giovedì 30 settembre 2010

Recensione: Venus Wars

VENUS WARS
Titolo originale: Venus Senki
Regia: Yoshikazu Yasuhiko
Soggetto: (basato sul fumetto originale di Yoshikazu Yasuhiko)
Sceneggiatura: Yoshikazu Yasuhiko, Yuuichi Sasamoto
Character Design: Yoshikazu Yasuhiko
Mechanical Design: Makoto Kobayashi, Hirotoshi Yokoyama
Musiche: Joe Hisaishi
Studio: Triangle Staff, Kugatsusha
Formato: lungometraggio cinematografico (durata 103 min. circa)
Anno di uscita: 1989
Disponibilità: edizione italiana in DVD & Blu-ray a cura di Yamato Video



Nell'anno 2003, il pianeta Venere, colpito da un asteroide, subisce grandi sconvolgimenti naturali che cambiano profondamente la sua geografia e la sua composizione, tanto che ottant'anni dopo la razza umana l'ha già colonizzato e terraformato, rendendolo pienamente abitabile. La guerra, virus dell'umanità, però non lo risparmia: nel 2089 scoppia un conflitto mondiale tra le due superpotenze continentali che si contendono il pianeta, coinvolgendo tutta la popolazione venusiana, tra cui il motociclista Hiroki Senoo e i suoi amici, costretti ad arruolarsi nei ranghi dell'esercito di  Aphrodia (in un'unità motorizzata d'assalto) per sopravvivere all'invasione di Ishtar...

Per quanto interrotto e perciò privo di un finale, Record of the Venus Wars rappresenta tutt'ora la più affermata e rappresentativa opera a fumetti di Yoshikazu Yasuhiko. Serializzato dal 1987 al 1990 sulla rivista Comic Nora, è un gran manga fantascientifico, intrigante non solo per i disegni di uno Yas al top assoluto del suo celebre tratto pittorico, ma anche per i suoi realistici toni adulti, che raccontano un conflitto armato vissuto, una volta tanto, non da un eroe che a bordo di un qualche robottone sarà risolutivo nel farlo cessare, ma da un protagonista che pilota semplici moto corazzate e che è una semplice pedina come tante nel conflitto, il cui unico interesse è sopravvivere e non fare la fine dei suoi compagni in armi. Nessun apparato epico: la guerra è una cosa seria ed è presentata nel suo malvagio realismo, è cruda e rende tutti gli uomini delle bestie ciniche, e il giovane teppistello Hiroki, anche se odia il mondo conformista e posato degli adulti e vuole sfuggirgli vivendo una vita sul filo del rasoio, partecipando alle violente e pericolose gare di Battlebike (lo sport distopico del pianeta, probabilmente ispirato al film del 1975 Rollerball), sarà costretto a diventare un uomo conoscendo la spaventosa crudeltà di poter essere ucciso da un giorno all'altro dai suoi simili che gli sparano addosso con proiettili o cannoni, quando la sua unità ingaggia duello con i carri armati di Ishtar. Palesemente influenzato nei suoi tratti dalla Guerra Fredda per quello che riguarda il setting politico e la sua cronistoria, Venus Wars è insomma una notevole space opera, cupa e drammatica, che ha anche l'originalità di trasformarsi in tutt'altro nel secondo e ultimo arco narrativo: in un thriller urbano ambientato temporalmente dopo la fine del conflitto, in cui uno dei soldati dello Stato vincitore dà inizio a una vendetta personale contro il comandante supremo che governa la nazione. Disponibile in Italia in una splendida edizione in 4 volumi targata Magic Press, Venus Wars è una lettura a cui difficilmente un appassionato di fantascienza e fumetto può sottrarsi. È invece evitabilissimo, quasi ai limiti dell'imperativo morale, l'ambiziosissimo lungometraggio animato scritto, supervisionato (checché ne dicano i credits, il regista "vero" sarebbe Sachiko Kamimura, ufficialmente uno dei due direttori dell'animazione1) e addirittura parzialmente animato a sue spese (sua è la Kugatsusha, uno dei due studi d'animazione assoldati2) di Yas, uscito l'11 marzo 1989, in piena serializzazione del fumetto e basato molto alla lontana sul primo arco narrativo dei primi 2 volumi. La ragione è che l'autore, tentando di celebrare la storia, non solo realizza un film mal riuscito, ma fornisce anche un poco raccomandabile biglietto da visita per il successivo recupero della fonte originale, che con la pellicola ha davvero ben poco da spartire per quello che riguarda lo sviluppo della storia.

Dai primi volumi, Kamimura pesca alcuni personaggi, ne elimina altri, ne inventa di nuovi e infine ci ricama sopra un intreccio inedito con pochissimi punti in contatto con l'originale. Unica raccomandazione di Yas: mantenere Hiroki l'eroe della vicenda e farlo combattere sulla motorbike. Tutto il resto si può cambiare quanto e come si vuole3. Risultato? Se si vede la pellicola dopo aver già letto il manga, lo schifo è tale da essere addirittura sorprendente, ma, anche nel caso inverso, l'opera è meno che che mediocre. La nuova vicenda inventata è senza logica, con quasi 3/4 di durata complessiva retti sull'accavallarsi di situazioni e dialoghi del tutto irrilevanti, che cercano di analizzare il conflitto da parte dei poveracci approfondendo la vita  privata di Hiroki, dei suoi amici biker e di altri personaggi a contatto con la guerra dalle retrovie, che, come semplici spettatori passivi, discutono di essa con amici e fidanzate. Peccato, appunto, che TUTTO abbia ZERO senso nell'economia della trama (insomma, lungaggini pure!), che ha luogo giusto quando il lungometraggio si riallaccia fedelmente al fumetto, ossia in quegli ultimi venti minuti finali in cui l'eroe, dopo essere entrato nella formazione Hound dell'esercito di Aphrodia, partecipa a una spettacolare battaglia. Basta.


I difetti di Venus Wars film sono pochi ma enormi: oltre all'inconsistenza di buona parte della sua sceneggiatura, priva di reale senso per i personaggi, gli spunti sociali e psicologici evocati e lasciati a sé stessi (esemplare in senso negativo il rapporto problematico di Hiroki con la sua fidanzata Margot "Maggy" Nakamoto), vale la pena citare anche la mole di attori davvero pessimi, che siano storici o inventati in animazione. Mi riferisco al generale di Ishtar Gerhard Donner, ridicolo villain/macchietta che sostituisce il Dungbarth Rado del manga (ma perchè?!), ma specialmente all'insopportabile Susan Sommers, svampita giornalista il cui ruolo dovrebbe essere quello di fornire un punto di vista "neutrale" sul conflitto (come il bel personaggio della diplomatica Helen McLucie su cui è ovviamente basata), ma che fin dalle primissime fasi fa decadere l'impianto realistico e crudo della vicenda, coi suoi tremendi lamenti e siparietti semi-comici in situazioni pericolose che mandano a donnine tutta la serietà generale. Che dire poi dei personaggi storici snaturati? I più eclatanti sono gli amici di Hiroki, teppistelli come lui e il cui scopo nel manga è di far risaltare la sua maturazione a contatto con la guerra  - stentano a riconoscerlo quando lo vedono cambiato dopo un periodo di battaglie in prima linea, i loro mondi ormai sono ben distanti e ormai impossibili da riconnettere. Nel film, invece, anche loro diventano militari perdendo ogni ragione di esistere.

Davvero discutibile, infine, la conclusione: velocissima, banale, per certi versi addirittura inaccettabile per gli assurdi, contraddittori cambiamenti operati all'originale (tra cui la vincita della fazione "opposta" a quella del fumetto). Improponibile per i fan dell'originale, il film potrebbe stregare giusto i maniaci della tecnica, quelli che a sentire il nome del noto compositore Joe Hisaishi (autore di una colonna sonora tipicamente piena di banali synth anni '80, insomma nulla di accostabile ai suoi capolavori per Hayao Miyazaki), a vedere le strabilianti animazioni (i principali direttori dell'animazione sono Toshihiro Kawamoto e Hirotoshi Sano, gli stessi del pazzesco Mobile Suit Gundam 0083 - Stardust Memory per intenderci) e ad ammirare i magnetici disegni dello stesso Yas, vanno in brodo di giuggiole. Da quel punto di vista, il lavoro riesce ad andare addirittura oltre, proponendo delle audacissime sperimentazioni grafiche (la sovrapposizione tra disegni a mano e veri inserti live, creati applicando rodovetri su veri fondali, usati un paio di volte per filmare alcune perlustrazioni in moto) che meritano applausi. Peccato che, a prescindere dalla fredda estetica, Venus Wars sia esageratamente lungo per quel che di minimale vuole dire, privo di un reale senso per buona parte della sua durata, scritto in maniera ridicola e grottesca e con un disegno psicologico generale davvero approssimativo. Rimane agli atti una piccola gemma di pura tecnica visiva che non riesce a mascherare uno dei peggiori script che si ricordino nei film d'animazione di quegli anni, e che si risolve, del tutto giustamente, in un ennesimo risultato deludente al botteghino, il terzo flop cinematografico di fila per Yas dopo Crusher Joe: The Movie (1983) e Arion (1986), tanto da convincerlo ad abbandonare definitivamente la carriera di regista di lungometraggi. A posteriori, non è stata proprio una brutta idea.


Come chiodo sulla bara per il pubblico italiota c'è da citare il doppiaggio nostrano operato da Yamato Video negli anni '90: sembra quasi si siano messi d'impegno per scegliere le voci più svogliate, gracchianti, irritanti e fuori personaggio di sempre, sbagliate dalla prima all'ultima, uno stupro sonoro con pochissimi precedenti nel mondo dell'adattamento italiano (pari solo, forse, a quello operato a Ken il guerriero: Il Film). A meno di amare le emorragie dall'orecchio, è fondamentale ascoltare il film con audio originale e sottotitoli, facilmente rintracciabili nei DVD/BD (sempre Yamato Video).

