetsuro Araki, futura "star" degli anime action animati da Mad House. Il suo gusto estetico e ricercato per le inquadrature tese e claustrofobiche, usate in tutte le sequenze di dialogo (l'85% abbondante dell'intera storia), portano rapidamente alla considerazione che il virtuosismo registico è uno dei maggiori elementi di successo del Death Note televisivo. Il budget assolutamente medio dell'opera è completamente mascherato dagli splendidi disegni e dalle riprese vertiginose, che con mille artifizi (tra tonnellate di split screen, ossessivi primi piani, splendidi connubi musica-immagine) inchiodano alla visione e fanno passare in secondo piano il fatto che si stanno guardando le classiche schermate statiche di persone immobili che parlano o pensano. Bisogna dare atto che Araki riesce da solo, con la sua bravura, a dare alla storia il ritmo coinvolgente di un thriller anche se il tutto si basa su dialoghi. Tanto di cappello.

L'unico vero difetto di cui a mio avviso si può parlare, escludendo il citato secondo arco narrativo mediocre (ma sbagliato "in origine"), è forse la pretesa di rendere fruibile al pubblico televisivo una serie totalmente giocata su lunghi ragionamenti logici e deduzioni holmesiane, caratteristiche che impediscono una visione completamente rilassata come quella del fumetto. Death Note ha, a mio parere, un suo perchè nel supporto cartaceo, forte della rileggibilità e delle frequenti pause di assimilazione (stiamo parlando alla fin fine di un giallo, in cui conta moltissimo l'attenzione ai dialoghi per capire il senso e la finalità delle strategie mentali di Light e avversari), mentre, riportando le stesse vicende su una serie televisiva, tedia più volte assistere a spiegazioni complicate e condotte con veloci ritmi televisivi, col rischio di perdere importanti dettagli (presumibilmente quelli che portano alle rivelazioni del contortissimo "scontro finale"). La cosa, tuttavia, poco toglie al coinvolgimento e, in generale, all'ottima impressione che ancora giustamente dà una vicenda così insolita, oscura e accattivante, che per tematiche e idee giustamente merita, nonostante i difetti, tutto lo scalpore e il carisma che ancora riscuote. Che sia in TV o su carta, ritengo Death Note sia una storia di qualità che vada assaporata almeno una volta nella vita (se si sceglie la prima consiglio la visione in lingua originale con sottotitoli, non tanto per l'adattamento dei testi quanto per le pessime voci italiane, mai così distanti da quelle giapponesi).

Inutili ma godibili gli speciali televisivi realizzati nel 2007 e nel 2008 da Mad House, i due Death Note Rewrite. Di lunga durata, sintetizzano discretamente bene la storia portante, inserendovi sequenze inedite di fanservice a tema horror (il più celebre dei quali è Light che ride satanicamente sulla tomba di...) e altre registicamente spettacolari (la nuova presentazione del personaggio di Near). Oltre a questo, migliorano anche sensibilmente l'intreccio del secondo arco narrativo, sbrogliandolo dalle lungaggini peggiori e rendendolo più agevole e meno inutilmente complesso. Qualche difetto c'è e anche non trascurabile (non viene data alcuna spiegazione al perchè un certo personaggio sospetti immediatamente di Light, al collegamento tra Kira e Teru Mikami e del perché un altro ancora si ritrovi il viso mezzo ustionato, dal momento che quell'avvenimento è eliminato dal rimontaggio), ma rimangono, una volta tanto, delle buone produzioni.

Voto: 7,5 su 10

Il parere del Corà

Non è difficile spiegare lo smisurato successo che l’Italia ha riservato a Death Note. Tra sterminate esposizioni pubblicitarie, che ne hanno impresso il caratteristico logo in ogni fumetteria e negozio specializzato in materiale dagli occhi a mandorla, e l’agevolazione ottenuta con la messa in onda su MTV, il marchio (manga, anime e relativi gadget e cotillon assortiti) si è infatti trasformato in una sorta di piccolo fenomeno di massa - ovviamente circoscritto entro determinati limiti - che sta lasciando il segno. Death Note si immerge in temi seri e adulti come la strumentalizzazione del potere e la storpiatura odierna di un termine come ‘pace’, ed è stato così visto come un’incredibile ventata d’aria fresca in un mondo, quello occidentale, che dimostra sempre di più di non avere una cultura in fatto di animazione, continuando infatti a catalogarla come infantile prodotto per bambini. Abbiamo i Simpson, certo, e i Griffin e American Dad e soprattutto South Park, ma al di fuori di un contesto cinicamente ironico cosa rimane? Death Note, appunto. Poco altro.

Ciò che più piace della creatura di Tsuguma Ohba e Takeshi Obata (i creatori del manga a cui l’anime è fedelmente ispirato) è il lasciarsi gradevolmente trasportare dalla singolarità con cui vengono strutturati gli episodi. Light e L si sfidano infatti in un continuo duello di strategie mentali con cui cercano di anticiparsi e prevedere le rispettive mosse, e si arriva, in poche puntate, a ragionamenti complicatissimi e, per quanto assurdi, consolidati da una logica innegabilmente di ferro. È una progressione di masturbazioni cerebrali che spesso lascia basiti per la quantità di variabili tenute da conto e per le numerevoli strategie di risoluzione applicate per sgambettare l’avversario. La serie subisce però un brusco calo narrativo con l’innesto di Misa, un personaggio che dovrebbe alimentare una sdrammatizzazione ironica, ma che in realtà fallisce negli intenti, scatenando soltanto sbadigli per una manciata di puntate di transizione in cui Death Note si adagia, quasi indeciso su quale direzione prendere. La vicenda viene diluita e boccheggia di sterilità narrativa che blocca, quasi di colpo, l’inarrestabile macchinazione mnemonica dei primi dieci episodi. La storia ritrova comunque una certa agilità stilistica alla conclusione di quello che può considerarsi il primo arco narrativo (episodio 25), dove tensione e palpabile eccitazione vengono frullati con inaspettati simbolismi e duri colpi allo stomaco.


La serie sfocia quindi in una sorta di seguito, ambientato alcuni anni dopo, che però si mostra incerto e traballante, visto che, in dodici episodi, viene inserita una quantità esagerata di personaggi senza saperne tenere le redini. La storia ora si annacqua ora si fa troppo tesa e complessa, e i ragionamenti mentali perdono la freschezza degli esordi in quanto confinati in lunghissimi spiegoni che riassumono lunghe sequenze di comportamenti bizzarri e apparentemente incomprensibili. Vengono così a mancare scaltrezza e freschezza, per colpa di una sceneggiatura eccessivamente contorta, che mostra numerosi segni di cedimento sotto forma di momenti poco chiari e improbabili. Resta comunque una trama avvincente ed eccentrica, che termina con un ultimo episodio magistrale per connubio di epicità, pathos, animazioni, dialoghi e interpretazioni vocali, agevolato tra l’altro da una prestigiosa colonna sonora che mescola indimenticabili melodie post-rock e porzioni sinfoniche di indubbio fascino. Evidenti alti e bassi quindi distruggono in parte le ottime basi di partenza della serie, ma non intaccano comunque il legame affettivo che si crea con personaggi ben caratterizzati e carismatici. Gli indistruttibili e spietati ideali di Light contrapposti alla bizzarra genialità di L, passando per la goliardica rappresentazione dello Shinigami Ryuk, l’ingenuità di Matsuda, la caparbietà degli agenti di polizia, o anche solo per l’isterismo riscontrabile in una manciata di comprimari, sono elementi che rimangono impressi. A serie conclusa, infatti, si prova un genuino senso dispiacere come per ogni cosa che volge al termine e, complice sicuramente l’impareggiabile soundtrack, che sfrutta un tema portante di grande atmosfera, si soffre di un inevitabile smarrimento post-ending.

