lunedì 29 marzo 2010

Recensione: Cowboy Bebop - Il Film

COWBOY BEBOP: IL FILM
Titolo originale: Gekijōban Cowboy Bebop - Tengoku no Tobira
Regia: Shinichiro Watanabe
Soggetto: Hajime Yatate, Keiko Nobumoto
Sceneggiatura: Keiko Nobumoto
Character Design: Toshihiro Kawamoto
Mechanical Design: Kimitoshi Yamane
Musiche: Yoko Kanno
Studio: BONES
Formato: film cinematografico (durata 115 min. circa)
Anno di uscita: 2001
Disponibilità: edizione italiana in dvd a cura di Columbia Tristar

 
Anno 2071, pianeta Marte: Spike e compagni sono questa volta pagati per affrontare il misterioso Vincent, ex militare apparentemente uscito di senno e intenzionato a diffondere sul mondo un terrificante virus trafugato al suo stesso esercito. Sulle tracce del terrorista si mette anche lo stesso governo marziano, impaurito che vengano alla luce certi compromettenti esperimenti fatti in passato. Il suo sicario è la bella Electra, misteriosamente legata a Vincent...

Cowboy Bebop: Il Film è l'ennesima prova che essere un grande regista non è necessariamente un Seal of Quality che riscatta tutto. Siamo nel 2001, pochi anni dopo il planetario successo di critica e pubblico di Cowboy Bebop, serie televisiva dal budget faraonico che fa conoscere al mondo l'enorme talento registico di Shinichiro Watanabe. Tutti si aspettano un capolavoro dal film cinematografico in cantiere: stesso identico staff produttivo (anche se le animazioni sono a opera del neonato studio BONES, nato da una scissione interna di Sunrise che qui è solo produttore), e uno Shinichiro Watanabe che dice che ci saranno atmosfere del passato, animazioni strepitose, grande enfasi posta sulle espressioni facciali e atmosfere arabesche... Un hype immenso che è solo causa dell'estrema amarezza del risultato finale. Dietro uno dei titoli italiani meno originali di sempre (perché non mantenere quello internazionale, il suggestivo Knockin' on Heaven's Door?), una gran delusione.

Intendiamoci, in superficie sembra davvero di guardare Cowboy Bebop. Ci sono Spike e la ciurma dell'indimenticabile astronave, animazioni da infarto, commistioni spettacolari tra musica e immagini, un villain apparentemente intrigante, silenzioso e letale, che vorrebbe scimmiottare l'indimenticabile Vicious della serie tv. Ma nulla di tutto questo convince, è tutta apparenza. Quanto più il film tenta di far respirare lo spirito del passato, tanto più questo è contraddetto e rovinato da atmosfere esageratamente seriose. Giacché se ne dica, il vero punto di forza della serie televisiva non sono gli ottimi personaggi, né le grandi musiche o le animazioni all'avanguardia. Bensì, semplicemente, la sua semplicità. La semplicità di un soggetto quasi basico, ma scritto così divinamente da rendere mozzafiato quasi 20 episodi semplicemente riempitivi, di livello così alto da far dimenticare la loro futilità ai sensi della (breve) trama principale. Qui in ogni momento Watanabe e la sceneggiatrice Keiko Nobumoto cercano il capolavoro, riprendendo atmosfere cupe e pachidermiche dei thriller di Oshii e inventandosi un noir cupo e serioso assurdamente intricato. Ma tutto questo, purtroppo per loro, non è Cowboy Bebop.


I personaggi classici sono ombre rispetto al passato, quelli nuovi (il villain Vincent e la bella Electra) mal sfruttati e, sopratutto, non c'è un solo momento in cui la storia riesca a interessare. Shinichiro Watanabe, incredibilmente svogliato dietro a quella che è forse la grande occasione della vita per garantirsi una lauta pensione, dirige una storia contorta, noiosa e confusionaria con lo stesso spirito di uno scolaro costretto a fare i compiti a casa: non una graffiata d'autore, non un guizzo per rendere appassionante ai fan quella che, in fine dei conti, è una side-story (l'avventura è ambientata tra gli episodi 22 e 23 della serie tv) senza ripercussioni, non un solo tentativo di scacciare la noia che regna imperante nelle lunghe due ore di film, rette su dialoghi boriosi e sequenze action banali e senza stile. Tutto è freddo, tecnicamente perfettino ma emotivamente insignificante.

Risulta difficile pensare che dietro i creatori di questo film ci siano i geni della meravigliosa serie animata del 1998, eppure i risultati parlano chiaro: Cowboy Bebop - Il Film è una delusione sotto ogni punto di vista, una produzione ambiziosa ma mal scritta, distantissima dalle atmosfere scanzonate dell'opera di riferimento e capace, paradossalmente, di dire qualcosa sopratutto a chi non ha mai visto quest'ultima. Per gli altri, inutile ribadirlo, una visione che è un affronto a un grande passato, immeritevole di essere infangato così. (Never) see you again, space cowboy!

Voto: 5,5 su 10

MUST SEE
Cowboy Bebop (1998-1999; tv)

giovedì 25 marzo 2010

Recensione: Cowboy Bebop

COWBOY BEBOP
Titolo originale: Cowboy Bebop
Regia: Shinichiro Watanabe
Soggetto: Hajime Yatate
Sceneggiatura: Keiko Nobumoto
Character Design: Toshihiro Kawamoto
Mechanical Design: Kimitoshi Yamane
Musiche: Yoko Kanno
Studio: Sunrise
Formato: serie televisiva di 26 episodi (durata ep. 24 min. circa)
Anni di trasmissione: 1998 - 1999
Disponibilità: edizione italiana in dvd a cura di Dynit

 
Anno 2071: Spike Spiegel, in passato abilissimo sicario, e Jet Black, ex-poliziotto, sono due space cowboy, cacciatori di taglie, che a bordo dell'astronave Bebop scorazzano per il sistema solare a guadagnarsi il pane catturando ricercati, cercando di dimenticare dei passati tragici. Nel loro viaggio stringeranno amicizia con quelli che diverranno nuovi membri della ciurma, finendo con l'affrontare, insieme a loro, più volte i propri fantasmi...

Il 1998 e il 99 saranno ricordati lungo come l'apice, in casa studio Sunrise, dell'esplorazione di nuove strade narrative. Sono gli anni della riconferma dell'estro dei grandi registi, di storie estremamente adulte e cervellotiche, di alti budget spesi per animare storie dal soggetto talentuoso. Nondimeno, l'anno dell'esplosione di nuovi talenti registici. In un biennio glorioso in cui vedono la luce Brain PowerdThe Big O e Infinite Ryvius, non bisogna dimenticare la meritatissima risonanza mondiale ottenuta dal capolavoro Cowboy Bebop, una di quelle produzioni capaci di convincere anche il detrattore più scettico dell'animazione made in Japan delle sue potenzialità creative. Tanto da ergersi, insieme a Evangelion, Utena ed Escaflowne, come uno degli anime televisivi più popolari degli anni '90.