Voto: 4,5 su 10


FONTI
1 Mangazine n.12, Granata Press, 1992, pag. 73 - 74
2 Come sopra, a pag. 73
3 Vedere punto 1
4 Guido Tavassi, "Storia dell'animazione giapponese", Tunuè, 2012, pag. 205

mercoledì 29 settembre 2010

Recensione: My-Hime

MY-HIME
Titolo originale: Mai-HIME
Regia: Masakazu Obara
Soggetto: Hajime Yatate
Sceneggiatura: Hiroyuki Yoshino
Character Design: Hirokazu Hisayuki
Musiche: Yuki Kajiura
Studio: Sunrise
Formato: serie televisiva di 26 episodi (durata ep. 24 min. circa)
Anni di trasmissione: 2004 - 2005

 
Mai Tokiha è una Hime, una ragazza dotata di poteri e armamenti straordinari legati alla misteriosa Stella delle Hime. Lo scopre nel liceo Fuuka, dove si è appena trasferita col malaticcio fratellino Takumi. Un luogo che cambierà la sua vita: nell'istituto esistono altre undici Hime come lei, e il loro scopo è di combattere e distruggere misteriosi mostri chiamati Orphan...

Nel 2004, in mezzo alla consueta marmaglia di commediole, ecchi e trasposizioni di shonen, Sunrise tira fuori dal cilindro My-Hime, dietro il cui gioco si parole (My si può leggere come Mai, nome della protagonista) si nasconde quella che diventa presto una delle ultime, rinomate hit commerciali dello studio. Il suo successo, dovuto alla sua qualità e all'intelligentissima campagna di marketing di Sunrise per pubblicizzarlo, genera così un nuovo, importante franchise, culminante in due serie tv, due serie OVA e un corposo numero di manga collaterali (tutti giunti in Italia per le edizioni J-Pop). Senza togliere nulla alla bellezza o meno dei vari spin-off . tutti ambientati, oltretutto, in universi alternativi -, bisogna comunque ammettere che la grandezza della saga trova espressione migliore nel suo esponente originale. My-Hime è un'avvincente rielaborazione dei tratti delle serie maho sentai mono à la di Sailor Moon, senza centinaia di filler e con una sceneggiatura solida e spigliata. Una storia semplice e lineare, briosa e confezionata benissimo.

Come nelle produzioni di Goro Taniguchi (qui in veste di creative producer, fantomatico e misterioso ruolo che non pochi inquadrano come di "aiuto sceneggiatura"), la prima metà della serie vede il racconto adagiarsi su toni leggeri, con molte concessioni ad atmosfere scanzonate per presentare a dovere il folto cast delle Hime. Siamo dalle parti di un Sailor Moon, con le varie amiche/alleate che affrontano, puntata dopo puntata, i mostruosi Orphan facendosi domande sulla loro identità e quella dei nemici. Lo sceneggiatore Hiroyuki Yoshino le caratterizza egregiamente: coi loro tormentoni, le espressioni tipiche e le surreali situazioni che le vedono protagoniste diventano presto simpatiche portando ad affezionarsi a loro. In questo primo segmento di storia i misteri dietro gli Orphan e la misteriosa organizzazione che studia le Hime è lasciato in secondo piano dalla mole di gag esilaranti, fanservice ecchi e atmosfere romantiche della storia, ottimamente integrati e mai invadenti. La vera anima di My-Hime, impossibile da immaginare fino a quel momento, si esprime solo nella seconda parte.


Le atmosfere cupe che seguono, infatti, sconfinano nel dramma al fatidico momento del Carnival of Hime, rituale che vede affrontarsi tra di loro le varie ragazze in una battaglia all'ultimo sangue per designare quella che affronterà il villain della serie. Particolarità del rituale è che ognuna di esse, combattendo, poggia sulla bilancia la vita della persona che le è più cara (genitori, fidanzati, fratelli, etc): in caso di sconfitta, anche la lei muore. Da un'idea tanto sadica il creatore Yoshino scrive una lunga sfilza di episodi di eccezionale drammaticità, con tutti i momenti "clou" resi in modo più straziante possibile e dove l'amicizia che lega precedentemente le ragazze è sostituita da odio portando a degenerazioni impensabili. Di pari passo con la truce evoluzione della storia procede anche la rapida maturazione dei temi affrontati: scomparsi i siparietti sexy è il momento di flashback dolorosi e torbidi rapporti amorosi, anche saffici (seppur affrontati con finezza e senza scadere nel volgare). Atmosfere incredibilmente riuscite e coinvolgenti, grazie sopratutto a quelli che sono i due punti di forza di questa e delle prossime serie animate: il chara design e la componente musicale. Il tratto di Hirokazu Hisayuki, così basilare, gommoso e colorato, è magistrale nel tratteggiare una storia così divertente e tragica allo stesso tempo, sposandosi perfettamente con le diversificate atmosfere che vuole evocare. Un lavoro che rende il nome dell'artista una garanzia e il suo stile di disegno tra i più noti nel mondo dell'animazione post-2000, uno dei pochi chara designer ancora capaci di emergere in un periodo di forte standardizzazione grafica. L'accompagnamento musicale della rinomata compositrice Yuki Kajiura, se possibile, è addirittura un capolavoro: la serie può vantarsi di una soundtrack di livello eccelso fondata su brani operistici cantati in latino (o almeno molto spesso) e diverse, epiche insert song, capaci di scuotere e donare agli intermezzi auree malinconiche o sferzanti che non lasciano indifferenti.


Duole segnalare un finale eccessivamente zuccheroso e certi fatti di trama non doverosamente spiegati (riguardo alla Stella delle Hime e alla finalità del Principe d'Ossidiana), ma tenendo conto della carica di originalità di quest'opera, uscita di punto in bianco e rapidamente diventata cult, si può anche correrci sopra, rinnovando il benvenuto al precursore di una delle più recenti e importanti saghe di successo Sunrise.

Voto: 8 su 10

lunedì 27 settembre 2010

Recensione: Berserk

BERSERK
Titolo originale: Berserk-Kenpū Denki
Regia: Naohito Takahashi
Soggetto: (basato sul fumetto originale di Kentaro Miura)
Sceneggiatura: Atsuhiro Tomioka, Makoto Itakura, Shinzo Fujita, Shoji Yonemura, Yukiyoshi Ohashi
Character Design: Yoshihiko Umakoshi
Musiche: Susumu Hirasawa
Studio: Oriental Light and Magic
Formato: serie televisiva di 25 episodi (durata ep. 24 min. circa)
Anni di trasmissione: 1997-1998



Nato dal corpo senza vita di una donna impiccata, Gatsu vive in un’epoca sanguinaria, un medioevo cupo e opprimente dove l’unico modo per sopravvivere è combattere, e uccidere. Cresciuto duramente dal sadico Gambino, a capo di un gruppo di mercenari, Gatsu e la sua gigantesca spada entreranno successivamente a far parte della Squadra dei Falchi, gruppo di soldati di ventura poco più che ragazzini. Con il carismatico comandante Grifis nasce un’amicizia solida e sincera, mentre con l’agguerrita Caska vi è un rapporto di amore/odio che tormenterà entrambi a lungo. Lodati ovunque per le incredibili abilità in battaglia, i Falchi vengono assoldati per sconfiggere il reame di Tuder in una lunghissima guerra che prosegue da oltre cent’anni. Ma quando si trovano ad affrontare il loro guerriero più forte, una creatura infernale, sia toro che uomo, con gigantesche ali di pipistrello, ogni cosa inizia a precipitare. Sembra esista un mondo delle tenebre, popolato da mostri aberranti, che sta per scontrarsi con la realtà...

Siamo nel 1997, Kentaro Miura disegna già da otto anni uno tra i manga allora più truci e innovativi mai sfornati dal Giappone, quel Berserk ancora lontano dalle lente derive fantasy in cui incapperà da lì a poco (preannunciando una spiacevole mancanza di idee e il timore di una probabile conclusione agonizzante). Come tradizione vuole, un manga di successo, per di più se sanguinario, scioccante, provocatorio, deve diventare un anime, ma come spesso accade, il risultato è traumatizzante. Sciaguratamente serializzato fino al momento clou del fumetto (quell’eclissi che offre uno dei colpi di scena più spiazzanti, cattivi, atroci di ogni tempo, trasformando Berserk in qualcosa di indefinibile, un insolito miscuglio di horror, fantasy ed erotismo), l’anime e i suoi 25 episodi costituiscono di fatto un’opera non solo incompleta, ma più che altro inutile, di una sterilità decisamente irritante.

L'Oriental Light and Magic affida ai suoi sceneggiatori (tra di loro troneggia ufficialmente il nome di Yasuhiro Imagawa, ma il grande autore di Giant Robot minimizzerà negli anni il suo contributo definendolo quasi del tutto irrilevante, una sommaria consultazione che i datori di lavoro hanno voluto acclamare1) il compito di ridurre solo una parte del manga, ovvero quel lunghissimo flashback iniziale dalla durata di ben 10 volumi, illustrante la giovinezza di Gatsu e la sua carriera nella Squadra dei Falchi. Scelta assai infelice, inoltre, è l’assenza di personaggi fondamentali come il Cavaliere del Teschio e Pak, il primo indispensabile per il prosieguo della trama mentre il secondo simpatica spalla comica del Guerriero Nero. Si deve pur mangiare e gli scriptwriter fanno quello che possono, ma il soggetto che devono ridurre in animazione, privo com’è di un vero e proprio finale e degli elementi cardine creati da Miura, è già morto in partenza.