Ingiudicabile il doppiaggio italiano, al quale sono sopravvissuto non più di dieci secondi, visto il modo in cui la grottesca parlata di Ryuk viene trasformata in un rantolo gutturale, o l’assoluto anonimato di L, sviscerato del buffo e incerto tono vocale originario. Perlomeno, come da tradizione MTV, sono rimaste inalterate le sigle: qua da noi si scrivono appositamente cazzate danzerecce da classifica, mentre in Giappone inseriscono tranquillamente due cazzutissimi pezzi metalcore (di quello rabbioso e frenetico, non cose emo e mielose à la Killswitch Engage, eh). Insomma, differenze culturali che non potranno mai essere equilibrate. Death Note non merita il successo che ha raccolto e continua a raccogliere, perché sono troppe le incertezze e le lacune che feriscono la qualità generale dell’opera, abbondantemente sopravvalutata. Ma tutto sommato è un buon punto di partenza per dirigersi verso il cuore dell’animazione nipponica, e sia mai la buona volta che MTV, una volta tanto, è stata utile nel diffondere il verbo degli anime.

Voto: 7 su 10

ALTERNATE RETELLING
Death Note Rewrite: The Visualizing God (2007; Special TV)
Death Note Rewrite 2: L's Successors (2008; Special TV)


FONTI
1 Death Note n. 13: "Guida alla lettura", "Lunga intervista a Tsugumi Ohba", Planet Manga, pag. 58
2 Sito internet, "ComiPress", "The Origin of Death Note?", https://comipress.com/article/2007/01/08/1287.html
3 Vedere intervista del punto 1
4 Sito web (giapponese), "MantanWeb", http://mantan-web.jp/2015/04/20/20150419dog00m200024000c.html
5 Vedere punto 1, a pag. 69
6 Sito internet, "Anime News Network", http://www.animenewsnetwork.com/news/2005-02-06/death-note-stirs-controversy-in-china
7 Come sopra, alla pagina web http://www.animenewsnetwork.com/news/2007-10-12/taiwanese-county-warns-of-death-note-others-defend-it
8 Come sopra, alla pagina web http://www.animenewsnetwork.com/news/2010-05-10/death-note-ban-in-albuquerque-high-schools-fails-vote
9 Sito internet, "Japan Today", https://www.japantoday.com/category/entertainment/view/parents-in-russia-request-ban-on-death-note
10 Vedere punto 6, alla pagina web http://www.animenewsnetwork.com/news/2007-11-27/police-reach-dead-end-in-belgian-manga-murder-case
11 Sito internet, "The Daily Telegraph", http://www.dailytelegraph.com.au/dark-clouds-of-merntal-illness-trouble-young-children/news-story/c3bdc6eafd4b162062ccb565ee6ad4b2
12 Sito internet, "Animclick", http://www.animeclick.it/news/61898-un-death-note-per-minacciare-gli-alunni-accusato-insegnante-giapponese
13 Guido Tavassi, "Storia dell'animazione giapponese, Tunuè, 2012, pag. 445
14 Come sopra
15 Come sopra
16 Vedere punto 1

giovedì 26 novembre 2009

Recensione: He is My Master

HE IS MY MASTER
Titolo originale: Kore ga Watashi no Goshujin-sama
Regia: Shouji Saeki
Soggetto: (basato sul fumetto originale di Mattsu & Asu Tsubaki)
Sceneggiatura: Shouji Saeki
Character Design: Kazuhiro Takamura
Musiche: Seiko Nagaoka
Studio: GAINAX, SHAFT
Formato: serie televisiva di 12 episodi (durata ep. 24 min. circa)
Anno di trasmissione: 2005


Stanche di vivere segregate nella loro abitazione, le sorelle Izumi e Mitsuki decidono di fuggire di casa per scoprire il mondo. Fame e mancanza di soldi le portano presto a trovare ospitalità nella villa Nakabayashi, dove iniziano a lavorare come cameriere tuttofare. Peccato dovranno risarcire il ricchissimo padrone Yoshitaka, giovane come loro, dei danni milionari che gli hanno combinato, sopravvivendo al contempo alle sue molestie sessuali e alle mire di Pochi, tenero coccodrillo maniaco pervertito...

Si dovesse far fronte a certi moralismi, che si tratti di tediosi indottrinamenti cattolici o di semplici formazioni etiche familiari, He Is My Master diventerebbe un’opera difficilmente digeribile, un affronto continuo alla sensibilità umana e un’eccessiva, immotivata presa in giro di pilastri spirituali e sociali. Non è certo un mistero la distanza abissale che divide sensibilità occidentale e orientale su certi temi - e che permette alla seconda di scherzare anche su erotismo che coinvolge minorenni -, ma sarebbe un gran peccato nasconderla dietro simili barriere perché la miscela esplosiva di pedofilia, incesto e sfruttamento sessuale che lo sceneggiatore e regista Shouji Saeki traveste di esasperante comicità nel suo He Is My Master, adattamento seriale dell’omonimo gag manga realizzato dalla coppia di coniugi Mattsu e Asu Tsubaki, contiene così tanta freschezza ironica che, nonostante l’alto livello cinico, a suo modo brutale, spietato e potenzialmente molesto, basta una singola puntata per farsi coinvolgere e non badare agli eccessi più impensabili. La serie è genuinamente spassosa, pur contemplando allusioni sessuali verso una quindicenne, Izumi, dal fisico over-20. Si sa che le cose funzionano così, basta accettarlo spegnendo il cervello.

Nel 2005, alla loro terza trasposizione animata da manga, GAINAX e Saeki forniscono un gustoso antipasto dell'originale, con 12 episodi strutturati nella medesima maniera che presentano ottimamente il suo mood: in ciascuno di essi, oltre alle dovute peripezie che Izumi deve inventarsi pur di non venire stuprata da Pochi e alle innumerevoli allusioni sessuali tutt’altro che velate che dovrà sopportare, ci sarà spazio per una fantomatica, demenziale sfida che coinvolgerà ogni personaggio, e un resoconto finale dei danni monetari causati dalla ragazza per mantenere integra la propria femminilità. Chiaro quindi che, con la presenza di determinati punti fissi in ogni episodio, nascono dei bizzarri tormentoni strillati a gran voce, che garantiscono sincere risate anche al di là della già di per sé incontenibile componente umoristica della serie. Scelta felice, questa, perché in 12 episodi ci si può permettere di costruire impalcature comiche per certi versi ripetitive senza correre il rischio di stancare o annoiare per quella che potrebbe sembrare scarsa inventiva, cosa che invece accadrebbe con un maggior numero di puntate.


Il resto è uno spassoso frullatore delle più depravanti manie sessuali del genere umano (oltre a quanto citato in apertura c’è spazio per voyeurismo, esibizionismo, masturbazioni), tutte paradossalmente, e qui sta lo strabiliante punto di forza della serie, prive di volgarità, ma anzi, rese frizzanti e divertenti attraverso una filosofia di fondo che sbriciola ogni convenzione sociale con tonnellate di gag alle quali, davvero, non si può resistere. Siamo dalle parti comunque di un erotismo sfumato, dove più che scene di nudo o sesso contano i classici "pruriti" adolescenziali fondati sulle immancabili gag alle terme, al vedo-non-vedo, il bikini o reggiseno che si slaccia. La sceneggiatura è perfetta, fresca e frizzante, e pur adagiandosi su svariati cliché non ha alcun punto morto e riesce a divertire con le sue mille trovate, tra coccodrilli pervertiti dai problemi esistenziali, trappole, sberle, foto condivise in internet, i debiti monetari di Izumi verso Yoshitaka che lievitano a ogni puntata... Una storia che in più riprese è sinceramente esilarante. Complice in questo affresco audace le caratterizzazioni, che pur nel rispetto di certi stereotipi dell’animazione comica (caratteri femminili che vanno dall’innocente timidezza all’esplosività iraconda; contraparti maschili immoralmente viziose) sono esemplari e prorompenti, con dialoghi brillanti che non nascondono nulla dietro a sottilezze intellettuali.