Shinichiro Watanabe, regista sconosciuto ai più anche se dietro la vice-regia del noto Macross Plus, è un talento a lungo inespresso e dal grande potenziale, ed è solo con Cowboy Bebop che firma, finalmente, l'opera della carriera, facendo conoscere il suo nome al grande pubblico ed entrando di prepotenza nell'empireo dei migliori registi. Ma cos'è innanzitutto Cowboy Bebop? Un noir? Una sgangherata commedia fantascientifica? Un thriller dalle venature ironiche? Si può definire, quasi sulla falsariga dello storico Patlabor, una sorta di slice of life, almeno per larghi strati della sua durata. Un genere caratterizzato dalla quasi inesistenza di storia portante, retto su episodi che rappresentano ritagli di vita generale di personaggi qualunque. Potenziale tedio se la vita dei protagonisti è noiosa o loro stessi sono poco interessanti, ma spettacolo se espresso dalle personalità giuste. In questo contesto eroi sono cacciatori di taglie spaziali alle prese, in ogni episodio, con una nuova, avvincente avventura data da inseguimenti, scazzottate e sparatorie in giro per un civilizzato sistema solare del futuro. Avventure sorprendentemente varie e che affrontano ogni genere narrativo (noir, horror, comico, anche western), legate da un disegno portante che si rivela solo a serie inoltrata.

 

Quella che è la grande particolarità della serie, vera innovazione creata e portata avanti da Watanabe in tutte le sue opere successive, è una felicissima commistione musica-immagini, già richiamata dall'opening strumentale Tank! che, col suo virtuosismo, i tempi veloci, l'improvvisazione e la struttura armonica, inaugura i propositi di sperimentazionale musicale del Bebop nel titolo. La soundtrack di una Yoko Kanno mai più così conosciuta in Italia si ricorderà per la grande, variegatissima quantità di tracce, ognuna a tema con le atmosfere particolari suscitate da ogni episodio: tra jazz, funk, blues, soul, ritmiche tribali e molti altri stili, si forma uno dei più celebri accompagnamenti musicali della Storia dell'animazione. Colonna sonora che, accompagnata a fluidissime animazioni - dove arti e articolazioni si flettono in movimento con un realismo a dir poco straordinario - e alla regia di Watanabe, consegna ai posteri tracce indelebili di vero cinema. Le capacità tecniche del regista sono fuori discussione: a suo agio, come fosse la cosa più normale del mondo, ad animare eleganti scene introspettive o anche duelli o inseguimenti grondanti adrenalina, sfrutta la OST per realizzare sequenze strabilianti, dove udito e vista sono contemporaneaente sollecitati da immagini, idee e accoppiamenti così strabilianti da far raggiungere l'orgasmo dei sensi (ricordando talvolta, a mio parere, addirittura il miglior Kubrick).

Da non dimenticare neanche la stravaganza di villain, avvenimenti e situazioni che la crew del Bebop deve incontrare in ogni avventura - a indicare la grande versatilità della sceneggiatrice Keiko Nobumoto -, o la palesissima cifra stilistica giapponese che traspare nella caratterizzazione fisica di questo futuro iper-tecnologico, dove assassini con la katana e donne dall'abbigliamento succintissimo suggeriscono in ogni inquadratura la nazionalità dello staff Sunrise e un erotismo elegante dato dal suggerimento di corpi eccitanti, occhi languidi o sguardi di ghiaccio. Merito di questo va ricondotto anche al contributo al chara design di Toshihiro Kawamoto, già celebre per i lavori gundamici di Stardust Memory e The 08th MS Team, che in Cowboy Bebop continua a ipnotizzare con un segno estremamente realistico e seducente, ben risaltato dall'azzeccato uso dei primi piani.

La vera forza espressiva di Cowboy Bebop non risiede però né nella magniloquenza visiva né nella straordinaria colonna sonora, perchè è la semplicità la vera grande gemma del lavoro di Shinichiro Watanabe. Non servono necessariamente storie complesse per creare buona animazione, bastano anche solo poche, buone idee chiare in testa. Un simpatico gruppo di personaggi ben caratterizzati, puntate semplici ma ben scritte e un villain finale convincente sono elementi più che sufficienti per ricavare una produzione di qualità. Cowboy Bebop è un inno alla semplicità, al divertimento, al piacere di affezionarsi ai protagonisti e alle loro vicende personali, pur non mancando in tutto questo, all'occorrenza, anche intermezzi seriosi e addirittura atmosfere cupe e pulp, focalizzate nello sviscerare il passato di Spike e i suoi rapporti col malvagio Vicious. Un finale epico consegna infine al mito uno dei capolavori per eccellenza degli anni 90.


Cowboy Bebop è una di quelle poche visioni veramente irrinunciabili per un appassionato di animazione, una di quelle costose licenze Sunrise il cui arrivo qui merita di essere benedetto al cielo. Se a questo aggiungiamo un doppiaggio italiano STRAORDINARIO, tra i migliori di sempre, e un adattamento quasi perfetto (il "quasi" è da riferirsi a giusto un paio di errori non voluti, a cui pongono rimedio i due boxoni Dynit integrando la correzione nei sottotitoli), non c'è alcuna scusante per non vederlo. Peccato unicamente per la carriera di Shinichiro Watanabe, che dopo l'opera di debutto realizzerà poco e senza più esiti così felici.

Voto: 9 su 10

SIDE-STORY
Cowboy Bebop: Il Film (2001; film)

lunedì 22 marzo 2010

Recensione: Brain Powerd

BRAIN POWERD
Titolo originale: Brain Powerd
Regia: Yoshiyuki Tomino
Soggetto: Hajime Yatate, Yoshiyuki Tomino
Sceneggiatura: Yoshiyuki Tomino, Akemi Omode, Katsuyuki Sumizawa, Miya Asakawa, Tetsuko Takahashi
Character Design: Mutsumi Inomata
Mechanical Design: Mamoru Nagano, Takumi Sakura
Musiche: Yoko Kanno
Studio: Sunrise
Formato: serie televisiva di 26 episodi (durata ep. 25 min. circa)
Anno di trasmissione: 1998
Disponibilità: edizione italiana in DVD a cura di Dynit


Un gigantesco organismo vivente extraterrestre chiamato Orphan riposa da millenni nella Terra, adagiato sul fondo dell'Oceano Pacifico. Arriva il giorno in cui gradualmente inizia a ridestarsi per poter tornare a navigare nell'universo, minacciando però, in questo modo, di distruggere il pianeta col suo risveglio, visto che che provocherebbe inondazioni  distruttive. L'ONU finanzia quindi la costruzione di una potente nave da guerra, la Novice Noah, per cercare di distruggerlo prima del tempo, ma diversi fazioni interessate a usare Orphan per i loro scopi, tra cui la famiglia Isami, cercheranno di impedirglielo. La guerra tra le parti sarà condotta attraverso i Grandchild, creature volanti nate da Orphan e utilizzate come armi di battaglia.