La difficile storia d’amore tra Gatsu e Caska, l’attrazione morbosa e la gelosia di quest’ultima verso Grifis, il grande affetto e il rispetto tra il comandante della Squadra dei Falchi e il potente guerriero e la successiva avversità che ne scaturisce, il potere bramato da Grifis, il disprezzo dei regnanti nei confronti del prestigio progressivamente acquisito dai mercenari, per non parlare degli interrogativi sul libero arbitrio, lo studio filosofico del male come presenza indissolubile nell’uomo… Questi sono solo alcuni dei temi squisitamente introspettivi a cui l’anime, per quanto discretamente scritto, non riesce a dare valore, e non bastano sangue, sbudellamenti e battaglie, aspetti comunque assai addolciti rispetto al manga. Miura gestisce splatter e brutalità devastanti equilibrandoli con caratterizzazioni straordinarie e una vicenda sorprendente, imprevedibile (almeno prima del contestato abbraccio al fantasy); nell’anime tutto ciò viene svilito da una mancanza di senso generale, unico esito a cui portano queste 25 puntate. E non parliamo della sconveniente traduzione italiana, che disgraziatamente annacqua e dilunga i dialoghi oltremodo, rendendoli inascoltabili.

Forse si intuiva già allora che Miura non sarebbe mai stato in grado di concludere il manga, e ora, dopo 37 volumi (74 nella prima edizione), decenni di durata e una storia moribonda, troppo incentrata su combattimenti infiniti, possiamo amaramente esserne sicuri, resta però la seccatura per un anime che segue bene o male l’opera originaria, ma essendo orfano degli agganci necessari per dare credibilità al contesto e poter quindi proseguire parallelamente al manga (di certo non si può approvare un simile non-finale, perché non è aperto, non lascia a interpretazioni, è semplicemente tronco), come accaduto in molte altre produzioni, non ha motivo, non uno solo, per essere visto. Una scarsa attenzione realizzativa, inoltre, nonché disegni poco curati e altalenanti, animazioni scadenti e un’impacciata direzione generale di Naohito Takahashi affossano inesorabilmente una delle poche opere che, pur possedendo adeguati, gustosi pregi (personaggi, violenza, mostri, sesso), non doveva diventare una serie tv, distruggendo in questa maniera la parte migliore, la più vera, sentita, genuina del manga.



Un’ultima nota ancora per l’assurda traduzione italiana che, oltre al già citato sbrodolamento nella stesura dei dialoghi, per il doppiaggio sceglie voci davvero, davvero inadeguate, offrendo un reparto vocale assai smorto e borioso. L'edizione Yamato Video in DVD invece di correggere almeno con sottotitoli fedeli riporta tutto tale e quale, rendendo così futile l'acquisto del Box. Complimenti.

Voto: 4,5 su 10


FONTI
1 Conferenza del 2002 di Yasuhiro Imagawa all'Università Internazionale della Florida. La sintesi dei suoi interventi è raccolta in un topic del forum Neo Seeker (http://www.neoseeker.com/forums/42/t110743-yasuhiro-imagawa-speaks-so-does-yoshiyuki-tomino-yoko-kanno-tashihiro-kawamotu/#pagetop)

venerdì 24 settembre 2010

Recensione: Boogiepop Phantom

BOOGIEPOP PHANTOM
Titolo originale: Boogiepop wa Warawanai
Regia: Takashi Watanabe
Soggetto: (basato sui romanzi originali di Kouhei Kadono)
Sceneggiatura: Sadayuki Murai, Seishi Minakami, Yasuyuki Nojiri
Character Design: Shigeyuki Suga
Musiche: Yota Tsuruoka
Studio: Mad House
Formato: serie televisiva di 12 episodi (durata ep. 24 min. circa)
Anno di trasmissione: 2000
Disponibilità: edizione italiana in DVD a cura di Dynit

 

Una strana, improvvisa luminescenza rischiara il cielo notturno di una piccola cittadina. È un potente raggio di energia, ma nessuno sa da cosa possa essere generato. Forse è un segnale, o meglio, un richiamo, perché nei pressi del suo luogo d’origine accadano fatti inspiegabili: ragazzi che acquisiscono poteri soprannaturali, droghe allucinanti che danno vita a bizzarre creature, sparizioni misteriose, serial killer che tornano a uccidere, esseri divini in lotta tra loro, e sopra tutto, una semplice domanda… chi è in realtà Boogiepop Phantom?

Potrebbe sembrare un invito a passare oltre, ma l’unico modo per vedere Boogiepop Phantom e gustarselo appieno consiste in una valigia di pazienza e soprattutto in un blocco per gli appunti, e per chi scrive è grande pregio, caratteristica assai invidiabile nonostante la palese difficoltà di comprensione. Non v'è una sola storia, in Boogiepop Phantom, bensì 12, tratte dalle light novel di Kouhei Kadono, che confluiscono in una contorta, disumana, complicatissima trama generale. Ogni episodio racconta infatti di personaggi, eventi e contesti soprannaturali sempre nuovi, a sé stanti, che si collegano poi nell’affresco complessivo per via di piccoli o grandi tasselli che si incontrano lungo l’intero anime.

Arduo però venire a capo dei moltissimi quesiti che nascono puntata dopo puntata, enorme è la mole di informazioni, a tratti inesplicabile, e le ramificazioni dell’intreccio generale sono sempre più vaste, in un continuo aggiungere carne al fuoco che quasi mai si riesce a tenere sotto controllo. In un quotidiano contesto scolastico, infatti, si attorcigliano le vite di numerosi studenti, genitori, giornalisti e poliziotti, tutti alle prese con spiazzanti intromissioni soprannaturali: ragni invisibili che crescono sul petto delle persone, farfalle create con le mani, elaborazioni mentali che diventano realtà, bambini che rubano le anime dei ragazzi… Non c’è limite agli ingredienti di questo calderone, un horror che spesso si tinge di gore e che non disdegna alcune puntate nel cyberpunk. Chiaro che un simile, tortuoso collage non poteva essere equilibrato con assoluta precisione, e sicuramente bisognava concedere più spazio a quella manciata di episodi chiarificatori, su tutti l’8, che condensano in pochi minuti avvenimenti che necessitavano di almeno due, se non tre puntate per essere sviscerati appieno. Riassumere eccessivamente conduce a un’irritante confusione, e non sempre rivedere i momenti clou porta luce sulle domande più buie. Se a ciò si aggiunge l’apprezzato ma ancora più intricato scomponimento temporale di ogni episodio, con frequenti stacchi tra passato e presente, nonché molteplici punti di vista narrativi, si può capire quanta attenzione si debba riporre anche alla scena in apparenza meno significativa.


Ma se l’impalcatura narrativa è estremamente suggestiva, lo stesso non si può dire della qualità visiva, con un chara design semplice e pulito ma penalizzato da animazioni inesistenti: Boogiepop Phantom è ahimè un anime votato al risparmio, e se si apprezza la patina opaca che avvolge 11 episodi su 12, donando atmosfere ancora più tetre e cupe, è impossibile chiudere un occhio sulla staticità generale, sui personaggi immobili che quando si muovono sembrano farlo a scatti. Talvolta, per fortuna, la paralisi visiva è ravvivata da abbondanti scene splatter, unici frizzanti momenti di una monolitica lentezza, ma è purtroppo assai poco rispetto alla non perfetta eppure stregante sceneggiatura. Doppiaggio italiano come sempre non all’altezza, e vuoto: i DVD si trovano a un prezzo decisamente contenuto (anche se è imperativo rivolgersi alla sola versione in Box unico: i dischi sfusi soffrono purtroppo della censura nelle scene di sangue, rese in b/n), ma poi settate i sottotitoli e godetevi le voci originali.

Voto: 6,5 su 10

mercoledì 22 settembre 2010

Recensione: Punta al top 2! Diebuster

PUNTA AL TOP 2! DIEBUSTER
Titolo originale: Top Wo Nerae 2!
Regia: Kazuya Tsurumaki
Soggetto: GAINAX, Kazuya Tsurumaki
Sceneggiatura: Yoji Enokido
Character Design: Yoshiyuki Sadamoto
Mechanical Design: Shigeto Koyama, Junya Ishigaki, Takekichi Nadeara, Yoshitsune Izuna
Musiche: Kouhei Tanaka
Studio: GAINAX
Formato: serie OVA di 6 episodi (durata ep. 30 min. circa)
Anni di uscita: 2004 - 2006
Disponibilità: edizione italiana in dvd a cura di Dynit

 
Siamo sulla Terra, durante la secolare guerra che interpone i terrestri contro una razza di invasori alieni. Nono è una strana e impacciata ragazza dai lunghi capelli rosa, e il suo sogno di diventare parte dei Top Less, elite di super piloti al servizio dell'esercito terrestre capaci, con un incredibile potere, di evocare mentalmente le potentissime Buster Machine. Decide un giorno di lasciare la sua casa per realizzare la sua ambizione, e questo la porte all'incontro con Lal'C, la più potente dei Top Less: affezionatasi a lei e ribattezzatala amichevolmente "Signorina", Nono tenta in ogni modo di convincerla ad accettarla nel gruppo...

Quant'è sottile il confine tra capolavoro e ciofeca? Sebbene apparentemente senza senso, questo quesito ha un suo senso. Sono opere come Diebuster che spingono a porselo.