Degna di nota anche la confezione dell'opera, retta su animazioni così che pulsano di vita, una regia piena di inventiva e un character design vivacisissimo e colorato, fedele al tratto del manga, che con sapienti tonalità di colori risalta il sex appeal delle ragazze e con fisionomie super deformed esaspera situazioni e stati d'animo. Ma ricondurre la bontà del prodotto al semplice aspetto grafico sarebbe ingeneroso, perché Shouji Saeki ha davvero fatto un gran lavoro nel ridurre a celluloide le folli vicende in b/n di He Is My Master. Non è da tutti riuscire, in così poco tempo, a far affezionare così tanto lo spettatore ai personaggi e a farlo disperare quando la serie si conclude perchè non potrà più vederli.

 
He Is My Master è la prova che si può ridere, senza per forza ricorrere a grossonalità assortite e pacchianerie oscene, anche su temi scottanti e piuttosto difficili da maneggiare, ed è proprio questo motivo, al di là dell’ironia e del coraggio, che mi spinge a consigliarlo a chiunque. Ha sicuramente qualche battuta o sequenza non riuscite, ma il numero sterminato di gag che si susseguono con ritmo sfrenato colpiscono, e garantiscono un divertimento continuo e assicurato, almeno finché dura. Incivilmente considerato tra le opere minori di GAINAX.

(scritto da Simone Corà e Jacopo Mistè)

Voto del Corà: 8 su 10
Voto del Mistè: 8 su 10

mercoledì 25 novembre 2009

Due teste, due pareri, due recensioni

Da domani, con l’anime demenziale He is my Master, qui su Anime Asteroid si inaugura la moda della doppia recensione.

Niente di così rivoluzionario, s’intende, ma crediamo che offrire più pareri, a volte diametralmente opposti, possa essere interessante, in barba a cose di SEO e di lunghezza del post e di tempo necessario a leggere, quanto lo è stato per noi confrontandoci.

D’altronde, il nostro orgoglio nerd ci impedisce di darla vinto all’uno o all’altro quando si tratta di dare del capolavoro o della schifezza, e anche nelle valutazioni intermedie, quando l’opinione generale di un’opera potrebbe anche essere in comune, si tende a sgambettarsi, mordersi e spararsi addosso missili fotonici.

Non sarà ovviamente usanza farlo in tutti i post ma, convinti che in futuro non troppo lontano, quando inzieranno a salire di numero lettori e visite, tale sistema darà più completezza alla filosofia di Anime Asteroid, e sperando sempre nella vostra mancanza di reazioni violente, la doppia recensione si materializzerà spesso e volentieri.

Yatta!

domenica 22 novembre 2009

Recensione: Elfen Lied

ELFEN LIED
Titolo originale: Elfen Lied
Regia: Mamoru Kanbe
Soggetto: (basato sul fumetto originale di Lynn Okamoto)
Sceneggiatura: Takao Yoshioka
Character Design: Seiji Kishimoto
Mechanical Design: Hiroyuki Taiga
Musiche: Kayo Konishi, Yukio Kondoh
Studio: ARMS
Formato: serie televisiva di 13 episodi (durata ep. 25 min. circa)
Anno di trasmissione: 2004

 
Le diclonius sono creature femminili estremamente pericolose: del tutto simili a una qualunque ragazza, se non per un paio di minuscole corna che spuntano all’altezza delle tempie, possiedono i cosidetti "vettori", invisibili braccia aggiuntive guidabili dalla forza mentale e dotate di una potenza smisurata. Lucy, il diclonius più pericoloso, fugge dal laboratorio di ricerca in cui è imprigionata: dopo aver ucciso chiunque si frapponga fra lei e l’uscita, viene raggiunta da un proiettile che, colpendola alla testa e facendola cadere in mare, le fa perdere memoria e linguaggio, trasformandola in un’innocua e spaesata ragazzina. Kouta, un giovane universitario, trova Lucy sulla spiaggia, e, assieme alla sua amica Yuka, decide di ospitarla nella loro casa, ignaro di cosa si nascondi, in realtà, dietro la sua facciata di graziosa fanciulla...

Il progetto di Mamoru Kanbe è una storia ambiziosa, un caleidoscopio di immagini, emozioni e riflessioni culturali sempre in bilico tra splatter esagerato ed elegante erotismo, con innesti filopsicologici provocatori e disturbanti. Basato sul manga di Lynn Okamoto, la versione animata non raggiunge i livelli di perversione e crudeltà gratuita e compiaciuta dell’originale, ma provoca comunque, più di una volta, uno sgradevole senso di disagio. Se l’incipit potrebbe mostrare un certo cliché nella costruzione della trama (il rapporto bestia/bellezza che convive nella stessa creatura; la perdita di memoria che da il là all’azione; il ragazzo che non sa cosa stia succedendo e che si ritrova, suo malgrado, protagonista), il pericolo di una vicenda dozzinale viene per fortuna scongiurato grazie a un buon numero di personaggi e a un’inaspettata progressione non lineare che, nella seconda parte dell’anime, per mezzo di continui flashback e salti temporali rende sempre più imprevedibile la visione.

Abbagliati da una manciata di episodi iniziali dediti a esplosioni viscerali di teste e busti, braccia spezzate e corpi martoriati, spietate mutilazioni e membra che volano seguite da scie di sangue abbondanti e succulente, si resta piacevolmente storditi dalla continua intrusione piccante di nudità assortite, ma mai gratuite o grossolane. Il fascino erotico sprigionato dai personaggi femminili di Elfen Lied è infatti coadiuvato sia da una simpatica componente umoristica, sobria e intelligente, che da una forte, forse eccessiva, iniezione di considerazioni sociali. E quindi avremo, sempre assistiti da uno sfondo sanguinario di budella e amputazioni, raggelanti momenti di critica, fortissima e scioccante, verso la violenza domestica, una certa visione estrema dei rapporti familiari e la pedofilia in generale.


Le sorelle di Lucy, poco più che bambine, vengono ritratte spesso e volentieri nude, ricoperte di sangue, provate da torture e lunghe prigionie, ma capaci di provare un genuino senso d’affetto verso il dottor Kurama, che loro perseverano a chiamare papà nonostante le supplizie che vengono loro inferte. Sono immagini spigolose, a tratti anche fastidiose (la presentazione di Nana), ma colpiscono a fondo, lasciando crateri indelebili e infiniti spunti di riflessioni. Con un simile substrato socio-psicologico, coraggioso, è chiaro che, anche solo a livello visivo, Elfen Lied non mostri tentennamenti e anzi, insista in massacri di bambini e in violenze minorili (esposti in campi medi sconvolgenti e non in facili e comodi fuori campo), ma Elfen Lied non è solo violenza, erotismo e perversione. Quando la trama si assesta e inizia a progredire si scopre come altro non sia che una drammatica storia d’amore, che vede Kouta essere condiviso dal desiderio silenzioso dell'amica d'infanzia Yuki e da quello impossibile di Lucy. Non ci troviamo di fronte a semplici sterotipi malinconici, ma caratterizzazioni e motivazioni sono tratteggiate con coscienza, e tutto, almeno sul versante comportamentale, è ampiamente giustificato. Quello che saltuariamente non funziona, in Elfen Lied, è una sceneggiatura non sempre coerente, che si avvale di qualche furbo stratagemma di troppo per ricongiungere i nodi e far quadrare la situazione.