Brain Powerd, con i suoi temi di trattazione delle dinamiche familiari e l'irrisolvibile conflitto tra Uomo e Natura, è stato sentitissimo da parte di Yoshiyuki Tomino, tanto che l'autore lo ha ideato già nel 1983, immaginandolo come lungometraggio cinematografico. Sunrise all'epoca non era però convinta dal progetto e l'infinita saga di Gundam ha fatto il resto, distogliendo l'autore dal suo progetto (si lamenterà che Neon Genesis Evangelion e Principessa Mononoke, usciti rispettivamente nel 1995 e nel 1997, hanno rubato il tempo alle sue idee) e portandolo a realizzarlo solo quindici anni dopo, nella forma di serie televisiva, dopo che è riuscito a staccarsi dal fluviale franchise gundamico con il fallimentare Mobile Suit Victory Gundam (1993)1. I tempi sono però cambiati, il regista ha accumulato molta esperienza e soprattutto è cambiata la sua visione del mondo: non è più depresso e carico di odio per il suo lavoro, e arriva addirittura a dichiarare pubblicamente di essersi pentito di aver girato Victory Gundam per la sua efferata misoginia. Il Brain Powerd che scrive e dirige nel 1998 non può, per forza di cose, essere lo stesso che avrebbe realizzato nel 1983, e a riprova di questo, oltre ai temi già citati, l'autore fa confluire in esso un terzo tema ancora: una seconda, originale disamina della donna, ma da intendersi stavolta in modo assolutamente positivo, proprio per "rinnegare" quanto detto precedentemente. È pacifico che inserire tutte queste tematiche in una serie di soli 26 episodi non sarebbe stato facile: Tomino riscrive addirittura 10 volte la storia2 prima di darle la sua fisionomia finale, ma il risultato, pur con tutti questi accorgimenti, denoterà tanto l'impegno dell'autore quanto l'impossibilità, per le ambizioni eccessive della trama, i palesi limiti di durata della serie e problemi di realizzazione vari, di tirare fuori quel prodotto memorabile così tanto ricercato.

"Mi sento troppo vecchio per potermi ancora occupare di cartoni robotici vicini ai gusti del pubblico", dice il regista nel 19943, a 53 anni, e queste parole suonano quasi profetiche nei riguardi di Brain Powerd. Si sa bene che, da Space Runaway Ideon (1980) in poi, le sue opere iniziano ad abbandonare i tratti del più facile intrattenimento: un po' per evidenziare i problemi di comunicazione dei personaggi (tema fondamentale della sua poetica), un po' per una ricerca di verosimiglianza, Tomino fa parlare  i suoi attori in modo estremamente schietto e secco, in modo da ben rappresentare il punto di vista del singolo individuo e il suo ruolo in quel mondo fittizio. Il regista non sente il bisogno di "raccontare" il background dei suoi mondi (come fa invece il 99% degli anime), quanto quello di farlo recepire, e lo fa grazie a personaggi che conversano esattamente come farebbero nella vita reale, in modo naturale e senza velleità "spiegazioniste", e questo presuppone quindi che sia lo spettatore ad ambientarsi gradualmente al setting e a "capirlo", assimilando le informazioni e tenendo conto del fatto che quello che dicono gli attori è solo la loro versione della verità. Per lo stesso motivo, quando spesso nelle sue storie il regista fa riferimento a qualche fatto (può essere un elemento del background politico o tecnologico, ma anche un qualche avvenimento importante), non è mai detto che poi ci tornerà sopra o lo sottolineerà più avanti: più che volentieri darà per scontato che ci si ricordi di esso per fare collegamenti mentali dopo, proprio perché nella realtà non esiste una furba voce narrante che riepiloga quanto detto prima, o qualche provvidenziale flashback. È da questo stile di racconto celebrale che i lavori del regista tendono a diventare più dei monologhi che delle serie da guardare a cervello spento, e da questa lunga premessa si giunge a una considerazione importante: il grande ruolo svolto dagli sceneggiatori scelti da Tomino per le sue produzioni, in grado di interpretare e mettere per iscritto i salti logici delle sue storie o dei suoi script. Sceneggiatori evidentemente scelti bene in buona parte delle sue visioni, ma decisamente male in Brain Powerd, l'opera che più di qualsiasi altra rende vistoso e ben tangibile il problema di un Tomino non affiancato dal giusto staff. Brain Powerd si rivela, per questo motivo, uno dei più criptici, complessi ed elitari lavori dell'autore, dove troviamo elevati all'ennesima potenza sia i suoi punti di forza che quelli deboli, risultato della decisione di dargli "eccessiva libertà" e troppi pochi paletti nel progetto.


Come in quasi tutte le sue opere, anche in Brain Powerd è ben sentito il tema della difficoltà di comprensione, filtrata dai più svariati punti di vista. In quest'occasione si va ben oltre, focalizzando la trama su una surreale, letterale incapacità di comunicare, come se i personaggi parlassero tutti una lingua diversa. Questo si traduce in una storia corale di individui perennemente introversi e alienati, quasi fuori dal mondo, incapaci di spiegare i loro comportamenti, divisi da lunghi silenzi e ostilità e costantemente decisi a non aprirsi col prossimo, parlando solo attraverso il loro punto di vista che vede tutto in bianco e nero. Emblematica a questo riguardo è la storia del gruppo principale di personaggi, i componenti della famiglia Isami, divisi tra chi ha abbracciato la scienza schierandosi dalla parte di Orphan, chi dalla parte dell'umanità, e chi prima dall'una e poi dall'altra parte per mancanza di affetto e comunicazione coi propri familiari, dovuta alla voglia di un po' tutti loro di chiudersi a riccio e perseguire i propri interessi dopo errori vari commessi nella loro vita. I lunghi processi di introspezione riguardano gli Isami come l'ampio cast che ci gravita attorno, composto da donne e ragazze (principalmente tecnici, piloti e comandanti della Novice Noah o di Orphan) analizzate sotto ogni punto di vista (sorelle, madri, amiche, nonne, etc), coerentemente col proposito di Tomino di far dimenticare Victory Gundam cambiando l'equazione "istinto femminile/bagno di sangue" in "istinto femminile/effetti benefici sull'uomo". Sicuramente il passare da un estremo all'altro anche questa volta non sottintende un'analisi necessariamente realistica, ma è di sicuro, ancora una volta, una trovata d'autore che contribuisce a rendere originale la serie. Per tutte queste tematiche intellettuali Brain Powerd ha un appeal quasi nullo su chi si aspetta una storia lineare e semplice da seguire, o anche solo appassionante, e anche chi ha seguito molte delle opere del regista potrebbe trovarsi spiazzato dall'enfasi assoluta sull'argomento, dalla lentezza espositiva, dagli enigmatici dialoghi e dall'artifizio narrativo, ripreso ancora una volta da Victory Gundam, di buttare lo spettatore dentro la storia senza spiegarne minimamente l'antefatto fantascientifico (Orphan, i Reclaimer, la Novice Noah, le mire della famiglia Isami, le Plate e B-Plate, la differenza tra le tipologie di Antibody), lasciando a lui il compito di arrivarci da solo.