GunBuster, a suo modo, è leggendario. Realizzato a fine anni 80 rappresenta, da parte dello sceneggiatore Toshio Okada, una rielaborazione personale di tutti i clichè dell'animazione, robotica e non, in voga in quegli anni, riaggiornati in un'affascinante storia che mescola viaggi nel tempo e teoria della relatività. Diverse soluzioni registiche e visive d'impatto, il chara design sensuale e caldissimo di Haruhiko Mikimoto e uno splendido finale fanno il resto, consegnando alla storia GunBuster, per quanto imperfetto, come OVA imperdibile, emblema di quegli anni e cult assoluto dello studio GAINAX. E poi passano quindici anni. Cambiano le mode, i clichè sono rimpiazzati da altri, e le nuove frontiere dell'animazione scoprono la CG come accettabile e redditizia alternativa al disegno a mano. Per festeggiare i 20 anni dalla sua fondazione, GAINAX decide di regalare ai fan una nuova incursione nel commovente mondo di GunBuster. La regia è affidata a Kazuya Tsurumaki, già rimpiazzo di Hideaki Anno nell'incompiuto Le Situazioni di Lui e Lei, ma il problema che si pone è come collocare l'annunciato Diebuster nella storia precedente, dal finale decisamente perfetto e compiuto. Tsurumaki sceglie l'unica carta possibile: rinarrare la stessa vicenda dal punto di vista di altri personaggi, con sensibilità e atmosfere conformi alla sua moderna, personale concezione di divertimento. Nasce una side-story celebrativa, con protagonisti rappresentanti vere e proprie fotocopie di quelli di GunBuster a livello di personalità. Un famigerato capitolo 2 che verrà odiato visceralmente dalla stragrande maggioranza degli appassionati ma anche, curiosamente, amato in egual misura, al punto da essere considerato capolavoro, da una sparuta minoranza, senza alcuna via di mezzo. Ecco quindi una ritrovata Noriko, Nono, ancora una volta imbranata ai comandi delle Buster Machine e completamente dipendente dall'umore della sua adorata senpai Kazumi (questa avolta la bella Lal'C); ancora la guerra contro non meglio precisati mostri spaziali, e ancora tette ballonzolanti, più numerose che mai per rivangare una delle più famose "attrazioni" dell'originale. Quello che però difetta Diebuster rispetto a quest'ultimo è l'umiltà.

 
GunBuster, con intelligenza e senza strafare, trova interesse nella cura per omaggi, citazioni, rielaborazioni. Il concetto di divertimento di Diebuster e del suo regista, invece, non è il cosa mostrare, ma il come farlo: dando quasi per scontato un altro successone, cavalcano la strada dello stylish, con feste coloratissime di effetti speciali e sboronate visive per ricercare l'effetto cool. Rinunciano così a viaggi nel tempo ed elucubrazioni fisiche/einesteniane (troppo intellettuali per le nuove generazioni di spettatori?) per spingere il pedale sulle mazzate robotiche, trasformando quella che è una saga di fantascienza pura in un robotico colmo di combattimenti e distruzioni apocalittiche.

Se i lunghi e devastanti scontri, nel quale le Buster Machine pilotate dagli eroi abbattono pianeti addosso ai mostri (e le citazioni a Getter Robot e Ideon si sprecano nuovamente), sono realizzati in modo superbo, attraverso azzardate soluzioni visive e una CG eccellente (anticipando, per estetica e idee, le impressionanti battaglie di Gurren Lagann), decade però brutalmente la parte narrativa di contorno. Tantissimi dialoghi, ma sterili, interminabili, verbosissimi, così densi di terminologie tecniche da dare l'emicrania. E per colpa della pessima caratterizzazione di TUTTI i personaggi, dell'inadatto chara design di Yoshiyuki Sadamoto (perfetto in altre occasioni, ma il suo tratto semi-cartoonesco non ha senso in una storia cupa precedentemente illustrata dall'etereo tratto di Haruhiko Mikimoto) e del ritmo frenetico di questi 6 OVA, Diebuster è in più riprese indigesto, confusionario, spesso senza né capo né coda, e non riesce a coinvolgere praticamente mai nelle atmosfere tragiche che cerca di evocare. Il colpo di grazia è dato dall'assoluta mancanza di ispirazione delle scene umoristiche che compongono, similarmente a GunBuster, metà della serie: Nono è presentata in modo troppo cretino e le sue virtù comiche risiedono, secondo Tsurumaki, nelle faccine kawaii ostentate in ogni sequenza . Se ne è certo lui... Degni di menzione, in questi 6 lunghissimi episodi di noia, solo il già citato, impressionante aspetto tecnico; la figura desolante e simbolica dei Top Less (metafora delle Idol giapponesi, la cui carriera, come loro, è legata a quanto riescono a stare sulla breccia dell'onda), seppure mal analizzata; e lo stupendo epilogo finale, dalla durata di un minuto scarso, che allaccia perfettamente Diebuster col suo precursore rivelando chi è questa fantomatica Nonoriri a cui Nono fa sempre riferimento. Finale, questo, talmente ben fatto da aver convinto molti a promuovere la serie come riuscita.


Così tanta noia e pressapochismo non possono però essere così facilmente liquidati: se Diebuster è la rappresentazione delle tendenze e degli interessi delle generazioni di animefan odierne, allora è proprio vero che quella attuale sa badare solo all'apparenza. Visione che personalmente ritengo pesante e deleteria, pessima appendice a un GunBuster pregevole ma che ha esaurito tutto quello che aveva da dire già nell'89.

Voto: 4,5 su 10

PREQUEL
Punta al Top! GunBuster (1988-1989; ova)

SEQUEL 
Gunbuster VS Diebuster Aim For The Top! The GATTAI!!! Movie (2007; film)

lunedì 20 settembre 2010

Recensione: Punta al top! GunBuster

PUNTA AL TOP! GUNBUSTER
Titolo originale: Top Wo Nerae!
Regia: Hideaki Anno
Soggetto & sceneggiatura: Toshio Okada
Character Design: Haruhiko Mikimoto (originale), Toshiyuki Kubooka
Mechanical Design: Kazutaka Miyatake, Kouichi Ohata
Musiche: Kouhei Tanaka
Studio: GAINAX
Formato: serie OVA di 6 episodi (durata ep. 30 min. circa)
Anni di uscita: 1988 - 1989
Disponibilità: edizione italiana in dvd a cura di Dynit

 
Anno 2023: Noriko Takaya, figlia di un defunto ammiraglio della flotta spaziale terrestre, si iscrive alla scuola di pilotesse di Okinawa per poter pilotare gli RX-7, armi da guerra antropomorfe, con il fine ultimo di entrare a far parte dell'esercito in lotta contro una spaventosa invasione extraterrestre. Il suo insegnante, Koichiro Ota, scopre in lei e nella studentessa Kazumi Amano dei talenti incredibili: decide che saranno loro a pilotare in futuro il gigantesco robot GunBuster, arma segreta per sconfiggere gli alieni...

Titolo dall'importanza storica fondamentale GunBuster, miniserie OVA che nel 1988 diventa rappresentante imprescindibile della filosofia dello studio GAINAX. Il secondo lavoro di quello che diventa, in futuro, uno degli studios più importanti e acclamati del mondo, ma il primo veramente rappresentativo delle innovazioni e della poetica che sono fondate e poi portate avanti da Hideaki Anno e soci. Il titolo originale, già un programma (richiamo all'anime Aim for the Ace!, in Italia Jenny la tennista), ben ne sintetizza il contenuto: GunBuster è, a tutti gli effetti, figlio della rivoluzione culturale di Macross, sapiente opera di rielaborazione, da parte della "seconda generazione di registi" cresciuta con gli anime e non più con il cinema, di tutti gli stilemi e le tendenze viste e assimilate in oltre vent'anni di animazione, al servizio di una storia colma di citazioni e fanservice di ogni tipo per deliziare il palato agli appassionati. Ecco dunque un'inedita rilettura mecha, nel primo episodio, di Aim for the Ace!, per poi ritrovare echi di Gundam (il look del coach Ota, palesemente debitrice a Char Aznable), Getter Robot (il robottone componibile), Ideon (l'eyecatch, gli attacchi del Gunbuster), etc.

Facile lasciarsi ingannare dalla banale premessa del gruppo di eroine che affronta un'invasione di mostri spaziali, non degnando l'opera del giusto interesse: il focus della storia non è questo e, anzi, i perchè e per come del conflitto sono volutamente trascurati. GunBuster è essenzialmente la storia delle protagoniste Noriko e Kazumi alle prese con la loro vita privata, spesso in conflitto con le missioni militari che le vedono impegnate. Questo perché l'intero background fantascientifico ruota attorno alla teoria della relatività di Einstein, secondo cui il tempo scorre in modo completamente diverso per chi si muove a velocità prossime a quella della luce. In altri termini: più volte le due compiono balzi nell'iperspazio durante le ostilità, e la cosa ha così ripercussioni nelle leggi temporali della Terra e dei suoi abitanti, che invecchiano più o meno velocemente a seconda di quanto le due stanno lontano da casa. Le conseguenze per ciò che concerne i loro rapporti interpersonali sono immaginabili. Idea fonte di inesauribili sviluppi e la cui influenza dopo GunBuster è purtroppo relativa, ma che comunque è sfruttata benissimo per creare numerose situazioni intriganti e un finale intenso che ha ormai fatto la Storia dell'animazione. È, insieme alla realistica fisica di ballonzonamento dei seni delle ragazze (idea che poi, utilizzata dallo stesso studio altrove, conia il vocabolo "GAINAX bounce"), il vero elemento di rilievo di una storia che, pur geniale, non è sviluppata a dovere.