Spiegoni infondati (il modo in cui Kouta viene a conoscenza della verità) e un’improvviso cambio di personalità (la caratterizzazione iniziale di Kurama), in particolare, rappresentano gli istanti in cui l’anime addirittura rasenta il ridicolo. Ma anche coincidenze impossibili, che sbeffeggiano la naturale continuità temporale, infestano, qua e là, la serie (gli incontri fatti dal sadico militare Bando sulla spiaggia). Certo, sono momenti sporadici, e il titolo è capace più di una volta di rialzarsi da una scivolata sempliciotta e ripartire con coraggio, ma sono punti che mostrano fulminei cali qualitativi, impossibili da non notare e troppi pesanti per essere digeriti. Non molto entusiasmanti nemmeno i disegni, che fedeli al pessimo tratto del manga offrono volti tutti uguali, con occhi esageratamente enormi, distinguibili l’uno dall’altro solo per mezzo di parrucche variopinte e fantasiose. Altra storia invece le animazioni, sempre fluide e, in più di un’occasione (i combattimenti e le esplosioni corporali), stupefacenti. Ammirevole infine la componente musicale, costruita attorno a un magnifico tema portante (la canzone d’apertura, un pezzo lirico lento e atmosferico), che viene rivisto, di volta in volta, da arpeggi pianistici e archi toccanti. Senza contare la straordinaria opening, rivistazione grafica dei quadri di Gustav Klimt.


I vari momenti bui distruggono inevitabilmente la valutazione globale di Elfen Lied, e sommato a questi non si può non rimanere delusi da un finale palesemente aperto e pieno di punti di domanda (a simboleggiare l'opera di antipasto del fumetto originale, di cui l'anime copre giusto la metà), ma sono elementi che non devono scoraggiare o, peggio, compromettere quello che, a conti fatti, è un anime audace e singolare, che va visto senza indugio per quello che vuole comunicare.

Voto: 7 su 10

venerdì 20 novembre 2009

Recensione: Linebarrels of Iron

LINEBARRELS OF IRON
Titolo originale: Kurogane no Linebarrels
Regia: Masamitsu Hidaka
Soggetto: (basato sul fumetto originale di Eiichi Shimizu & Tomohiro Shimoguchi)
Sceneggiatura: Kiyoko Yoshimura, Shigeru Morita
Character Design: Hisashi Hirai
Mechanical Design: Tsutomu Suzuki
Musiche: Conisch
Studio: GONZO
Formato: serie televisiva di 24 episodi (durata ep. 24 min. circa)
Anni di trasmissione: 2008 - 2009

 

Anno 2013: quello che sembra essere un meteorite si schianta sulla Terra, colpendo in pieno l'introverso studente Koichi Hayase. Il ragazzo scopre, incredulo, di essere ancora vivo, trovando fra i resti, oltretutto, una misteriosa ragazza, Emi Kizaki. Scoprirà nei giorni successivi che lei è legata a un potentissimo robot Machina, Linebarrels, e che ha trasmesso a lui, oltre a una forza fisica straordinaria, anche il potere di evocarlo e pilotarlo. Appreso di essere divenuto un Factor, in seguito il ragazzo ed Emi si uniscono all'agenzia Juda, composta da altri come loro, anch'essi in possesso del rispettivo robot, per combattere la misteriosa organizzazione rivale Kato, il cui presidente viene da un'altra dimensione...

Linebarrels of Iron è decisamente un'opera sfortunata, in qualsiasi suo formato. Il manga, iniziato nel 2005 dalla coppia Shimizu/Shimoguchi e qualitativamente di gran valore - tanto da essere caldamente raccomandato da mostri sacri quali Mamoru Nagano e Yoshikazu Yasuhiko  - in occidente paga pegno per la sua grave colpa di essere robotico, genere che non ispira evidentemente feeling al lettore medio, venendo prematuramente interrotto in tutti i Paesi in cui esce, Italia compresa. In animazione, invece, nel 2008 trova un adattamento televisivo da parte dello studio animato GONZO: occasione per farsi conoscere al pubblico internazionale grazie alla diffusione istantanea con sottotitoli in inglese nel canale web Crunchyroll, dimostrando tutte le sue innate qualità che esulano dal genere, ma il destino è beffardo perchè GONZO, come spesso accade, rielabora la storia in malo modo arrivando addirittura a pubblicizzarla negativamente, al punto che è meglio far finta non esista l'anime. Un destino davvero infausto quello che coglie un fumetto così riuscito,con un mecha design possente e umanoide di rara bellezza, personaggi sprizzanti carisma, una trama coinvolgente - pur, ovviamente, estremamente lineare nel suo susseguirsi di combattimenti - dalle intense love stories e disegni spigolosi ma pieni di energia.

Quando, nel febbraio 2008, è annunciato l'adattamento animato non sono pochi quelli che profetizzano una serie televisiva di alto livello. Non solo perché trasposizione del gran manga, ma anche perché forte del chara design di Hisashi Hirai, dai tempi di Infinite Ryvius uno dei più apprezzati (e pagati) disegnatori nipponici, e sopratutto della produzione creativa affidata, come in My-Hime, a Goro Taniguchi, regista di capolavori come PlanetEs, GUNxSWORD e Code Geass. Per questi fattori il pericolo "GONZO" sembra scongiurato, ma lo studio di Tokyo riesce a stupire tutti nuovamente in negativo, realizzando un mediocre surrogato che non è neanche l'ombra dell'opera originale.


Unico elemento rilevante apportato dallo studio all'intreccio originale è una benvenuta dose di ecchi, che nelle frontiere dell'uncut celebra le forme delle avvenenti comprimarie del protagonista con numerose scene di nudo e inquadrature "hot", tanto per sottolineare maggiormente un sex appeal che già brilla in origine. Il resto tutto da dimenticare. Se sulle prime risulta piacevole vedere come gli sceneggiatori riscrivono da capo personaggi e situazioni (ad esempio inserendo fin da subito nel team dell'agenzia Juda la Factor Miu Kujo e la meccanica Rachel Calvin: entrambe appaiono nelle fasi avanzate del fumetto) di Linebarrels rispettando comunque linee guida e avvenimenti della storia, proseguendo ci si accorge presto di come, man mano che si discosta dal capostipite, la sua versione animata non sa davvero dove andare a parare con storia e atmosfere. Non si spiegherebbe sennò il suo inconcepibile porsi a metà strada tra serio e faceto, il non far assumere mai una direzione precisa al racconto. Diventa un susseguirsi di sequenze epico/drammatiche che spesso e volentieri si sposano (o addirittura, peggio, sfociano) nel demenziale più assurdo, come se gli sceneggiatori non vogliano mai far prendere troppo sul serio la storia. Può capitare così di vedere, a metà serie, il gruppo dei protagonisti dividersi, con alcuni che combattono a rischio della vita contro gli uomini dell'agenzia Kato a bordo dei loro robot, gli altri invece devono entrare di soppiatto in una base segreta risolvendo dentro di essa quiz e giochi da circo con strip annessi... No comment.

La cosa assurda è che inizialmente questo connubio di generi, palese invenzione di GONZO, se non convince quantomeno intrattiene, presentando una bizzarra rielaborazione spiritosa di un fumetto serioso. A dispetto delle musiche orride e dei robottoni realizzati in una CG economica e brutta da vedere, lo stile grafico di Hisashi Hirai è uno spettacolo - migliora quello di Shimoguchi senza tradirne l'asprezza delle linee -, le puntate hanno ritmo e buona parte della serie, pur mischiando serietà e frivolezza, è anche apprezzabile vista la "qualità" da una parte delle gag, e dall'altra degli intermezzi "seriosi". È nel finale, quando GONZO si inventa una svolta narrativa per chiudere il cerchio e non lasciare tronca la storia, che tutto è rovinato, "grazie" a un risvolto di trama dall'imbecillità colossale che non solo ridimensiona in negativo tutto quello visto fino a quel momento (comprese le morti di alcuni personaggi), ma dà anche adito a due puntate finali di qualità orribile, composte da un susseguirsi di noiose battaglie e auto-immolazioni sacrificali da serie Z. Veramente un peccato che il Linebarrels animato sia rovinato così, perché a volte l'impressione generale è che un minimo di cura nel prodotto c'è, anche in virtù del fatto che spesso si vede la mano di Goro Taniguchi da dietro le quinte, sia nella struttura narrativa adottata (non è probabilmente un caso che, come in tutte le opere del regista, anche in questo caso avviene un punto di svolta a metà serie che dà adito a un arco narrativo più teso e drammatico) che nelle citazioni (di s-CRY-ed: Koichi e l'amico d'infanzia Yajima scimmiottano come non mai Kazuma e Ryuho).