Potrebbero spiazzare anche le animazioni, volutamente minimali (nonostante il budget affatto basso), ma soprattutto il glabro approccio registico scelto per il comparto action del titolo, risultante in barocchi e fivestoriani mecha organici e senzienti (di Mamoru Nagano, collaboratore di Tomino dai tempi di Heavy Metal L-Gaim, ironicamente l'ultima serie televisiva non gundamica da lui diretta prima di 14 anni ininterrotti di Mobile Suit, il cerchio si chiude) che si combattono in scontri aerei aridamente e impersonalmente coreografati, privi di fanservice spettacoloso e condotti sulle note eteree e celtiche (più sofisticate che belle a sentirsi) di Yoko Kanno, scopiazzate da Blade Runner (1982). Chi avrà modo di andare oltre tanto minimalismo troverà in compenso una storia interessante, che affascina nel lento dipanarsi di un intreccio complesso e intrigante, seppur austeramente narrato. L'opera, pur lenta, incuriosisce con il suo soggetto e i suoi personaggi da scoprire poco a poco; grazia l'occhio con un chara design bellissimo, colorato e definito tipico da J-RPG a cura della eccellente Mutsumi "Tales Of..." Inomata; può vantarsi di un buon numero di protagonisti molto ben delinati come da tradizione e di un finale molto poetico che chiude in modo abbastanza soddisfacente la trama. Il problema vero e proprio risiede nel suo script, farraginoso per larghi strati di durata, delineato in modo tale da far sembrare il tutto sconclusionato, con personaggi dalle potenzialità inespresse e nodi che, sparsi per la serie, paiono lasciati a sé stessi e mai sbrogliati (e invece questa sensazione deriva solo, come si vedrà, dal modo in cui Tomino e gli sceneggiatori non sono riusciti a rendere chiare le sue idee).

Ogni scena data per chiarissima dal regista rimane enigmatica per lo spettatore: la sua analisi della donna e dei rapporti di famiglia si perde in comportamenti esageratamente surreali (un bacio rubato nel secondo episodio, un certo monologo shakespeariano di Yuu, gli assurdi comportamenti della sua psicolabile sorella Queency Ittor, etc.), in dialoghi enigmatici che non si sa dove vogliano andare a parare (quando Kant Kestner discute con l'equipaggio della Novice Noah del mondo degli adulti), in metafore sulla maternità date dagli Antibody che sono a loro volta bambini di Orphan e a loro volta sembrerebbero fungere allegoricamente da genitori ai loro piloti, che li guidano da dentro un cockpit-genitale (invenzione di Nagano per sopperire al divieto di Sunrise di far guidare, come voleva Tomino e come viene mostrato nella bellissima e bizzarra sigla di apertura, In My Dreams, completamente nudi i piloti, come fossero un feto4). Che dire, poi, di una misteriosa immagine di donna che appare sullo stomaco di Orphan? O degli effetti benefici delle radiazioni del gigantesco organismo sull'ecosistema, o dal fatto che la presenza di bambini a bordo della Novice Noah serva a calmare Orphan (idea già vista ai tempi di Ideon)? Sono tutti spunti buttati alla rinfusa e mai più ripresi e neppure citati, praticamente dimenticati per strada o introdotti così male che ci si dimentica immediatamente di essi, ignorandone il ruolo-chiave (chiaro solo alla contorta mente del regista) nella risoluzione finale. Come se gli ingredienti già non fossero eccessivi e mal amalgamati, Tomino è ispirato anche da tematiche new age, e non gli pare vero di poterne inserire frammenti nel suo giocattolo generando altri interrogativi: anche se lui li mette "per fare figo", è inevitabile che possano venire fraintesi da qualcuno, come la fonte dei poteri degli Antibody (che permette gli attacchi Chakra Extension) o i mistici nodi di energia, tanto cari a religioni esoteriche e libri mysteriosi, che formano una "ragnatela spirituale" (qui chiamata Vital Net) che collega ogni angolo del mondo permettendo ai mecha di spostarsi da un luogo all'altro. Il cast nella sua interezza è, poi, davvero enorme, e considerando che molti suoi elementi non hanno quasi nessuna ripercussione narrativa, se non di venire psicanalizzati nel loro ruolo (e neanche in modo approfondito, visto il poco spazio concesso), viene davvero da domandarsi il senso di gente come Nacky Guys, Nanga Silverly, Higgins Saz, Komodo Mahama, Shiela Glass o la scienziata che studia le Plate e che appare nell'episodio 2. Fino alla fine si ha davvero l'impressione di assistere a un potenziale capolavoro ma di essere troppo limitati per capirlo. Non è così.

Come si saprà successivamente, Tomino aveva deciso tutto con chiarezza, aveva le idee ben chiare su come risolvere i misteri "terreni" della trama, quelli legati a Orphan e agli Antibody. Dovendo fare però i conti con "solo" 26 episodi, il regista sceglie volontariamente (e sciaguratamente) di focalizzare quasi tutta la narrazione sui temi che reputa più interessanti, quelli della famiglia e della donna, tralasciando di spiegare meglio il background fantascientifico e di fornire le necessarie spiegazioni per capire nella sua interezza la storia5. Anche se in questo caso la trama "terrena" viene conclusa, sembra quasi di assistere a un rifacimento dei due famosi episodi conclusivi di Evangelion: a un certo punto Tomino si disinteressa quasi completamente delle questioni principali della vicenda, e porta avanti quest'ultima per "sole immagini", mostrando tanto ma fornendo pochissimi input per decifrarlo (qualche frase-chiave buttata lì senza convinzione e mai più ripresa, persa in mezzo a battaglie e introspezioni), immagini che portano direttamente a una conclusione che, in un modo o nell'altro, "suona" comprensibile e gode anche di un certo pathos, ma lascia aperte un sacco di perplessità, alla stregua di un "penso sia così ma non ne sono del tutto sicuro". Questa sensazione di caos non è, una volta tanto, colpa dello spettatore non abbastanza intelligente, ma proprio di autore e sceneggiatori che non sono riusciti a esprimere chiaramente quello che volevano dire. Del resto, è del tutto impossibile, guardando il solo anime e contando sui suoi pochissimi "indizi" disseminati qua e là, arrivare a capire (non è un'anticipazione, a questa "rivelazione" non ci si arriva con la semplice visione della serie) tipo che l'inabissamento di Orphan deriva da un suo fallito accoppiamento spaziale con un altro esemplare, e che questa cosa si collega al significato ultimo della serie, del fatto che la femmina è la fonte della vita e che, se smette di interessarsi a procreare, rappresenterà la fine del genere umano6. Lo spettatore medio vedrà in Brain Powerd solo una confusa analisi - con molti buoni momenti ma altrettanti interrogativi - del rapporto madre-figli con una spruzzata di ecologismo e new age.


La cosa divertente è che, sotto un'altra prospettiva, Brain Powerd si può definire, a testimonianza della sua assoluta originalità, anche una sorniona presa per i fondelli, visto che mentre ci interroghiamo sulle complesse e seriose sfaccettature della storia conosceremo personaggi ridicoli come un assurdo Darth Vader che cavalca un surf aereo, lo stesso protagonista che indaga su una inquietante apparizione nella Novice Noah indossando un demenziale pigiama rosa, o la bizzarra esaltazione della coltivazione dei pomodori (della scorzonera nelle intenzioni originali di Tomino, ma anche questo non gli è stato accettato7!)! L'opera, per riallacciarci all'apertura, inaugura ufficialmente quella che verrà definita la "Terza fase artistica" del suo creatore, quella solare (in contrapposizione con la Seconda, contraddistinta dai bagni di sangue a cui dà inizio Ideon), colorata e, perché no, anche allegra, che rappresenta bene la guarigione dalla depressione del regista, che ora vede il mondo molto meno tetro e deprimente e lo dimostra trattando temi seri senza più atmosfere nichiliste e immagini crude, riducendo al minimo indispensabile il numero dei morti. Tutto questo è, in definitiva, Brain Powerd: una serie robotica carichissima di ambizioni e ricca contenutisticamente, ma scritta in un modo così particolare da sembrare quasi sperimentale, per numerosi versi rivoluzionaria ma, vuoi per lo scomodo paragone con Evangelion, a esso sempre stupidamente accostato come "brutta copia", vuoi per le sue carenze oggettive nello script, non conoscerà il successo auspicato in madrepatria8 e verrà dimenticata quasi subito. È, al di là di tutto, un buon prodotto: carismatico per le sue mire, intrigante nella sua osticità e per l'impegno intellettuale che richiede, e tutto sommato comunque valido e compiuto almeno nelle sue ambizioni sociali, pur con problemi in altri aspetti che gli fanno assumere i contorni di un'opera riuscita solo a metà.