GunBuster fallisce, infatti, totalmente nel far immedesimare lo spettatore con la sua eroina. Noriko è troppo irritante, un'insopportabile piagnona che rende impossibile empatizzare con lei prendendo sul serio le sue disgrazie e i fatti drammatici che la vedono coinvolta. Anche il resto del cast rimane sul generico, e infine, anche se rielaborati, gli stereotipi che GunBuster omaggia rimangono tali a prescindere dalla citazione, portando quindi a una visione abbastanza sobria e mai troppo coinvolta, se si escludono quei due episodi in cui appare e combatte, in tutta la sua magnificenza, il gigantesco robottone che dà nome all'opera. Sopperiscono alla freddezza narrativa le splendide animazioni, sinuose e di grande realismo come solo negli anni 80 si potevano fare, e sopratutto l'acclamatissimo chara design di un Haruhiko Mikimoto al top della sua arte, con disegni che sembrano nuovamente acquerelli che prendono vita, caldi e sensuali. Elementi che garantiscono almeno una visione di grande suggestione visiva e che, insieme all'episodio conclusivo, magistrale, retto su un suggestivo b/n e diverse soluzioni registiche geniali, dispensano un climax clamoroso parzialmente capace di non far rimpiangere troppo la prima parte dell'opera. Difetti o meno, Punta al Top! è, a parere di chi scrive, diventato un cult più per originalità che reali meriti narrativi. Però, anche guardata oggi la prima opera cult di Hideaki Anno intrattiene con dovizia, e, pur non eccellendo, rappresenta una prova d'autore di tutto rispetto che, breve e importante com'è, rimane caldamente consigliata.


Nota: in Italia, come nel resto del mondo, GunBuster esce ufficialmente solo in sola lingua originale con sottotitoli. Causa di questo, che impedirà per sempre all'opera di venire doppiata, la perdita, da parte di GAINAX, dei master originali contenenti la traccia audio dei dialoghi.

Voto: 7 su 10

SIDE-STORY
Punta al Top 2! Diebuster (2004-2006; ova)

SEQUEL
GunBuster VS Diebuster Aim For The Top! The GATTAI!!! Movie (2007; film)

venerdì 17 settembre 2010

Recensione: Eiyuu Gaiden Mozaika

EIYUU GAIDEN MOZAIKA
Titolo originale: Eiyuu Gaiden Mozaika
Regia: Ryousuke Takahashi
Soggetto: Ryousuke Takahashi, Norio Shioyama (basato sul loro romanzo originale)
Sceneggiatura: Ryoe Tsukimura
Character Design: Norio Shioyama
Musiche: Kaoru Wada
Studio: Studio DEEN
Formato: serie OVA di 4 episodi (durata ep. 29 min. circa)
Anno di uscita: 1991


Nel magico mondo di Mozaika sono calate le tenebre da quando il saggio sovrano Sazara è stato plagiato dal sacerdote Karumaharu, divenendo spietato tiranno. Il valoroso guerriero U-Dante, fedele al suo sovrano anche in questo momento, tenta di farlo tornare in sé, ma per questo sarà condannato a morte. Dieci anni dopo suo figlio, U-Taruma, divenuto anch'esso un prode guerriero, decide di vendicarlo...

È cosa risaputo, in animazione il fantasy raramente brilla. Escluse saghe come quelle di Slayers, Lodoss Wars e Rayearth, comunque derivative da light novel, manga o videogiochi, sono ben pochi gli esponenti nati su celluloide capaci di convincere. Per questo non si può che partire con aspettative bassissime nei riguardi di Mozaika, sconosciuta miniserie OVA del 1991 a cura dell'accoppiata Takahashi/Shioyama, celebri per la grande saga sci-fi di Votoms ma anche dietro il semplicistico Galient. Ed è una volta tanto un errore felice, perché Mozaika, tratto dal romanzo omonimo da loro stessi scritto e illustrato, pur con uno spunto di partenza debole si rivela opera di quelle pregevoli, di quelle che non ci si aspetterebbe mai.

L'impatto iniziale è tra i peggiori, colpa di un incipit che definire abusato è dir poco: il solito eroe invincibile che si carica sulle spalle il destino di vendicare l'eroico genitore sconfiggendo il perfido mago/sacerdote dietro la degenerazione del sovrano. L'episodio iniziale fa presagire orrori nella consueta lentezza registica di Takahashi, nella banalità del soggetto, nell'inquietante, corposo numero di personaggi rapportato alla durata delle sole quattro puntate che compongono la serie. Forte è la tentazione di abbandonare subito la visione, ma se si riesce a sopportare un primo episodio particolarmente insignificante notevoli saranno le sorprese dietro i successivi. Sufficientemente diretto e animato e illustrato dal bellissimo, tipico tratto di Norio Shioyama, Mozaika è passatempo abbastanza ordinario per 3/4 di durata, salvo esplodere in un finale inimmaginabile. Non vi è dubbio che l'intreccio si giostri tra svariati clichè (tra principesse rapite, cavalieri oscuri, divinità gigantesche con cui allearsi, alleati dal passato tragico e ogni genere di stereotipo, proprio lo Sword and Sorcery medio) scorrendo via senza troppe pretese, e si avverte, oltretutto, la sensibile velocità con cui viene spalmato per stare tutto in sole quattro parti. Però, a dispetto però delle ambizioni troppo alte (davvero esagerato il numero di componenti del cast), il piacere con cui si guarda Mozaika non viene mai meno: il suo merito è di non essere mai troppo prevedibile negli sviluppi narrativi.

La  vicenda portante rimane banale, ma convince il modo in cui sono tratteggiati i vari personaggi: poco più che abozzati ma ben integrati nella trama, coi giusti tempi, personalità scolpite da dialoghi essenziali ma ben dosati, che trasmettono loro quel carisma necessario a soffrire per una loro eventuale dipartita. A fronte di un soggetto vetusto Mozaika può così bearsi di un ottimo lavoro di sceneggiatura, che intreccia con calma, nei suoi primi tre atti, numerose sottotrame facendo muoverere svariati gruppi di personaggi, salvo farle confluire tutte nel finale in un'epica, sanguinaria battaglia degna dei migliori bloodbath di Yoshiyumi Tomino, una carneficina cupa e splatterosa dove morti ed emoglobinina scorrono a fiumi facendo trionfare una drammaticità teatrale che lascia il segno, raggiungendo vette di una certa epicità. Così turbato da una simile violenza, o meravigliato dalla capacità di trasmettere emozioni così forti in circa due ore totali di durata, lo spettatore è così esaltato da dimenticare la velocità esagerata con cui si accavallano avvenimenti su avvenimenti portando a tale mattanza.


Non c'è dubbio che il quarto episodio, pur nella sua tragicità, rappresenti un'occasione parzialmente sprecata: il ritmo è fin troppo frenetico e il finale rimane lasciato in sospeso, ma, visto come Takahashi riesce a far quadrare quasi tutti i conti, dando una conclusione a 3/4 della storia e suggerendo l'idea di aver utilizzato adeguatamente un cast di oltre dieci personaggi in così pochi spazio, la sensazione finale è di vedere in Mozaika un'opera sì incompleta, ma a suo modo geniale. Risultando facile far pensare che, con un episodio in più per chiudere tutto, si parlerebbe addirittura di un signor lavoro.

Viste le premesse di partenza Mozaika si rivela, in definitiva, un fantasy degno di visione, di ottimo livello se non fosse tronco. Peccato sia così poco sconosciuto e trascurato dal mondo, perché questi quattro episodi dall'aspetto grafico così vintage nascondono ben più di un'emozione, dimostrando come in questo campo Ryousuke Takahashi ha, nonostante l'anonimità di Galient, ben più di un'idea degna di essere raccontata nel genere. Proprio per questo è un peccato che la sua esperienza con esso termini qui. Da recuperare.

Voto: 7 su 10

mercoledì 15 settembre 2010

Recensione: GUNxSWORD

GUNxSWORD
Titolo originale: GUNxSWORD
Regia: Goro Taniguchi
Soggetto e sceneggiatura: Hideyuki Kurata
Character Design: Takahiro Kimura
Mechanical Design: Seiji Tanda
Musiche: Kotaro Nakagawa
Studio: AIC
Formato: serie televisiva di 26 episodi (durata ep. 24 min. circa)
Anno di trasmissione: 2005


Il pianeta Endless Illusion, far west tecnologico e ritrovo di vagabondi e gentaglia da tutto l'universo, ospita i pellegrinaggi di Van, misterioso spadaccino in smoking. Capace di evocare il potente Dann, armor da combattimento, il malinconico individuo cerca L'Uomo con l'artiglio, il bastardo che gli ha ucciso la moglie il giorno delle nozze. Nel suo cammino stringe alleanza con numerosi altri combattenti e possessori di armor, tutti accumunati da risentimento personale verso l'assassino...

Ben più che in s-CRY-ed o nel successivo Code Geass, è in GUNxSWORD che splende il più ispirato Goro Taniguchi dell'animazione action, a dirigere la summa della sua folle visione del genere. Dietro il curioso titolo, profetico di ambientazioni western e contaminazioni orientali, una delle più coinvolgenti storie di vendetta mai create in animazione. Un carisma, quello di GUNxSWORD, già ravvisabile dalla opening omonima: musicalmente un evocativo brano morriconeggiante, visivamente un curioso insieme di silhouette nere che rappresentano i personaggi del cast. Si "riempiranno" solo nel momento della loro prima apparizione nella storia, per poi eventualmente oscurarsi di nuovo nel caso della loro morte. Come intuibile, non un solo episodio avrà tutte le sagome scure o "svelate". Un elemento di genio che è solo la punta dell'iceberg della personalità con cui il regista dirige GUNxSWORD, realizzando un capolavoro action per molti versi ancora ineguagliato. La storia non è nulla di trascendentale e certi stereotipi, a livello di caratterizzazioni di personaggi o robottoni, sono palesi(facilmente riscontrabili echi di Trigun nel protagonista e nelle ambientazioni, di Cowboy Bebop nel mood, di Gaogaigar nel design di alcuni robottoni), ma è il modo in cui è diretta e raccontata a essere memorabile.

