venerdì 26 agosto 2011

Recensione: Pet Shop of Horrors

PET SHOP OF HORRORS
Titolo originale: Pet Shop of Horrors
Regia: Toshio Hirata
Soggetto: (basato sul fumetto originale di Mari Akino)
Sceneggiatura: Yasuhiro Imagawa
Character Design: Wataru Abe
Musiche: Kazuhisa Yamaguchi
Studio: Mad House
Formato: serie OVA di 4 episodi (durata ep. 25 min. circa)
Anno di uscita: 1999
Disponibilità: edizione italiana in DVD a cura di Dynit


Nel cuore di Chinatown l'ambiguo Conte D gestisce uno strano negozio di animali, e molti sono i clienti che lo visitano per acquistare dei rari esemplari. Affabile e gentile, il conte chiarisce però, in ogni occasione, che se l’acquirente dovesse venire meno anche solo a uno dei bizzarri avvertimenti necessari per la cura dell’animale, potrebbero accadere cose alquanto spiacevoli: improvvise pulsioni carnivore, rabbia incontrollabile, sete di sangue e trasformazioni in creature mostruose sono solo alcune delle conseguenze per chi non segue i suoi consigli. E proprio per questo, il detective Orcot lo tiene d’occhio…

Dimenticate le strutture iper-complesse, i flashback e i flashforward, le tonnellate di personaggi stralunati e i grotteschi miscugli di generi: breve assaggio del manga di Matsuri Akino (basato solo su alcuni capitoli di un’opera lunga dieci volumi), Pet Shop of Horrors (1999) è indubbiamente un Yasuhiro Imagawa assai minore, svogliato e superficiale, quasi irriconoscibile. Se già gli spunti iniziali, piatti, scontati, largamente, e anche sfacciatamente, debitori di Gremlins (1984), privano sin da subito questa breve serie OVA di golose aspettative, poco o nulla della sceneggiatura dell'artista aggiunge a una storia smorzata, innocua, noiosa, priva di efficacia. Quattro episodi autoconclusivi, quattro scontate storielle in cui qualcuno acquista un animale e, infranti gli avvertimenti del Conte D, muore: insomma, quattro spente sequenze di banalità e incongruenze, trascurate da palese pigrizia e da una generale frivolezza nella concatenazione degli eventi e nella caratterizzazione dei personaggi.

Il registro drammatico dell’opera, permeato da atmosfere noir, peccaminose, oscuramente romantiche, viene infatti continuamente infranto da illogicità piuttosto ingombranti che infastidiscono per la scialacquata mancanza di attenzione. Non appare per esempio mai credibile il ruolo del detective Orcot, e anzi, spesso risulta comportamentalmente disastroso, nel suo assurdo rapporto con Conte D (sono nemici eppure scherzano insieme senza alcuna motivazione concreta), aspetto che presenta catastrofiche ricadute nella costruzione delle storie. Di fronte a chiare complicità in omicidio e ancora più chiare prove di colpevolezza, Orcot inspiegabilmente non interviene mai, per poi perseguitare Conte D con banalissime e impossibili scusanti (possesso di droga e spaccio!). La complicità tra i due dovrebbe realizzare probabilmente un contorno grottesco/umoristico alle sanguinarie tragedie protagoniste, ma se ne ricavano soltanto sbuffi ridicolizzanti per l’evidente disordine generale e per le scarse doti ironiche del duo.


La componente psicologica è inoltre imbarazzante, e non vengono spese parole per rendere verosimili i momenti di più bizzarra creazione: ne è d’esempio l’episodio della coppia di genitori che acquista un coniglio uguale in tutto e per tutto alla loro figlia morta (!), accettando la cosa senza alcun scossone emotivo con dialoghi tipo “È nostra figlia”, “No, è un coniglio”, “Ma i conigli non sembrano umani, di solito”. Viene così a mancare quella sostanza, quel mordente che possa sostenere i (rari) spunti vincenti, troppo folli e stravaganti per poter sopravvivere in un contesto tanto sterile. Nemmeno le (altrettanto rare) esplosioni orrorifiche risollevano il monotono quadro generale (la sirena/pesce mostruoso), perché se da una parte la sceneggiatura diluisce il ritmo con dialoghi inutili, dettagli superflui e prevedibili colpi di scena, dall’altra la pachidermica regia di Toshiro Hirata ricorre a lunghi e insopportabili fermi immagine, sottolineati da una OST low-fi assai ripetitiva, che azzerano ogni spirito atmosferico. Colpo finale è la consapevolezza di una storia incompleta e dei suoi buchi e relativi vuoti interrogativi ad affossarla.

Graficamente l’opera appare discreta: il chara di Wataru Abe è tipicamente anni 90 con quei volti lunghi, particolareggiati e generalmente realistici, mentre le animazioni, pur minate dal budget non troppo alto, sono sufficienti e funzionali al clima generale. Ma non è di certo abbastanza per salvare Pet Shop of Horrors, prodotto sorvolabile, destinato esclusivamente ai completisti del papà di Giant Robot (1992) e Mazinger Edition Z! The Impact (2009).

Voto: 4 su 10

2 commenti:

marco guarino ha detto...

Questa recensione non mi vede completamente d'accordo... Pet Shop of Horrors e' un anime difficile da tradurre proprio per la forte connotazione orientale, il conte D è identico a Yuko delle Clamp, ma non essendoci nessun vero rapporto umano con il detective Orcot non si evidenzia la filosofia che spinge questa figura ambigua pronta a soddisfare i desideri solo a patto di regole ferree e inviolabili. Il tema è ripreso anche in modo diverso da Vampire Princess Miyu e P.S.o.H. e' un anime che rispetta questo genere e lo fa in modo crudo e privo di compassione.

Simone Corà ha detto...

Mah, sai, non ho letto il manga, ma nelle recensioni cerco comunque di inquadrare il prodotto come opera a se stante, e da questo punto di vista PSoH mi ha deluso moltissimo prima di tutto per la banalità degli spunti e in secondo luogo per la lentezza strutturale, molto blanda e superficiale.

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