Nota a parte per l'edizione italiana in DVD a cura di Dynit, che gode di un ottimo adattamento dei dialoghi (nonostante qualche frasetta aggiunta qua e là dal direttore del doppiaggio) ma di un doppiaggio mediocre, penalizzato dalla recitazione svogliata. I problemi proseguono poi col mixaggio audio sbagliato dei primi tre dischi: la colonna sonora e gli effetti sonori sono registrati a volume altissimo, mentre i dialoghi risultano talmente bassi da essere difficili da sentire. Lascio perciò immaginare l'entusiasmo di prepararsi alla visione tenendo a portata di mano il telecomando, per abbassare o alzare continuamente il volume (il problema non si pone con l'audio originale e i sottotitoli italiani). Infine, vista la complessità della trama, è certo una delusione constatare la totale mancanza di extra, come ad esempio qualche bella intervista a Tomino o analisi dell'opera che avrebbero permesso di sviscerare meglio la complessità di Brain Powerd.

Voto: 7 su 10


FONTI
1 Questi numerosi retroscena provengono dal databook "Brain Powerd Spiral Book" (Gakken, 1999), che mi sono stati gentilmente tradotti da Garion-Oh (Cristian Giorgi, traduttore GP Publishing/J-Pop/Magic Press e articolista Dynit)
2 Come sopra
3 Mangazine n. 34, Granata Press, 1994, pag. 11
4 Vedere punto 1
5 Come sopra
6 Come sopra
7 Come sopra
8 Guido Tavassi, "Storia dell'animazione giapponese", Tunuè, 2012, pag. 281

giovedì 18 marzo 2010

Recensione: Gasaraki

GASARAKI
Titolo originale: Gasaraki
Regia: Ryousuke Takahashi, Goro Taniguchi
Soggetto: Hajime Yatate, Ryousuke Takahashi
Sceneggiatura: Toru Nozaki, Chiaki J. Konaka
Character Design: Shukou Murase
Mechanical Design: Yutaka Izubuchi, Shinji Aramaki
Musiche: Kuniaki Haishima
Studio: Sunrise
Formato: serie televisiva di 25 episodi (durata ep. 24 min. circa)
Anni di trasmissione: 1998 - 1999



La guerra medio-orientale appena scoppiata fra gli USA e lo stato del Belgistan è l'occasione per i Gowa, potente famiglia giapponese, e la misteriosa organizzazione Symbol, di rifornire i due eserciti con i Tactical Armor, avveniristici robot da guerra da sperimentare nei campi di battaglia. Yushiro e Miharu, leader dei due rispettivi battaglioni, finiscono presto con lo scontrarsi in prima linea, scoprendo di essere indissolubilmente legati da una tragica storia avvenuta secoli prima e legata alle loro misteriose origini di sacerdoti Kai del culto del dio Gasaraki. Mentre cercano di trovare risposte sulla loro identità dovranno stare attenti al fratello maggiore di Yushiro, Kazukiyo, presto capofamiglia dei Gowa, che intende sia sfruttare i poteri sciamanici di Yushiro per non meglio precisati motivi, che allearsi con una fazione rivoluzionaria dell'esercito giapponese interessata a compiere un colpo di stato in patria.

È troppo facile passare per ignoranti stroncando un titolo come Gasaraki, ritenuto dai suoi appassionati e dalla critica come un grandissimo capolavoro degli anni '90, il canto del cigno di uno dei più geniali registi di casa Sunrise, Ryousuke Takahashi. Eppure, nonostante le ripetute visioni un simile cult per coglierne la grandezza, chi scrive non riesce in alcun modo a soprassedere sull'enorme mediocrità del suo script che ne distrugge le ambizioni, anche se si parla di una storia originale diretta con un'autoralità estrema. Inventore, negli anni '80, della serie robotica più politica e filosofica della Storia, Fang of the Sun Dougram (1981), e dei Real Robot per antonomasia, Armored Trooper Votoms (1983), dopo un decennio di lavori Ryousuke Takahashi è pronto a chiudere definitivamente il cerchio fondendo le due caratteristiche in Gasaraki, che esplori le caratteristiche dei mezzi robotici realistici fino al limite massimo, supremo e insuperabile.

Inizialmente ambientato durante un conflitto militare nel deserto, ispirato fortemente alla Guerra del Golfo (la classica rilettura del regista di scorci di Storia contemporanea), teatro delle prime battaglie, Gasaraki di fatto presenta i robot militari più credibili mai visti in animazione, gli unici che un domani un qualche esercito sarebbe probabilmente in grado di progettare se lo ritenesse utile. Si tratta dei Tactical Armor, armature robotiche bipedi alte due metri e mezzo, equipaggiate con i massimi ritrovati militari (fucili, mitragliatori, missili, radar, occhiali a raggi infrarossi e a rilevazione termica, mirini automatici) e dotate di uno speciale sistema di movimento che permette loro di correre o arrampicarsi sui muri. Macchine da guerra che vantano un aspetto meccanico dal realismo formidabile, merito dell'accuratissimo mecha design del veterano Yutaka Izubuchi e di Shinji Aramaki. Un design realistico e iper-particolareggiato che è ribadito anche nelle figure umane di Shukou Murase, orientaleggiante nei personaggi asiatici e occidentale in quelli americani. L'appeal visivo  è carismatico, forte anche di animazioni che, sopratutto nelle scene di azione, denotano una fluidità impressionante e degna dei fasti della migliore Production I.G. Registicamente e narrativamente, però, si parla di un'opera ampiamente controversa, a metà tra un capolavoro di cura o un tedioso, gelido esercizio di stile.