Come Taniguchi insegna, primi metà di serie di puro scazzo per presentare i personaggi. E così sia. Comici e deliranti al punto da raggiungere e superare le vette del bizzarro, i primi tredici episodi sono un continuo omaggiare alle atmosfere del Super Robot classico, dei sentai e sopratutto della filmografia western classica, da cui derivano i suggestivi brani della soundtrack di Kotaro Nagakawa. Van e Wendy, giovane ragazzina che lo accompagna per ritrovare il fratello perduto, iniziano un viaggio solitario per il mondo di Endless Illusion, alla ricerca di indizi per trovare l'Uomo con l'artiglio. Nelle peregrinazione troveranno negri fissati col culto della Dea Bendata, grassoni che stritolano le vittime con baffi dotati di vita propria (!), invincibili piloti di robottoni ormai in pensione e perennemente sbronzi (con la Victory Theme cantata in messicano!), improbabili ladri, armor ultra-grotteschi e ogni genere di follia e amenità. Tante avventure autoconclusive per presentare con cura l'eroe e quei 2/3 personaggi che si uniscono a lui alla ricerca di questo villain la cui importanza sembra marginalissima. Seppur divertenti e demenziali, queste tredici puntate per più di qualcuno hanno rappresentato un deterrente per smettere o neanche iniziare la visione, creando la leggenda dell'opera come un clone svogliato di Trigun. E qui arriva un grande insegnamento: un anime, come qualsiasi opera seriale, può essere commentato solo dopo averlo visto fino in fondo. Dopo una prima parte scanzonata si cambia registro: inizia la storia principale e così l'epica battaglia di Van e compagni contro l'Uomo con l'artiglio e i suoi pericolosi alleati, gli Original Seven anch'essi possessori di letali armor, ognuno con incredibili capacità combattive.


Se da un lato il plot abbastanza ordinario, il chara design puramente funzionale e la personalità scarsa di alcuni comprimari sono ben percepibili, è la superba caratterizzazione degli Original Seven nemici a meritare una parentesi: non i soliti tirapiedi che esauriscono tutto quel che hanno da dire nello spazio di due puntate, ma pazzoidi irresistibili o idealisti dal triste passato, che combattono cercando un futuro migliore per il pianeta. Personaggi memorabili capaci di commuovere nei loro discorsi o nel loro ruolo di antieroi destinati a cadere sotto le spadate di Dan. Stesso grande carisma lo riveste il folle villain, quel vecchio bonaccione di un Uomo con l'artiglio che con un incredibile piano vuole creare un mondo di pace e felicità e non ha alcuno scrupolo a realizzarlo, accarezzando amorevolmente un cerbiatto e magari pochi minuti dopo facendo a pezzi degli uomini che intendono tradirlo. Da brividi. Una storia di vendetta, basica basica, che per merito di caratterizzazioni fortissime e stravaganti diventa subito coinvolgente appena ha modo di delinarsi. A condurla con maestria ci pensa la visione cinematografica di un Goro Taniguchi scatenato, che si permette, grazie al budget AIC, una regia magistrale, virtuosa sia in adrenaliniche, distruttive sequenze action che in raffinati inserti drammatici, al punto da raggiungere spesso le vette del lirismo (un'inquadratura su tutte: quella che chiude l'episodio 19). Tutto ben coadiuvato dalla solita, azzeccatissima scelta per insert song dolci o struggenti. Sopratutto, già visto in PlanetEs, è tratto del regista il continuo, originale distriscarsi tra atmosfere epiche e demenziali.

Causa di orrore per alcuni, di genio per altri, è la sua volontà di frammentare continuamente episodi cupi con altri addirittura goliardici (da stracult la puntata della gara dei costumi da bagno), per una miscela assurda che, per chi scrive, non stona affatto, rendendo più imprevedibile e originale il dipanarsi di un intreccio altrimenti ordinario. In questo caso è apprezzabile quel senso dell'humor che non viene mai meno, così come la figura, ormai leggendaria per gli animefan, di Fasalina, la bella e svestitissima Original Seven che combatte col suo armor ballando al suo interno la lap dance.


Folle, avvincente ed epico come non mai, con una cura tecnica e registica mostruosa e un climax straordinario come ci si attende, GUNxSWORD è un'opera criminalmente sottovalutata che, a tutti gli effetti, merita di entrare nell'empireo delle opere di culto di genere robotico. Forse i suoi tredici episodi iniziali scoraggeranno più di qualcuno a tentare la visione, ma sarebbe un errore: superato lo scoglio ci si trova tra le mani un gioiello che vale ogni minuto della visione. La speranza è che, insieme a Infinite Ryvius, arrivi presto in Italia anche l'ultimo dei capolavori inediti del regista.

Voto: 9 su 10

lunedì 13 settembre 2010

Recensione: PlanetEs

PLANETES
Titolo originale: ΠΛΑΝΗΤΕΣ
Regia: Goro Taniguchi
Soggetto: (basato sul fumetto originale di Makoto Yumikura)
Sceneggiatura: Ichirou Ohkouchi
Character Design: Yuriko Chiba
Mechanical Design: Seiichi Nakatani, Takeshi Takakura
Musiche: Kotaro Nakagawa
Studio: Sunrise
Formato: serie televisiva di 26 episodi (durata ep. 24 min. circa)
Anni di trasmissione: 2003 - 2004
Disponibilità: edizione italiana in dvd a cura di Beez



Impossibile recensire il primo vero capolavoro d Goro Taniguchi senza dare ampia descrizione al manga, altrettanto memorabile, su cui è basato. PlanetEs è in primis il fumetto di debutto di Makoto Yumikura, oggi sulla cresta dell'onda con il bel shonen/seinen storico Vinland Saga, ma che già nel 2001 trova consacrazione con l'opera della carriera. Siamo in un vicino futuro, il 2075, dove i viaggi nello spazio sono ormai routine per l'umanità. Il fumetto segue da vicino le imprese di un gruppo di astronauti il cui lavoro è raccogliere detriti spaziali, fonte di pericolo per le navigazioni spaziali: Yuri, dopo aver perso la moglie in un incidente a bordo di uno shuttle, lavora da anni per ritrovare un suo ricordo disperso nel gelido vuoto; Fee è una grintosa madre che si domanda perché continuare a raccogliere cianfrusaglie sapendo che fioriranno sempre per colpa dell'uomo; Hachimaki, il protagonista, cinico, disilluso e materialista, è un ragazzo che si dà forza mettendo da parte i risparmi per comprare un'astronave tutta per navigare da solo. La sua incrollabile visione di vita trova opposizione quando incontra Ai Tanabe, giovane sognatrice, che legandosi a lui inizia a farlo maturare fino a fargli capire che non può esistere una vita priva del benché minimo amore. Da quest'incipit scarno e realistico prende via una delle più belle riflessioni cartacee a memoria d'uomo sulla vita: PlanetEs è una storia sull'ambizione, sulle paure, sulla crescita. Conoscendo Hachimaki, Fee, Yuri e Ai ci si affeziona a personaggi veri, umani, che come il lettore hanno paure, aspirazioni, debolezze, e maturano sempre più a contatto con la realtà che li circonda. Un'opera corale che, sfruttando la cornice fantascientifica e la storia di Hachi come pretesto, fornisce numerosi spunti di riflessione sui problemi dell'umanità, discorrendo di religione, guerra, terrorismo, divario tra Paesi del primo e del terzo mondo con nonchalance, equilibrio e piglio accattivante, senza troppa retorica, abbondando in poesia e intimismo (esemplari le riflessioni interiori dell'eroe o i suoi dialoghi con l'Es freudiano, da qui il nome dell'opera).

Un tale monumento narrativo e filosofico che pensare di trasporlo così com'è, in animazione, sarebbe solo incivile. Sunrise affida quindi a Goro Taniguchi e Ichirou Ohkouchi, nel 2003, regia e sceneggiatura della versione animata, con il manga ancora in corso, e il regista di Infinite Ryvius risponde con un capolavoro nel vero senso della parola, non mera carta carbone ma opera a sè stante. Con la personale rilettura del manga, Taniguchi dirige il suo miglior lavoro, con la quale ogni nuova serie d'animazione dalle tematiche affini dovrà fare i conti. Stessa base di partenza e medesimi personaggi, ma concettualmente due storie profondamente diverse.

La prima differenza che salta all'occhio è che nel manga protagonista assoluta è la squadra di astronauti formata da Yuri, Fee, Hachimaki, mentre ora trovano spazio in essa anche lo stravagante indiano Arvind "Robbie" Ravi, il prigro e nullafacente Philippe Myers e l'introversa impiegata Edelgard. Ai Tanabe entra nella sezione fin dal primo episodio e sono oltretutto aggiunti, ai fini della trama, nuovi personaggi legati ad Hachimaki: la sua ex Claire Rondo, ambiziosa impiegata nella sezione controllo della seconda divisione Technora (l'azienda per la quale lavorano i nostri eroi); Kho Cheng-Shin, suo miglior amico, e Gigalt Gangaragash, vecchio istruttore per il quale il ragazzo prova venerazione e rispetto. Il secondo punto di rottura è la struttura narrativa: se l'impalcatura del manga si basa su singoli episodi slegati che solo a storia inoltrata trovavano un filo conduttore, in animazione cambia il loro ordine cronologico (e al contempo si inverte in essi il ruolo di personaggi e situazioni) e sopratutto, fin dall'inizio, viene fornita una trama portante che lega il tutto con solida continuity, focalizzata ad approfondire molto più del capostipite il background politico. Due sguardi diversi allo stesso universo. Vero punto di convergenza è l'oggetto posto in essere dalla storia, la crescita interiore di Hachimaki (dapprima spigoloso e sprezzante, poi, innamoratosi di Ai, capisce che "non si può andare per un lungo viaggio senza un porto dove tornare"). Nell'originale a farlo cambiare è la contrapposizione tra il suo cinismo e l'idealismo romantico della ragazza, in animazione sono le sue dure esperienze con la morte e il terrorismo a fargli ricercare, come un bambino, l'ala protettiva e amorevole di lei.