 

Purtroppo la leggendaria incapacità generale GONZO di fare animazione decente e sceneggiare è più potente dei buoni nomi coinvolti nel progetto, e alla fine della fiera il tutto si risolve con il solito deja vu, ossia la Storia dell'animazione nipponica che assiste, demoralizzata, all'ennesimo sperpero di soldi da parte di uno studio nipponico la cui bassa qualità creativa è leggenda. E che contribuisce, con tutte le sue aggiunte extra-manga di pessima qualità, ad affossare ulteriormente il buon nome di Linebarrels of Iron.

Voto: 5 su 10

PREQUEL
Linebarrels of Iron: First Visit to Japan, Rachel (2009; ova)

SEQUEL
Linebarrels of Iron: Shadows of Iron (2009; ova)

lunedì 16 novembre 2009

Recensione: Gurren Lagann

GURREN LAGANN
Titolo originale: Tengen Toppa Gurren Lagann
Regia: Hiroyuki Imaishi
Soggetto: GAINAX
Sceneggiatura: Kazuki Nakashima
Character Design: Atsushi Nishigori
Mechanical Design: You Yoshinari, Imai Toonz
Musiche: Taku Iwasaki
Studio: GAINAX
Formato: serie televisiva di 27 episodi (durata ep. 24 min. circa)
Anno di trasmissione: 2007
Disponibilità: edizione italiana in dvd a cura di Dynit

 

Il piccolo Simon e l'amico del cuore Kamina vivono nel villaggio di Jiha, in un pianeta Terra desertico e governato con pugno di ferro dall'impero dei gunmen che costringe gli umani a vivere sottoterra. Simon è uno timido scavatore, Kamina uno scavezzacollo che non vede l'ora di uscire in superficie e andare all'avventura. L'incontro con la bella Yoko, provieniente dall'esterno, e il ritrovamento di una piccola e misteriosa trivella, capace di attivare il buffo e potente robot Lagann, cambiano le loro vite: usciti dal villaggio, vivranno una straordinaria avventura che li porterà a guidare una ribellione contro l'esercito dei gunmen.

Il parere del Mistè

Diventa quasi stucchevole sottolineare, a ogni nuovo lavoro, l'estro creativo dello studio GAINAX, che con rinnovata originalità supera sempre se stesso nella creazione di esplosivi concentrati di comicità, fanservice e strabilianti aspetti grafici, senza rinunciare comunque a trame profonde, per merito del suo talentuoso staff, nonostante la timida statura economica (che lo costringe più volte a delegare ad altri studios la produzione delle animazioni.) Nel 2007 ancora una volta la storia si ripete: nuovo soggetto intrigante, nuove strizzate d'occhio ecchi (le curve della formosa e bellissima Yoko), nuova megaproduzione animata (si conta la collaborazione di più o meno 80 studios), ancora un look grafico coloratissimo e semi-demenziale, ereditato da FLCL e Diebuster. Una storia di robottoni, comicità e temi maturi. Gurren Lagann.

Cos'è Gurren Lagann? Di tutto e di più: è una storia avventurosa e frizzante di personaggi tamarri all'inverosimile, gag assurde e scorrette, fanservice a profusione e mecha bizzarrissimi e kawaii, retta su inserti seri e commoventi perfettamente amalgamati. Il tutto condito con regia e animazioni da infarto e un accompagnamento sonoro rap ("RAW RAW! Fight the Power!") che a volte sconfina in brani ochestrali dall'irresistibile epicità. Descriverlo nel dettaglio è tutto fuorché facile perché Gurren Lagann è pura follia, un mix di mille generi e atmosfere che, fedele ai dettami GAINAX, non cessa di meravigliare per inventiva narrativa e registica, accompagnando momenti di immenso pathos. Tema prediletto della storia è l'evoluzione: caratteriale nel timido Simon, che vive all'ombra del suo amato fratellone Kamina fino al momento di prenderne il posto, ereditandone le responsabilità e diventando un adulto; robotica nel robottone protagonista, che nel corso della serie, a seconda delle fusioni che effettua con un intero esercito di macchinari, diverrà sempre più massiccio e potente fino a superare in grandezza interi pianeti. L'occasione di raccontare una toccante storia di crescita interiore, ma sopratutto di esplorare, rinnovare, superare oltre l'impossibile la spettacolarità propria del genere robotico: Gurren Lagann significa la più grande orgia tecnica e visiva mai prodotta in questo contesto, significa un budget da capogiro utilizzato per esaperare oltre l'inimmaginabile il concetto di "mazzate robotiche" date da fusioni bizzarrissime, mecha design buffo e grottesco (tra robottoni con occhiali da sole e colossali bestie super-deformed) e combattimenti distruttivi nel quale finiscono a pezzi intere galassie. Un calderone di esplosioni colossali, effetti speciali dai mille colori e soluzioni grafiche avveniristiche (il chara che si modella a seconda delle atmosfere, gli intriganti eyecatch fumettosi), che frustano gli occhi nella loro inventiva selvaggia. Al punto che "dimentica l'impossibile, supera la razionalità!", urlo di battaglia di Kamina, diventa un inno immortale non solo per gli eroi della storia.

Ci si affeziona alla galleria di assurdi personaggi e alle loro love-story, si ride di gusto nelle loro folli avventure, ci si commuove di fronte a spiazzanti e crudeli eventi drammatici. Infine, cade spesso e volentieri la mascella per la scoppiettante e schizofrenica regia che sembra quasi sul punto di esplodere per frenesia e piano-sequenza infiniti. Gurren Lagann trasuda carisma da tutti i pori rappresentando un manifesto post-moderno del genio creativo dell'animazione seriale, nonché un nuovo minestrone di infinite citazioni, come da natura del noto studio otaku, di ogni genere di anime assimilato fino a quel momento dai vari sceneggiatori (si passa da omaggi evidenti come quelli a Evangelion, Ashita no Joe e Gaiking - da cui deriva il design del Gurren Lagann - per arrivare a nerdate incredibili come la struttura della serie basata su quella di Votoms, senza dimenticare il soggetto che quasi di sicuro riprende quello del dimenticato, divertentissimo Blue Gale Xabungle), parodiando ed estremizzando al limite infinito l'impianto Super Robotico. Tanto genio che, fonte di meraviglia e sgomento, è per rovescio artefice di una certa delusione nel secondo e conclusivo arco narrativo. Tanto più la prima parte, per divertimento e pazzia, rimane nella memoria come un capolavoro di genio; la successiva, ambientata anni dopo, si prende troppo sul serio.


Si parla di invasioni aliene, ragion di stato, atmosfere apocalittiche e morti a profusione, e lo stile grafico demenziale diventa arma a doppio taglio: perfetto per un'avventura fresca e leggera con sporadici momenti commoventi, ma nel contesto di un intreccio cupo mostra i suoi limiti impedendo di prendere il tutto adeguatamente sul serio. Niente più umorismo, solo un'esasperazione di uccisioni, sacrifici e atmosfere trucide per una drammaticità così estrema da divenire stucchevole. E, un po' per i disegni, un po' per la dipartita di personaggi a cui ci si affezionava proprio perché surreali (umanamente insignificanti, nonostante il vano tentativo di correre ai ripari), si assiste abbastanza freddi al susseguirsi di catastrofiche puntate dove muoiono senza lasciare il segno individui che cercano in ogni modo, inutilmente, di commuovere. Dal punto di vista dello spettacolo i limiti visivi precedenti sono superati dagli scontri e dalle trasformazioni più "impossibili" mai viste in animazione, ma, se l'occhio è appagato, questa volta non lo è il cervello. Il finale poi, gratuitamente triste, è così fuori posto da stonare davvero troppo lasciando un amaro retrogusto.