La storia di Gasaraki, per mettere le cose in chiaro, è complessissima, tra le visioni più intellettualmente ostiche di sempre: pur stupendo per il suo originale mescolamento di sapori antichi e moderni (spiritualismo scintioista, crudeli segreti del periodo feudale e minacciosi mostri-oni convivono con avanzatissime tecnologie militari, fluttazioni economiche in borsa, intrighi politici e filosofeggiamenti vari sull'etica dell'uomo e del Giappone), è raccontata nel modo più scomodo concepibile. Takahashi e il co-regista Goro Taniguchi tirano fuori un monumento all'austerità tecnica e narrativa, la cui aridità è uguagliata solo da certe pellicole di David Lynch e Mamoru Oshii: Gasaraki è diretto in modo lento, lentissimo, con pochissima musica, lunghe e meticolose sequenze dialogiche, prolungati silenzi, semplici effetti sonori ambientali, inquadrature immobili... Si può parlare tranquillamente di un monologo, di una storia mostrata e non raccontata, imperturbabile come un documentario. Gasaraki segna il punto di arrivo della filosofia takahashiana, ma non si capisce se di evoluzione o involuzione si tratta: se nelle grandi opere degli anni '80 il regista parla degli stessi argomenti in modo avvincente, sul finire del millennio sembra essersi dimenticato come intrattenere lo spettatore. La sua cura estrema nelle interazioni tra personaggi e background politici/militari danno una così fedele rappresentazione della realtà da rendere come lei freddi e impersonali gli attori, spesso mere presenze sullo sfondo. Il realismo sovrasta tutto uccidendo il coinvolgimento e il senso di meraviglia. Impossibile affezionarsi ai protagonisti di Gasaraki perché questi sono tutti, nessuno escluso, dei perfetti ghiaccioli. Takahashi raggiunge una raffinatezza espositiva enorme, sicuramente post-moderna, ma per chi scrive è davvero difficile decretare se questa "evoluzione" si possa conciliare con il concetto di intrattenimento.

Ancora di salvezza nel "mortorio" è sicuramente la cura suprema in aspetto visivo e animazioni, merito di un comparto tecnico da paura. Le movenze di attrezzature tecnologiche e personaggi, unite alla già citata, strabiliante cura grafica, portano a sequenze registiche di fortissimo impatto cinematografico, splendenti nelle scene d'azione che hanno per protagonisti i TA o i mostruosi Kugai, emanazioni di Gasaraki. Non è indifferente neanche la co-regia di Goro Taniguchi, il cui contributo più vistoso è rappresentato da uno dei suoi cavalli di battaglia, il continuo rimaneggiamento di immagini nella meravigliosa opening Message #9, brano trip hop da voci e sonorità ancestrali perfettamente azzeccate con le atmosfere mistiche.  Sunrise, insomma, confeziona il suo consueto "kolossal" televisivo. Peccato come, anche soppesando pro e contro, il risultato finale non sia sufficiente: pur autoriale fino allo stremo, Gasaraki è scritto indiscutibilmente male. I due sceneggiatori, Toru Nozaki e Chiaki J. Konaka, oltre a non fornire la minima carica emozionale ai personaggi, oltre a non rendere piacevole la visione, non riescono neppure a rendere chiara la storia: a fine visione rimangono tanti punti interrogativi, sia perché la materia è così complessa che spesso chiavi importanti alla comprensione sono contenute in mezze frasi perse nell'oceano dei dialoghi e mai più riprese, e sia perché spazio non indifferente della storia è occupato da riempitivi (almeno 7/8 puntate, comprensive della fuga nel bosco, del TA "posseduto" e l'avventura nei bassifondi del Kansai) che rubano spazio prezioso alle spiegazioni. Si arriva così in fondo con l'insoddisfatta sensazione di aver perso per strada pezzi importanti della trama: sicuramente può c'entrare la disattenzione del momento verso qualche dialogo importante (tutti fondamentali, caldamente raccomandato l'uso del backward, guai ad assistere passivamente), ma rimane assurdo che questioni tanto importanti siano citate giusto una volta poi abbandonate per strada, come fossero già date per assimilate. Aggiungiamo infine come, per chi scrive, nella sua interezza e complessità il soggetto di Gasaraki non è comunque nulla di davvvero fondamentale.


Tirando le somme, per uno degli ultimi veri cult di Ryousuke Takahashi, l'aggettivo "avveniristico" è indubbiamente meritato, e questo è un oggettivo punto a suo favore. Un giorno, forse, critica e pubblico definiranno addirittura epocale uno stile di racconto così impostato. Il problema è semplicemente che, punto di arrivo o meno del Real Robot, monumento fondamentale o meno a una vocazione "totalitaria" al realismo, Gasaraki non è MAI, neppure per un momento, un piacere da guardare, mal sceneggiato e con una storia non lascerà il segno. Non giustifica un simile impegno intellettuale da parte dello spettatore.

Voto: 5 su 10

lunedì 15 marzo 2010

Recensione: Armored Trooper Votoms

ARMORED TROOPER VOTOMS
Titolo originale: Sōkō Kihei Votoms
Regia: Ryousuke Takahashi
Soggetto: Hajime Yatate, Ryousuke Takahashi
Sceneggiatura: Yoshitake Suzuki, Jinzo Toriumi, Soji Yoshikawa, Ryousuke Takahashi
Character Design: Norio Shioyama
Mechanical Design: Kunio Okawara
Musiche: Hiroki Inui
Studio: Sunrise
Formato: serie televisiva di 52 episodi (durata ep. 24 min. circa)
Anni di trasmissione: 1983 - 1984


Astragious History, anno 7213: dopo un breve periodo di tregua, ricomincia, implacabile, il plurisecolare conflitto bellico tra la Confederazione Gilgamesh e l'Unione di Balarant. Durante una missione segreta nell'asteroide Lido, il taciturno soldato Chirico Cuvie, della potentissima milizia speciale Red Shoulder di Gilgamesh, scopre che nella sua stessa fazione si sta illegalmente costruendo una minacciosa arma da guerra: un super soldato artificiale. La scoperta costa cara al ragazzo, che, radiato dall'esercito dietro pretesto di spionaggio, si trova successivamente pedinato non solo da entrambe le fazioni, ma anche dall'Organizzazione Segreta dietro lo sviluppo del Soldato Perfetto.

Armored Trooper Votoms è, al di dell'eventuale riuscita o meno di trama e personaggi, sicuramente uno dei lavori di cui tenere conto nel momento di tracciare un percorso evolutivo dell'animazione robotica. La base teorica del Robot Realistico, come risaputo, la partorisce Yoshiyuki Tomino nel 1979 con Mobile Suit Gundam, dove i classici giganti di ferro giapponesi diventano, rispetto ai predecessori nagaiani, mere armi da guerra prodotte in serie dall'esercito, prive di inverosimili super-poteri, create da una tecnologia coerente nel contesto e che necessitano di ampie riparazioni dopo ogni battaglia; addirittura, in quanto semplici armi belliche, è previsto che vengano sostituite da modelli più evoluti ed esteticamente sono tutto fuorché agghindiate da orpelli, trovando invece un design molto glabro. Non bisogna però dimenticare come solo alcune delle unità della serie (gli Zaku e i GM) corrispondono a quest'avveniristica innovazione, mentre quella protagonista, l'RX-78-2 Gundam, rimane spropositatamente superiore ai suoi nemici. Nel 1981, con Fang of the Sun Dougram, Ryousuke Takahashi perfeziona i concetti di Tomino creando un dramma di guerra ancor più sofisticato nel background militare/politico, ancora più realistico nel design dei robottoni, ancor più verosimile nell'eroe di metallo sempre più debole e smitizzato, ma quest'ultimo rimane sempre invincibile e inverosimile rispetto ai suoi realistici avversari. Finalmente, nel 1983 è con Votoms che la filosofia trova concreta applicazione: Ryousuke Takahashi realizza la prima serie televisiva mecha unanimamente considerata Real Robot. Nascono gli Armored Trooper Votom ("Votom" è l'acronimo di "Vertical One-Man Tank for Offense and Manoveurs"), evoluzioni umanoidi dei carri armati (per quanto, nei piani degli sponsor, dovrebbero ricordare più che altro delle jeep1), alti "appena" 4 metri e monoposto, privi di propulsori che permettono di volare o spiccare ampi balzi, credibili (ovviamente nella finzione del mondo immaginario) nei meccanismi tecnologici che ne garantiscono il potenziale e soprattutto non invincibili, subito rimpiazzabili da altri nel caso vengano seriamente danneggiati in una battaglia. Insomma, armi da guerra schiette e senza fronzoli, prive di connotati eroici, divini o giustizieri, da non inquadrare in altro modo se non come mero strumento usa e getta privo di anima. Addirittura, Votoms è la prima serie robotica dove nel titolo stesso manca il riferimento a qualsiasi unità "particolare" (la "s" finale sottointende ovviamente il plurale), a testimonianza di una concezione mecha basata su modelli tutti uguali e nessun "super-prototipo" diverso dagli altri. Takahashi la sapeva evidentemente lunga quando diceva che per lui il successo di una serie robotica si misura in base al ruolo concreto dei robottoni nella storia2, che siano verosimili nel contesto nel loro mondo3.