Differenze a parte, PlanetEs vive anche senza essere paragonato al fumetto: la sua storia, drammatica e commovente, vive di mirabili suggestioni. Come in quasi tutte le sue opere, Taniguchi sfrutta al massimo il budget Sunrise per imprimere alla produzione il suo tocco autoriale, unico in tutta l'animazione nipponica, attraverso insert song dolcissime (Secret of the Moon), ricercate soluzioni registiche di stampo cinematografico (da brividi il primo bacio tra Hachimaki e Tanabe) e modificando a ogni episodio, come da tradizione, le immagini della splendida opening. Quest'ultima forma, con la ending, un bellissimo emblema dalla doppia faccia del protagonista Hachi: la sigla d'apertura, che rievoca per immagini il cammino dell'uomo verso lo spazio, simboleggia le ambizioni di cui lui stesso vorrebbe essere protagonista; la seconda, amarcordiana, si focalizza sui ricordi di un'infanzia ingenua e sognante. Da notare anche come in PlanetEs il regista inaugura, facendolo poi ritrovare nelle opere successive,  il bizzarro hobby di mescolare, spesso con assoluta continuità, serio a faceto, episodi demenziali e puntate drammatiche: uno stranulato stile di racconto che comunque non impedisce alla storia di andare a parare dove deve, con climax o finali così intensi da riscattare il teatrale ridicolo precedente.


L'amore degli autori nel rappresentare la ricerca e la fatica nel realizzare i propri sogni trasuda da ogni singolo fotogramma: dall'inizio alla fine la straordinaria opera di caratterizzazione di tutti i personaggi (aiutati in quest'occasione da un character design più adulto e realistico del tondeggiante tratto dell'autore originale) porta a un'immedesimazione tale che li si sente vicinissimi a sè, e se a questo si aggiunge l'ottimale qualità di quasi tutti i 26 episodi capiremo perché PlanetEs è forse una delle migliori serie d'animazione del nuovo secolo. Sì, perché oltre a ritrovare la stessa eleganza e freschezza di Yumikura, da Taniguchi ereditiamo una storia di personaggi e contenuti ancora più profonda, capace di toccare più volte le corde dell'animo. Null'altro da aggiungere, se non grazie Makoto Yumikura, grazie Ichirou Ohkouchi, grazie Goro Taniguchi. E grazie anche alla coraggiosa Beez, per la scelta di portare in Italia un simile capolavoro con una cura esemplare, sfidando l'ignorante mercato italiano. Una scelta rischiosa che verrà pessimamente ripagata, visto che anche con doppiaggio e adattamento splendidi PlanetEs non venderà nulla, portando addirittura la casa di distribuzione a ritirarsi dal mercato italiano. Una vergogna, quella italiana, indicibile e incancellabile.

Voto: 10 su 10

venerdì 10 settembre 2010

Recensione: s-CRY-ed

S-CRY-ED
Titolo originale: s-CRY-ed
Regia: Goro Taniguchi
Soggetto: Hajime Yatate
Sceneggiatura: Yousuke Kuroda
Character Design: Hisashi Hirai
Musiche: Kotaro Nakagawa
Studio: Sunrise
Formato: serie televisiva di 26 episodi (durata ep. 23 min. circa)
Anno di trasmissione: 2001


Dopo un gigantesco fenomeno naturale, Il Grande Sollevamento, nella prefettura di Kanagawa iniziano a nascere gli Alter, individui dotati di incredibili super-poteri. Interessata a studiare questi mutanti, la misteriosa organizzazione Hold ottiene il permesso dal governo di creare nella zona una gigantesca città/fortezza, Lost Ground, utilizzando alcuni Alter per formare un esercito privato che mantenga l'ordine, la Holy. Kazuma è un giovane e potente Alter che vive fuori da Lost Ground e che si procura da vivere per sé e la giovanissima Kanami svolgendo lavoretti illegali per il suo amico Kimishima. La sua vita cambierà quando verrà sconfitto e catturato da uno dei più forti guerrieri di Holy, Ryuho...

Combattimenti, combattimenti e ancora combattimenti: strano accettare dopo Infinite Ryvius una storia di tutt'altro genere, passando dal dramma psicologico allo shonen action più puro, ma è così che va il mondo e nel 2001 Goro Taniguchi ha modo di dimostrare la sua abilità anche in questo campo, gettando le basi per un' "animegrafia" che, nella sua interezza, contemplerà in egual misura, quasi a suggerire due facce della stessa medaglia, sia storie di una certa profondità psicologica che quelle di semplicissimi, quasi primitivi combattimenti, pur non rinunciando a un'autorialità unica che farà splendere entrambi. Al suo secondo lavoro ritrova lo sceneggiatore Yousuke Kurada e il chara designer Hisashi Hirai, provenienti come lui da Ryvius, creando una bizzarra commistione tra gli X-Men e Jojo, s-CRY-ed, dietro il cui enigmatico titolo (il cui senso è rivelato solo nel manga uscito successivamente) si cela una produzione di un certo carisma per gli amanti delle scazzottate.

Se è inevitabile un intreccio di linearità estrema, vista la natura disimpegnata dell'opera, e la mancanza di caratterizzazioni clamorose (tolti i due protagonisti, i comprimari sono spacconi che vivono per la semplice lotta e le ragazze dei soprammobili innamorati del bel tenebroso di turno che giustamente non le calcola di striscio), non si può negare il mestiere dietro alla sua messa in scena. S-CRY-ed esprime gli irriducibili tratti del genere - mille schermaglie coi tirapiedi del cattivo, boss di fine livello, qualche morto per aumentare il tasso di dramma, power-up vari, sacrifici, immolazioni e cambi di fazione, senza dimenticare i soliti, perfidi complotti governativi dietro cui sta il classico villain monocaratterizzato e dalle manie da grandezza - ma è ben diretto, con personaggi  principali azzeccati e una fervida fantasia nell'inventare i super poteri che i vari Alter usano contro Kazuma e Ryuho, tra velocità sovraumane, particelle che si trasformano in armi mastodontiche, uso degli elementali, entità che si materializzano dal nulla come gli Stand di Jojo etc. Si vede che il regista conosce le regole del genere e sa bene come sfruttarle, dirigendo una storia superficiale quanto si vuole ma perfetta da guardare a cervello spento, la vera dimensione dove si esprime la dignità di s-CRY-ed.


Certo, alla fine l'opera non è certo nella lista delle priorità tra i lavori di Goro Taniguchi da recuperare: è diretta con brio, avvincente al punto che si divorano facilmente episodi su episodi, ma incapace di risvegliare particolari emozioni nei momenti drammatici, senza contare gli attori che non evolvono mai. Cause, queste, da imputare a una sceneggiatura abbastanza banale, ma anche al comparto action esagerato, basato su un numero fin troppo elevato di combattimenti ininfluenti, talvolta non coreografati in modo impeccabile (a scontri adrenalinici e dalla possente fisicità ne seguono altri poco ispirati o animati svogliatamente). Neanche le musiche e i disegni riescono a dire qualcosa: anonima la soundtrack, mentre il tratto grafico di Hirai, colorato ed essenziale, perfetto in serie drammatiche (o in futuro robotiche, come Gundam SEED, Fafner etc) nel contribuire a un effetto shock, in una storia "ignorante" di mazzate è sprecato, fuori contesto. Ma pur a fronte di tutti questi problemi, spunti interessanti non mancano: i primi tredici episodi di introduzione si rivelano intriganti grazie al carisma dell'immaturo Kazuma e ai bizzarri combattimenti che lo riguardano. Il ragazzo è irresistibile nella sua totale mancanza di intelligenza, un primitivo che conosce solo il linguaggio dei pugni per vivere e rinuncia a qualsiasi buon senso pur di prendersi la sua rivincita verso l'unico uomo che lo abbia mai sconfitto, il gelido Ryuho. Le puntate si guardano con piacere, e il drammatico colpo di scena che chiude il primo atto è sentito. Poi però la storia si adagia su binari di discreta banalità, l'assenza di twist veramente spiazzanti si fa sentire, e un po' tutti i personaggi della vicenda seguono un destino ampiamente pronosticabile. L'impressione iniziale positiva iniziare a scemare gradualmente e s-CRY-ed diventa niente di più che una semplice, per quanto apprezzabilissima, serie d'azione.

Molto più interessanti le graffiate d'autore: Goro Taniguchi esprime nuovamente la sua inventiva rimaneggiando le immagini della sigla d'apertura (usata casualmente in tre varianti diverse, ognuna dedicata a un determinato personaggio), stravolgendo i clichè di carattere sentimentale (chi tra Scheris e Mimori farà suo Ryuho?); facendo iniziare nuovamente la storia portante, come un orologio, esattamente a metà serie, e concludendo l'intera vicenda in soli 24 episodi. Gli ultimi due, spiazzanti, mostrano una interminabile scazzottata finale, senza reale senso, che si presta a stimolanti chiavi di lettura: un burrascoso commiato dall'età giovanile? Un simbolico rifiuto di adeguarsi alle regole della società? Inno alla vitalità giovanile o alla virilità di due uomini che lottano per onorare il valore dell'altro? Autorialissima, memorabile presa in giro?