Tirando le somme, e alla luce del successo di critica (Excellent Prize 2007 al Japan Media Arts Festival, miglior produzione televisiva e miglior character design al Tokyo International Anime Fair), si può dire con certezza che, per importanza storica, Gurren Lagann rappresenta quasi sicuramente un titolo che avrà un'influenza più o meno enorme nei prossimi decenni di animazione robotica. Difficile sotto questo punto superarne i fasti. Peccato che, a parere di chi scrive, l'ultimo quarto di storia rimanga una delusione non da poco, tendente addirittura alla delusione. Voto, quindi, che cerca di mediare tra il rimpianto di chi scrive e l'importanza che rivestirà l'opera nel tempo a venire.

Voto: 7,5 su 10


Il parere del Di Giorgio

Nell’arco delle 27 puntate che la compongono, una serie anime capolavoro come Sfondamento dei cieli Gurren Lagann ridefinisce i codici del cartoon robotico grazie a un attento lavoro sugli stereotipi che hanno fatto grande il genere, ricollocati in un’ottica post-moderna. La serie pesca a piene mani dal passato, servendosi del citazionismo come mappa su cui fissare una serie di punti, per poi investire direttamente concetti che si richiamano alla fisica quantistica, in modo da superare ogni limite e dare forma a una narrazione che trova la sua liberazione nell’eccesso più puro: robot sempre più potenti si fronteggiano in battaglie che superano lo spazio tempo, in un tripudio di esplosioni e energia lasciata libera di scorrere sullo schermo, mantenendo così lo spettatore in uno stato di perenne euforia.

Nonostante l’attenzione a un racconto sempre sovraeccitato e portato al massimo dei giri, Gurren Lagann è dunque terreno di ricognizione del già fatto e di sperimentazione di nuove soluzioni: che da tradizione GAINAX sono visive, attraverso la giustapposizione di stili differenti che spesso lasciano spazio alla creatività dei singoli disegnatori, ma anche narrative, capaci di interrompere la linearità del racconto per improvvise digressioni che magari aprono squarci in altri generi: la parentesi con Yoko maestra, ad esempio, rimanda più a generi cari alla Nippon Animation che a quel Ken Ishikawa chiamato in causa come nume tutelare grazie ai precisi riferimenti alla Getter Saga.

D’altronde l’intero concept della serie è articolato attraverso il ciclico ritorno su situazioni che permettano di stabilire due opposti, la conservazione e l’evoluzione. Nell’arco della loro avventura, infatti, i membri della Brigata Gurren dovranno più volte combattere una lotta di liberazione che sia soprattutto rivolta a esaltare il completamento di un sé in perenne divenire. Contro di loro, invece, si staglierà chi, in nome di una volontà difensiva dell’equilibrio, ha costretto (o intende farlo) l’umanità nel baratro della disperazione e della stasi perenne. Il tema della spirale, evocato dalle trivelle del super robot Gurren Lagann, dal movimento delle galassie e dalla struttura del DNA rimanda infatti a un’idea di tutto coerente laddove è lasciato libero di esprimersi nella perenne evoluzione, contraddetta dai paladini di uno status quo visto irrimediabilmente come depressione dell’istinto.

 
Il che naturalmente conduce a due derive fondamentali: la prima è quella di una critica sistematica ai pilastri codificati del reale e alle figure dell’autorità, siano esse la politica, la religione e tutto ciò che intende imbrigliare l’istinto in strutture organizzate e oppressive. Alla ragione si preferisce un ideale utopistico nella ricerca di un fine sempre spostato in avanti, oltre le soglie dell’impossibile, che però non diventa tanto spregio della tradizione quanto volontà di superare la stessa. Perché, e qui la sceneggiatura di Kazuki Nakashima dimostra tutta la sua intelligenza, il punto non è creare una frattura tra il passato (immobile) e il presente (dinamico), ma sfruttare il primo come base d’appoggio, come terreno di coltura in cui far germogliare quegli elementi che possano definire la via da percorrere. Il che naturalmente ci riporta al citazionismo citato all’inizio: Gurren Lagann è consapevole di poter innovare il genere robotico solo laddove ne conosce (e ne ossequia) a perfezione i codici e i limiti. Di qui scaturisce naturalmente la centralità di un personaggio come Kamina, che pure è fattivamente poco presente nel corso della storia, al contrario del reale protagonista Simon. Kamina infatti rappresenta esattamente l’incarnazione di una tradizione che vuole rimettersi in gioco (non a caso il motore che lo spinge all’azione è un ricordo del padre), che il racconto intende omaggiare ma al contempo superare. È lui, dunque, a codificare tutta una serie di elementi iconici del racconto - entrando così in risonanza con la conoscenza degli stilemi radicati nella memoria storica del suo pubblico - e a determinare le varie svolte della storia: è lui a dare il nome ai robot e alla Brigata Gurren, è ancora lui a suggerire l’idea dell’agganciamento che forma il Gurren Lagann, e, non ultimo, è lui a designare letteralmente Simon come autentico eroe e protagonista dell'avventura. A dispetto del suo apparente agire sconsiderato, Kamina non sbaglia mai alcuna mossa, la sua avventatezza è sintomo di un coraggio radicato nell’indole guerriera del Giappone e permette ai personaggi di liberare il proprio potenziale nascosto.

Qui si instaura dunque la seconda deriva del racconto. Quella, cioè, che chiama in causa lo stesso pubblico degli appassionati, costretti a rispecchiarsi nel proprio ruolo di difensori di una memoria storica che non deve mai diventare museificazione del passato e glorificazione asfittica in nome della nostalgia, a detrimento al presente. Al contrario, il regista Hiroyuki Imaishi ci ricorda che se abbiamo amato il passato per la vitalità che era stato capace di esprimere, non possiamo che sognare di rendere altrettanto vivo il presente attraverso la sua continua evoluzione, lungo quel percorso che da Tetsujin 28 e Mazinger Z, capostipiti del genere, ha portato a Gurren Lagann.

Voto: 10 su 10

ALTERNATE RETELLING
Gurren Lagann: Childhood's End (2008; film)
Gurren Lagann: The Lights in the Sky are Stars (2009; film)

ALTRO
Gurren Lagann Parallel Works (2008; special)
Gurren Lagann Parallel Works 2 (2010; special)

martedì 10 novembre 2009

Recensioni: Mobile Suit Gundam (Trilogia cinematografica)

MOBILE SUIT GUNDAM (TRILOGIA CINEMATOGRAFICA)
Titoli originali: Kidō Senshi Gundam I; Kidō Senshi Gundam II - Ai Senshi; Kidō Senshi Gundam III - Meguriai Sora
Regia: Yoshiyuki Tomino
Soggetto: Hajime Yatate, Yoshiyuki Tomino
Sceneggiatura: Hiroyuki Hoshiyama, Yoshihisa Araki, Masaru Yamamoto, Kenichi Matsuzaki
Character Design: Yoshikazu Yasuhiko
Mechanical Design: Kunio Okawara
Musiche: Hiroshi Matsuyama, Takeo Watanabe
Studio: Sunrise
Formato: serie di 3 lungometraggi cinematografici (durata film 140 min. circa)
Anni di uscita: 1981 - 1982
Disponibilità: edizione italiana in DVD a cura di Dynit


Era Spaziale, fine dell'anno 0079. Sono passati dodici mesi da quando Side 3, la colonia spaziale più lontana della Terra, dopo essersi ribattezzata Principato di Zeon ha dato inizio a una guerra d’indipendenza contro la Federazione Terrestre. I zeoniani sembrano ormai sul punto di vincere grazie alla superiorità tecnologica rappresentata dai loro temibili Zaku, ma qualcosa sta per cambiare: su Side 7 i federali pongono le ultime speranze di vittoria in una nuova linea di Mobile Suit, a cui fa capo il potente prototipo RX-78-2 Gundam. Attaccata dalle forze di Zeon sulla colonia, la Federazione affida il Gundam al civile Amuro Ray e all’equipaggio militare dell'astronave White Base, composto da personale inesperto e improvvisato (perlopiù amici/coetanei del ragazzo), con il compito di scortare il rivoluzionario robot fino al quartier generale di Jaburo, da dove sarà poi avviata la sua produzione di massa. Il loro viaggio sarà, però, irto di ostacoli e di battaglie, in special modo contro l’asso di Zeon, Char Aznable, la Cometa Rossa, misterioso ufficiale che nasconde la sua identità dietro una maschera.