Gli iconici Votom sono esoscheletri dal design semplice e carismatico che, in animazione, lasciano un'impressione estetica tra le più memorabili: la serie tecnicamente è tra le più impressionanti di tutti gli anni '80, surclassa ancora oggi buona parte di quelle odierne. La fluidità delle animazioni nei combattimenti tra AT è così incredibile da avere del miracoloso, fa cadere la mascella mantenendo inalterata, per tutta la durata della serie, l'idea di visionare una titolo televisivo con un budget da lungometraggio cinematografico. Nessun riciclo, nessun fotogramma o sequenza ripetuti: con i suoi robot che sfrecciano e si danno battaglia in ampi scenari futuristici, attraverso un susseguirsi di corpo a corpo, sparatorie, lanci di missili e slalom (gli AT si muovono spinti da dei pattini, con movenze che ricordano quelle di sciatori), sembrando degli autentici soldati in guerra (come appunto se li immagina il regista4) più che macchine, Votoms rappresenta uno degli apici dell'arte animata. La confezione di Sunrise è stupefacente e fa risaltare a livelli estremi la cura per il dettaglio meccanico dei mecha di Kunio Okawara (si possono vedere le singole viti e giunture anche nelle scene in movimento!).


Votoms rappresenta senza dubbio uno spettacolo tecnico assoluto, ed è proprio insolito come, a fronte di una tale meraviglia capace di esaltare qualsiasi potenziale spettatore, l'esposizione della trama abbandoni facili stilemi spettacolari per proporre, invece, un approccio ancora più distaccato che in passato ai suoi contenuti, inaugurando quello che, con questa serie, diventa il marchio di fabbrica del regista, un limite o un pregio a seconda di come la si pensi a riguardo: parlo del suo modo estremamente lento e pachidermico di raccontare la storia. Indubbiamente per Takahashi la direzione asciutta e posata, molto d'autore, e i dialoghi corposi e verosimili, già eredità di Dougram, assurgono a importante segno di distinzione; in quest'opera le due cose si fanno ancora più estremizzate, non conciliandosi minimamente con un tipo di intrattenimento popolare. Questo, per molti, potrebbe già rendere impossibile guardare la serie, già di partenza "difficile" coi suoi disegni funzionali e per nulla attraenti (probabilmente anche questa un'idea voluta per esigenze di realismo), ma appunto, anche molto, molto verbosa, dal ritmo apatico e priva di una regia emozionale. Come se questo non bastasse, per lo stesso protagonista Chirico è arduo provare simpatia o interesse, solitario, stoico e taciturno com'è (nonostante la sua sia comunque un'eccellente caratterizzazione). L'importanza dell'opera è palese, eppure è proprio questo suo estremo realismo - che la rende, paradossalmente, così bella e iconica - a rappresentare un deterrente alla visione per molti, quell'elemento capace di distruggere alla radice la filosofia su cui si è sempre improntato il genere robotico, spogliandolo di ogni residua connotazione epica o eroica, da ogni senso di meraviglia. Con Votoms e lavori successivi, infatti, Ryousuke Takahashi si guadagna l'appellativo di "sovrano del Robot Realistico" in primis per l'assenza di altri contendenti, l'unico regista a seguire un trend votato simbolicamente alla de-sacralizzazione di un genere, che, per essere coinvolgente, necessita per forza di qualche iniezione di spettacolo, di uno stile registico non proprio di tipo documentaristico.

Sicuramente, Votoms ha delle carte fortissime da giocare e per cui merita pienamente la visione: oltre la cura tecnica eccezionale (davvero impossibile farsene un'idea senza aver visto almeno il primo episodio), la sua storia, adulta, oscura e ossessiva, è davvero memorabile, coniugando in modo impeccabile avanzatissimi scenari hi-tech à la Blade Runner (1982) con tematiche di war drama e addirittura misticismo (impossibili da anticipare), facendosi al contempo portavoce di mature riflessioni su problematiche universali come la solitudine e le ferite psicologiche provate dai reduci di guerra come Chirico ("in Votoms volevo rappresentare il dramma di un individuo e i robot come semplici strumenti"5). La lunga odissea solitaria dell'eroe in giro per pianeti dell'universo, alla ricerca di indizi sul Soldato Perfetto, sull'entità che governa l'Organizzazione Segreta, e su Fyana, il super-soldato di cui è innamorato, è davvero epica nel tratteggiare il cammino di un piccolo uomo che, per trovare le sue risposte, non esista a rischiare ripetutamente la vita imbarcandosi in avventure ed esplorazioni durante eventi immaginari di grande portata storica in quell'universo narrativo, costretto a dare il suo personale contribuito (volontario o meno) in guerre civili locali, battaglie urbane tra bikers dentro cupe metropoli sotterranee, lotte clandestine fra AT (fortemente ispirate dal film L'ultimo buscadero di Sam Peckinpah, 1972, da cui Takahashi partorisce l'idea di armi da guerra usate nei conflitti del passato riutilizzate, nei momenti di pace, in campi di battaglia diversi6), scontri con culti religiosi del deserto... Non c'è limite alla fantasiosa varietà di situazioni create dagli sceneggiatori a danno dell'eroe, ottimamente rappresentata dalle ambientazioni diversissime fra loro e molto suggestive che fanno da sfondo agli avvenimenti della storia, racchiusa in quattro archi narrativi (idea venuta al regista in base alla precisa richiesta dello sponsor Takara di dare più enfasi all'impatto visivo, rispetto alle ambientazioni perennemente desertiche e montuose di Dougram7). Bello anche apprendere che è stato Tomino a consigliare a Takahashi di sviluppare il tema dell' "odissea dell'uomo solitario", quando il secondo non aveva idea se usare questo o fare di Votoms un banale remake di Gundam con gli AT8. L'ottima cura figurativa negli scenari della storia regala, quindi, svariate delle più evocative battaglie mai viste in animazione, in cui rivivono, reinterpretati con robot, scorci delle più belle pellicole di guerra (bellissimo l'arco narrativo ambientato nella giungla di Kummen, dove mercenari e guerriglieri si danno battaglia in acquitrini, torrenti e montagne ricreanti alla perfezione gli ambienti e le atmosfere del conflitto in Vietnam a cui il regista è ispirato, o anche una certa battaglia su architetture di un lontano passato sospese nel vuoto).