S-CRY-ed è tutto questo e anche di più, uno shonen-anime a suo modo banale, ma non privo di svariate intuizioni capaci di galvanizzare gli appassionati di un genere che dai tempi di Dragon Ball ha saputo reinventarsi poco. Rimarrà alla memoria per le carismatiche figure dei suoi due eroi, la testa calda Kazuma e il calcolatore Ryuho, innovando il genere con la trovata dei fenomeni naturali/alieni/divini (scegliete voi) che cadono su una zona del Giappone portando i nascituri nelle vicinanze ad ereditare incredibili poteri, come ci attestano Sacred Seven, sempre Sunrise, e il Guilty Crown di casa Production I.G. Prove evidenti del successo in madrepatria di s-CRY-ed, rievocato addirittura dieci anni dopo con due OVA riassuntivi e celebrativi nuovamente diretti da Goro Taniguchi.  Sicuramente un titolo minore del regista, ma rimane una serie action con una identità precisa. Non sviluppata benissimo tenendo conto delle sue potenzialità, ma ha i suoi momenti che valgono la visione, magari come preparazione al successivo, fantastico GUNxSWORD dove Tanigichi realizza per davvero un capolavoro dell'animazione 100% disimpegnata.

Voto: 7 su 10

ALTERNATE RETELLING
s-CRY-ed Alteration (2011-2012; serie OVA)

mercoledì 8 settembre 2010

Recensione: Infinite Ryvius

INFINITE RYVIUS
Titolo originale: Mugen no Ryvius
Regia: Goro Taniguchi
Soggetto: Hajime Yatate
Sceneggiatura: Yousuke Kuroda, Yuichiro Takeda
Character Design: Hisashi Hirai
Mechanical Design: Kimitoshi Yamane
Musiche: Katsuhisa Hattori, M.I.D.
Studio: Sunrise
Formato: serie televisiva di 26 episodi (durata ep. 24 min. circa)
Anni di trasmissione: 1999 - 2000


Anno 2225: l'accademia di volo Liebe Delta, orbitante vicino alla Terra, è funestata da un terribile sabotaggio che la porta a scomparire nel Geduld, il mare di gas che copre buona parte del sistema solare e che rende quasi impossibile la navigazione. Per impedire la sua esplosione gli adulti sacrificano tutti la vita, portando così gli oltre 400 ragazzini cadetti a ritrovarsi da soli ai comandi del Ryvius, la misteriosa nave spaziale contenuta al suo interno. Sperduti nello spazio e attaccati dal loro stesso governo perché creduti terroristi, i ragazzi tentano di instaurare nella nave una sorta di autogoverno meritocratico per portare ordine e garantire la sopravvivenza di tutti. Presto però i lati oscuri dell'animo umano vengono alla luce, insieme alla misteriosa presenza aliena che dimora nella nave...

Infinite Ryvius è l'opera di debutto, in ambito di regia titolare in serie televisiva, di Goro Taniguchi, giovane regista Sunrise, all'epoca 33enne, che proprio con questo primo lavoro, cupo e originale, si guadagna istantaneamente la nomea di promettente talento dello studio, dopo la vice-regia in Gasaraki e il primo film celebrativo di One Piece (Defeat the Pirate Ganzak!). Assurto a opera di puro culto per gli amanti della fantascienza realistica e sicuramente ispirato, dal punto di vista delle tematiche, al romanzo maledetto Il signore delle mosche di William Golding, Infinite Ryvius è un tetro viaggio nelle pulsioni dell'animo umano. Tutto è vissuto dagli occhi del sedicenne Kouji, felice di essere stato ammesso alla stazione orbitante del Liebe Delta. Dopo la catastrofe il ragazzo diventa una delle massime cariche nel governo sorto nel Ryvius, potendo così osservare, dalla sua posizione privilegiata, come gradualmente iniziano a crearsi conflitti tra le centinaia di ragazzi, dovuti all'impossibilità di tutti di adeguarsi al sistema sociale imposto. Abbiamo quindi Aoi, la classica amica d'infanzia innamorata; Faina, misteriosa ragazza da lui salvata e dal passato oscuro; Ikumi, il migliore amico dal temperamento caldo e facilmente portato all'estremismo; Yuki, il fratello minore che lo odia; la gang di Blue, turbolento teppista che mira a prendere il potere nella nave con un "colpo di stato"; tutta la crew degli Zwei (i piloti che comandando il Ryvius)... Un cast semplicemente enorme: oltre 30 personaggi ottimamente caratterizzati si contendono il protagonismo in una storia drammatica di amore, amicizia, odio, orrore e violenza, con un altissimo numero di sottotrame scandite da una suspense esemplare.

Per essere un'opera drammatica Infinite Ryvius ha una partenza insolitamente solare, con atmosfere scanzonate ritmate dalla OST hip-hoppara e un accattivante, colorato e super-semplicistico tratto nei disegni di Hisashi Hirai. Tutte impressioni: ironicamente sono proprio questi tratti "infantili" a decretare il grande elemento di sorpresa della serie, dato da questi ragazzini dai look sgargianti che arrivano a usare violenza o addirittura a uccidere i propri simili per soddisfare i loro istinti. Lo shock dato dal cambiamento repertino di atmosfere rimane alla memoria come l'aspetto più geniale e crudo dell'opera, ma sarebbe ingeneroso ricordare la serie solo per le sue atmosfere torbide, perché in essa gli amanti della filosofia politica e della sociologia trovano numerosi, stimolanti  spunti di riflessione.

 

Lo scenario dei ragazzi lasciati completamente soli ad autogovernarsi, privi di nucleo familiare in una realtà apparentemente senza speranza (idea già sviluppata vent'anni prima dallo sconosciuto Vifam, ma a livello puramente embrionale), è l'occasione per i due sceneggiatori di raccontare la loro forzata maturazione. L'odissea del Ryvius, alla disperata ricerca di un modo di tornare sulla Terra, simboleggia per i suoi abitanti la necessità di diventare adulti il prima possibile previo un veloce abbandono della fanciullezza. Significa per loro imparare a prendere decisioni importanti, anche impopolari, col carico di responabilità che ne deriva; a mettersi a disposizione degli altri per il bene comune della collettività; a trovare una forte risolutezza che sopportare meglio lo stress della situazione. Ovviamente anche i sentimenti sono seriamente provati dalla condizione critica, portando a ripercussioni fisiologiche o istintive come una precoce scoperta del sesso, egoismo, invidia, ma anche fanatismo e superstizione. Il governo sorto sul Ryvius continua a cambiare fisionomia politica per adattarsi alle continue difficoltà di adattamento dei giovani, attraversando più stadi fino a giungere all'autoritarismo. Le buone intenzioni e la lucidità sono presto sopraffatte dall'istinto, le vie democratiche rimpiazzate talvolta dal pugno di ferro, una gentilezza può essere scambiata per favoritismo, etc. Infinite Ryvius è intelligente analisi sociologica e comportementale dell'individuo, il rapporto di un esperimento politico visto nella continua ricerca, da parte dell'elite del "governo" dell'astronave, di saper coniugare i propri obiettivi con la durezza della realtà, durezza che porta al sorgere di vizi, gelosie, rivalità e degenerazioni che rischiano di delegittimare il contratto sociale stipulato col "popolo".

Questo senza dimenticare le ugualmente avvincenti sottotrame "materiali", come l'origine e il ruolo della misteriosa entità che governa il Ryvius, o gli scontri dei giovani, con l'ausilio delle tecnologie dell'astronave e di un seminale mecha da guerra (nulla che faccia rientrare l'opera nel genere robotico), con le navi da guerra dello stesso governo terrestre che vuole eliminarli per non meglio precisate ragioni. Un soggetto molto maturo che, nonostante l'ambientazione fantascientifica, trova estremo realismo nelle iterazioni dei personaggi, nei disegni psicologici, nel background politico. Una storia entusiasmante orchestrata dall'abile mano di un regista che già nel debutto si rivela maestro della suspense, sbizzarrendosi nel provare nuove formule di intrattenimento che diverranno i tratti distintivi del suo stile registico. Ad esempio il rimanneggiamento, quasi a ogni episodio, delle immagini della sigla iniziale. La calma introduzione di luoghi e personaggi nei primi tredici episodi, per poi fare partire una brusca accellerata esattamente a metà serie, traghettando le atmosfere precedentemente sonnolente verso lidi apocalittici. L'esperimento, non più ripetuto nelle serie successive, di trattare alcune sequenze con l'ausilio di illustrazioni statiche, e anche l'abilità a gestire, dando a tutti il giusto spazio per delinearsi, cast di una grandezza impressionante.


Tecnicamente adagiato sui soliti, ottimi standard tecnici Sunrise, coinvolgente e depositario di numerosi stimoli di riflessione, Infinite Ryvius è una grande opera animata che merita la visione da parte di chiunque, un debutto al fulmicotone che proietta meritatamente il suo regista nell'olimpo dei più talentuosi maestri di animazione nipponica. Gli unici difetti recriminabili si riconducono all'insignificante puntata finale (un epilogo che non aggiunge nulla) e alla saltuaria, esagerata complessità a capire tutti i risvolti di trama, complice anche un background fantascientifico minimamente spiegato, che bisogna contestualizzare da soli. Ma sono quisquilie in rapporto allo stimolo intellettuale fornito.

Voto: 8,5 su 10

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