Spesso è difficile giustificare l'esistenza dei "film riassuntivi", lungometraggi che escono al cinema, a ridosso della conclusione di una particolare serie animata di successo, che si propongono il vacuo scopo di sintetizzarla al grande pubblico, per la gioia di appassionati - che possono rigodersi i momenti migliori della storia - e profani - che prendono la cosa come alternativa alla visione delle puntate. Spesso si tratta di prodotti biecamente commerciali, fatti col minimo sforzo, con una stanca opera di taglia-incolla dei segmenti originali che si risolve in un nuovo intreccio privo di organicità e dalla caratterizzazione non pervenuta dei personaggi. Eppure, la Storia ha insegnato come anche il cinema può influenzare pesantemente le opere televisive: un buon esempio è rappresentato, nel 1977, dal film de La corazzata spaziale Yamato, mediocrissimo ma capace di ottenere un enorme successo riabilitando la sfortunata opera del '74 di Yoshinobu Nishizaki e dando forte impulso all'esplosione dell'anime boom giapponese; un altro, nei primi anni '80, proprio dai tre mitologici lungometraggi di Mobile Suit Gundam (1979), i veri, fondamentali artefici dell'immensa popolarità del capolavoro di Yoshiyuki Tomino.

A fine gennaio 1980, la serie televisiva di Sunrise si conclude nell'indifferenza generale: il flop di share e di vendite di giocattoli convincono lo sponsor, l'azienda Clover, che nulla di buono può venire dall'opera e si decide, quindi, per la chiusura anticipata a 43 episodi. La storia si conclude perciò con battaglie finali abbastanza affrettate e pochissimo spazio dedicato a trattare i Newtype, cardini della visione poetica del regista e appena accennati. Successivamente, nei mesi che seguono, Bandai, ditta rivale, inizia a intravedere del potenziale nell'epica storia di guerra tratteggiata da Sunrise: subentra quindi a Clover e, con strategie pubblicitarie decisamente migliori e, soprattutto, scegliendo di basare le vendite non più su approssimativi giocattoli per bambini ma veri e propri modellini dettagliati in scala 1/44, riesce dove il predecessore ha fallito: a vendere bene i prodotti di corollario, esaurendo prestissimo le scorte della prima tiratura. Inizia lentamente a crearsi un passaparola generale, il Gundam RX-78-2 e gli Zaku vanno a ruba e la serie inizia a conoscere una timida rivalutazione grazie al passaparola generale. Sono segnali incoraggianti per Sunrise, che trova in Bandai un nuovo sponsor con cui scommettere sul Mobile Suit bianco: decidono insieme di tentare di riabilitare l'opera con tre lungometraggi cinematografici, un'operazione volutamente ispirata a quella di Yamato. Liberi dalle imposizioni di Clover, che originariamente voleva in Mobile Suit Gundam una serie robotica ancorata a certe pretese "giocattolose" lontane dal "realismo" ostentato dalla storia, e con piena carta bianca da parte del nuovo produttore, Sunrise e Tomino possono rinarrare la storia limandola dalle sue imperfezioni, rinnegando alcune idee originarie imposte dagli iniziali diktat produttivi (Sayla Mass alla guida del Gundam, le unità G-Armor e G-Fighter, etc) e rigirando in modo più consono e spettacolare svariate sequenze1. Tomino, del resto, nel 1980, disgustato dai riassuntoni cinematografici Corazzata Spaziale Yamato, Science Ninja Team Gatchaman (1978) e Future Boy Conan (1979), tutti men che mediocri perché non diretti dai registi della rispettiva serie televisiva, profeticamente fa inserire una clausola, nel suo contratto con Sunrise, che lo pone come unico regista abilitato a fare riassuntoni delle sue serie TV, a mo' di "garanzia" di qualità che gli dia sempre il potere di gestire al suo meglio queste operazioni2. Con tali presupposti, ovvio che il risultato che ne esce è una una trilogia cinematografica di alto livello artistico, tre corposi filmoni che, in sette ore e mezza totali di girato (quasi metà della durata complessiva dell'intero originale!), migliorano di molte grandezze la trama, gratificando gli appassionati con un nutrito numero di cambiamenti, narrativi e non, che realizzano la versione "definitiva" della storia, e i profani con una alternativa davvero valida alla visione dei 43 episodi.


I tre titoli riescono nel loro scopo e lo fanno nel modo più vittorioso: nel biennio 1981-82 ottengono un enorme successo3, sbancando il botteghino e finendo sulla bocca di tutti. La serie televisiva viene prontamente ritrasmessa raggiungendo alti share (oscillando tra il 15 e il 20%4), nuove linee di modellini vengono immesse nel mercato andando letteralmente a ruba, ma in special modo tutte le caratteristiche e gli stilemi inaugurati da Gundam sono esaltati e sdoganati nell'ambiente, iniziando lentamente a cambiare il volto dell'animazione robotica seriale. È il trionfo completo, la rivoluzione ha ufficialmente inizio, ed è già inaugurata profeticamente il 22 febbraio 1981, circa una ventina di giorni dall'arrivo nelle sale del primo film, giorno in cui si svolge l'anime shinseiki sengen, la "Proclamazione della nuova era dell'animazione". Sunrise sponsorizza a Shinjuku l'evento, a cui si presentano, stupendo lo stesso studio, circa 15.000 persone di un'età minima di 16 anni, di cui molte in cosplay. Un giovane Mamoru Nagano (futuro scrittore del ciclo fantasy The Five Star Stories), vestito dal villain Char Aznable, legge il proclama in cui sono ribadite tutte le innovazioni dell'opera, compresa quella, la più importante, del come l'animazione non è più seguita solo da bambini ma sta iniziando a rivolgersi anche a target maggiori e dai gusti sofisticati, e merita sia più autorevolezza da parte di critica e pubblico, sia più libertà creativa, visto che gli staff dovrebbero poter realizzare l'opera per se stessi. L'evento è trasmesso in diretta sui canali televisivi nazionali, facendo conoscere Gundam a tutto il Giappone5. Questo avvenimento potrebbe simbolicamente definirsi l'anno zero della rivoluzione del genere, visto che, oltre a benedire le innovazioni di Gundam, aprirà anche la strada a quelle di un altro lavoro spartiacque del 1982.

Usciti entrambi nel 1981 (alla distanza di quattro mesi l'uno dall'altro), i primi due lungometraggi, Gundam The Movie I e Gundam The Movie II: Soldati del dolore, rappresentano un'ottima sintesi di buona parte della storia, coprendo i primi 31 episodi televisivi. Pur sacrificando un po' la caratterizzazione di alcuni elementi secondari del cast (ma senza comunque renderli monodimensionali, e mantenendo fortissima quella dei personaggi principali), grazie alla loro lunga durata riescono a riassumere benissimo l'intreccio, con estrema coerenza, eliminando le lungaggini, modificando qua e là qualche sequenza (in primis dando un destino diverso ad alcuni avversari della White Base, aumentando la durata delle battaglie più epiche e, come già detto, eliminando i robot più inverosimili e "giocattolosi") e aggiungendo un primo discorso di introduzione ai Newtype. Sono davvero fatti bene, con un montaggio di alto livello che, a un occhio profano, potrebbe addirittura farli sembrare concepiti come film in quanto tali e non opera di rimontaggio di materiale già esistente: merito dell'estrema linearità dello script originale, ma anche della scelta vincente di replicare interamente, senza tagli, intere puntate della storia (ad esempio le prime due di apertura), per dare il giusto spessore agli avvenimenti-chiave. Dei due, il primo lungometraggio è quello più specificamente riassuntivo, con quasi nessuna aggiunta inedita, ma in compenso rimontato benissimo; il secondo non è ugualmente perfetto e sacrifica più del precedente la caratterizzazione di alcuni attori, ma in compenso offre un buon 30% di animazione inedita, in grado di risvegliare nuovi entusiasmi negli appassionati della serie televisiva. Fa sorridere pensare che, al momento di concepire questi film, Tomino si sia lamentato con le alte sfere di Sunrise sul fatto che non sarebbe stato possibile riassumere più di tanto le parti principali della storia6!

Incontro nello spazio esce il 13 marzo 1982 ed è di gran lunga il migliore lungometraggio del trittico, l'unico che vada obbligatoriamente visto anche da parte di chi ha già guardato la serie TV. Se i primi due lungometraggi si limitano a un ottimo sunto, quest'ultimo va oltre rileggendo praticamente da capo l'ultima parte della storia, quella che ha risentito maggiormente dell'originale cancellazione prematura della serie. La supera in ogni aspetto con uno storyboard nuovo di zecca e un 70% di animazioni inedite7, sfruttando l'alto budget per rendere le (originariamente sintetiche) battaglie di Solomon e A Bao A Qu massicce e spettacolari come sarebbe convenuto, innaffiando il tutto con una spettacolare regia da kolossal e curando al massimo i già splendidi disegni originari. Incontro nello spazio è anche il film che arricchisce enormemente l'intreccio storico, rendendo ancora più indimenticabili le caratterizzazioni di Amuro, Char e Lalah Sune, dando finalmente il giusto spazio al discorso sui Newtype e fornendo una conclusione ancor più lunga, epica ed esaustiva. Peccato solo, in questo caso, per la riproposta del debole intermezzo sentimentale tra Mirai e Sleggar (uno dei pochi nei dell'originale) e per la rimozione del personaggio di Challia Bull.


Incontro nello spazio è l'atto conclusivo del processo di mitizzazione di Gundam: destinato a trasmettere tutte le sue innovazioni al mondo animato, ma anche a dare indicazioni concrete a Sunrise sul suo futuro. Il Mobile Suit bianco si riscopre il suo più grande successo commerciale di sempre, il robottone più conosciuto in tutto il Giappone insieme a Mazinger Z: lo studio decide di dargli un seguito, che si realizzerà tre anni dopo. Bandai, d'altro canto, scoprirà con Gundam quant'è redditizio il mercato dei Gunpla, i modellini basati sulle unità robotiche che appaiono nella serie: diventa quindi lo sponsor ufficiale di Sunrise influenzandolo fin da subito nelle sue scelte di creare sequel, diventando a tutti gli effetti il principale motivo della trasformazione dell'opera, negli anni successive, in una saga animata eterna, pronta a offrire sempre nuovi mecha destinati a trovare seconda vita nel massiccio, popolare e milionario mondo dei model kit. Sono nate le basi del fenomeno gundamico come è tutt'ora conosciuto.

Chiudendo la parentesi storica e tirando le somme sui film, il parere di chi scrive è che, con la loro importanza, la splendida fattura e il merito di migliorare notevolmente l'intreccio originale, siano da vedere. La Movie Trilogy rappresenta una Director's Cut di alto livello, tra le più importanti e autorali della Storia dell'animazione nipponica. L'edizione italiana in DVD a cura di Dynit, pur non perfetta nella localizzazione (la recita dei doppiatori è svogliata, il battaglione Stella Trinaria Nera è stato rinominato Triade Nera per chissà che ragioni e si soffre, come sempre, per la pronuncia di "Gandam" resa in "Gundam" fatta per accontentare i nostalgici dell'audio storico italiano), gode di una tradizione dei dialoghi perfetta ed è oggi rimediabile a un prezzo davvero stracciato: non c'è motivo per non acquistare questi tre classici.

Voto a Mobile Suit Gundam The Movie I: 8,5 su 10
Voto a Mobile Suit Gundam The Movie II - Soldati del dolore: 8 su 10
Voto a Mobile Suit Gundam The Movie III - Incontro nello spazio: 10 su 10

PREQUEL
Mobile Suit Gundam: The Origin (2015-2016; serie OVA)
Mobile Suit Gundam (1979-1980; TV)

SIDE-STORY
Mobile Suit Gundam MS IGLOO 2: The Gravity Front (2008-2009; serie OVA)
Mobile Suit Gundam MS IGLOO: The Hidden One-Year War (2004; corti)
Gundam Evolve../ 01 RX-78-2 Gundam (2001; OVA)
Mobile Suit Gundam Thunderbolt (2015-2016; serie ONA)
Mobile Suit Gundam Thunderbolt: December Sky (2016; film)
Mobile Suit Gundam MS IGLOO: Apocalypse 0079 (2006; serie OVA)
Mobile Suit Gundam 0080: War in the Pocket (1989; serie OVA)
Mobile Suit Gundam: The 08TH MS Team (1996-1999; serie OVA)
Gundam Evolve../ 11 RB-79 Ball (2005; OVA)
Mobile Suit Gundam 0083: Stardust Memory (1991-1992; serie OVA)
Mobile Suit Z Gundam (1985-1986; TV)
Gundam Neo Experience 0087: Green Divers (2001; corto)
Mobile Suit Gundam ZZ (1986-1987; TV)
Mobile Suit Gundam Unicorn (2010-2014; serie OVA)
Mobile Suit Gundam Unicorn RE:0096 (2016; TV)
Mobile Suit Gundam Unicorn: One of Seventy Two (2013; corto)
Mobile Suit Gundam F91 (1991; film)

ALTRO
Ring of Gundam (2009; corto)
Mobile Suit Gundam-san (2014; TV)


FONTI
1 Tutte queste informazioni sono riportate nelle pag. 25-27 del report "Japanese Animation Guide: The History of Robot Anime", rilasciato nell'agosto 2013 dall'Agenzia di Affari Culturali giapponese. Rimediabile (parzialmente) tradotto in inglese alla pagina web http://mediag.jp/project/project/robotanimation.html
2 Quest'informazione proviene da una doppia intervista fra Yoshiyuki Tomino e Isao Takahata, riportata nel Roman Album di "Mobile Suit Gundam". Mi è stata gentilmente tradotta da Garion-Oh (Cristian Giorgi, traduttore GP Publishing/J-Pop/Magic Press e articolista Dynit)
3 Guido Tavassi, "Storia dell'animazione giapponese", Tunuè, 2012, pag. 129. Confermato dal saggio "Anime al cinema" (Francesco Prandoni, Yamato Video, 1999, pag. 80) e dal report del punto 1 (a pag. 27)
4 Mangazine n. 18, Granata Press, 1992, pag. 44. Confermato da "Anime al cinema" (pag. 80)
5 Sono svariate le fonti presenti in internet e su carta stampata. Si veda il sito Cosplayplanet (http://www.cosplayplanet.net/tag/storia/), post vari di Garion-Oh su Gurendaiz (http://www.gurendaiz.it/forum/index.php/topic/9304-neon-genesis-evangelion-renewal/?p=908817) e Pluschan (http://www.pluschan.com/index.php?/topic/3671-aim-for-the-top-gunbuster/?p=203516),  l'articolo "Questo non è un fumetto" di Andrea Baricordi apparso sul volume 1 di "Gundam Origini" (Star Comics, 2004), il dossier "The Day the Earth Stood Still" apparso sul volume 2 di "Record of the Venus Wars" (Magic Press, 2009) e la prefazione di Eiji Yamaura presente nell'artbook "Mobile Suit Gundam: Illustration World", pubblicato negli anni '90, in Italia, da Granata Press
6 Fascicolo 2 di "L'invincibile Zambot 3 Archives" (allegato al secondo DVD de "L'invincibile Zambot 3", Dynit, 2007), "Intervista a Yoshiyuki Tomino", pag. 4
7 Post di Garion-Oh apparso nel forum di Mechanicalrage. http://www.mechanicalrage.it/phpBB3/viewtopic.php?f=7&t=8713&p=308062#p308062

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