In aggiunta a questo, il background politico, militare e religioso è, come ai tempi di Dougram, molto curato, e azzeccati colpi di scena, un intenso impianto drammatico e un finale molto poetico simboleggiano in modo definitivo la grande bontà del soggetto. Bisogna perciò prepararsi ad accettare, per godersi tutto questo, un lentissimo ritmo narrativo che più di una volta pesa come un macigno, un esorbitante numero di episodi riempitivi e un numero sinceramente eccessivo di puntate: alla luce di questo, chi legge capirà perché Votoms, all'epoca, non fu affatto un successo di share (la serie, col suo misero 3.96%9,  è salvata dall'interruzione grazie alle immancabili, eccellenti vendite di modellini10 sviluppati da Takara), e che, anche visto oggi, potrebbe non essere la visione più facile del mondo nonostante le sue innegabili qualità.


Creatore di un nuovo, vasto universo narrativo grazie ai successivi, numerosi OVA che ampliano la storia, il cult di Ryousuke Takahashi si merita ampiamente la sua bella notorietà e rappresenta un potenziale capolavoro per gli amanti del genere, ma non c'è da stupirsi se qualcuno lo abbandonerà, se più di qualcuno non si sentirà coinvolto dalla storia quanto con altri robotici d'autore di quegli anni: da Votoms in poi, buona parte dei lavori di Ryousuke Takahashi non sarà più usufruibile da tutti.

Voto: 8 su 10

PREQUEL
Armored Trooper Votoms: Red Shoulder Document - Roots of Ambition (1988; OVA)
Armored Trooper Votoms: Pailsen Files (2007-2008; serie OVA)
Armored Trooper Votoms Pailsen Files: The Movie (2009; film)
Armor Hunter Mellowlink (1988-1989; serie OVA)

SIDE-STORY
Armored Trooper Votoms: The Unknown "Red Shoulder" (1985; OVA)
Armored Trooper Votoms: Battle of the Heterogeneous Species (1986; OVA)
Armored Trooper Votoms: Case; Irvine (2010; OVA)

SEQUEL
Armored Trooper Votoms: The Heretic Saint (1994; serie OVA)
Armored Trooper Votoms: Alone, again (2011; OVA)
Armored Trooper Votoms: Phantom Arc (2010; serie OVA)


FONTI
1 Parti salienti di un'autobiografia di Kunio Okawara, tradotti su 4chan alla pagina https://desuarchive.org/m/thread/14468515/#14469981
2 Intervista a Ryousuke Takahashi pubblicata in "Anime Interviews: The First Five Years of Animerica Anime & Manga Monthly (1992-97)" (Cadence Books, 1997, pag. 165)
3 Come sopra
4 Volume 2 di "Record of the Venus Wars", "The Day the Earth Stood Still", Magic Press, 2009
5 Vedere punto 2, a pag. 167
6 Vedere punto 2, a pag. 165-166
7 Intervista/discussione con Takahashi, pubblicata nella pagina web http://www.forbes.com/sites/olliebarder/2016/09/06/ryosuke-takahashi-on-directing-anime-and-how-his-works-have-defined-mecha-for-over-three-decades/#556598907c73
8 Come sopra
9 Pagina web, http://peace.2ch.net/test/read.cgi/shar/1387554536/
10 Pagina web, http://www.pelleas.net/aniTOP/index.php/votoms

giovedì 11 marzo 2010

Recensione: Il castello errante di Howl

IL CASTELLO ERRANTE DI HOWL
Titolo originale: Howl no Ugoku Shiro
Regia: Hayao Miyazaki
Soggetto: (basato sul romanzo originale di Diana Wynne Jones)
Sceneggiatura: Hayao Miyazaki
Character Design: Akihiko Yamashita
Musiche: Joe Hisaishi
Studio: Studio Ghibli
Formato: lungometraggio cinematografico (durata 119 min. circa)
Anno di uscita: 2004
Disponibilità: edizione italiana in DVD & Blu-ray a cura di Lucky Red



In un lontano luogo, dove convivono architetture europee di fine Ottocento e straripanti innovazioni magiche e tecnologiche e in cui infuria una spaventosa guerra senza fine tra due regni, il potente mago-seduttore Howl viaggia di villaggio in villaggio a bordo del suo castello meccanico e semovente. Sophie Hatter, una graziosa ragazzina che lavora come sarta nella città di Kingsbury, lo incontra per caso, innamorandosi subito di lui. Purtroppo per lei, poche ore dopo conosce anche la vanitosa Strega delle Lande, anch'ella innamorata di lui, che la trasforma in un’anziana zoppicante. Con questo nuovo aspetto, Sophie scappa dalla città e trova rifugio, fortuitamente, proprio nel castello errante, dove è assunta come domestica. Starà così vicino a Howl, cercando di scoprire il lagame segreto che lo unisce al demone Calcifer, "fuoco domestico" che funge anche da motore al castello. Solo così potrà tornare ragazza...

Penso che definire "fallimento artistico" il lungometraggio miyazakiano del 2004, Il castello errante di Howl, sarebbe un giudizio ingeneroso ma al contempo, a suo modo, non tanto falso, anzi addirittura riduttivo per più di un verso: non è un brutto film e anzi, reca in sé notevoli qualità, questo nonostante si riveli mediocre nelle sue ambizioni narrative. In particolar modo, però, ci ricorderemo di Howl per un'altra motivazione, a mio parere ben più importante: simbolicamente e nefastamente sarà l'amaro tassello finale della triste ricerca di un "erede" di Hayao Miyazaki da parte di Studio Ghibli; la spettacolare, sciagurata perdita del secondo e ultimo grande regista (dopo Yoshifumi Kondo) che di certo non lo avrebbe fatto rimpiangere se avesse continuato la sua collaborazione con la factory mizayakiana. Miyazaki infatti scrive la sceneggiatura del film ma decide inizialmente di ritirarsi definitivamente dalla regia (è già la seconda volta dopo Principessa Mononoke), dedicandosi alla sola supervisione del prodotto e affidando la direzione a un professionista esterno proveniente da Toei Animation. Costui, con entusiasmo, raccoglie la sfida e disegna da solo ben 3/4 dello storyboard. Peccato che, per motivazioni che attualmente non mi risultano chiarite, lo staff delegato alla realizzazione della pellicola non sarà d'accordo con la sua visione e si ingegnerà a isolarlo e metterlo in minoranza, facendolo quindi estromettere dalla produzione e poi dallo studio1. Il nome di quella persona? Mamoru Hosoda, e sappiamo tutti che strada gloriosa percorrerà poi in casa Mad House. Sarebbe interessantissimo vedere cosa avrebbe avuto da dire sull'argomento: purtroppo ci si deve accontentare di Miyazaki che riprende le redini del progetto e realizza un titolo a suo modo strabiliante, visionario e creativo come e forse anche più dei tempi d'oro, ma dallo script davvero tutt'altro che esemplare o riuscito. Incassi favolosi (con 20 miliardi di yen in patria e 200 milioni di dollari nel mondo a fronte di 2 miliardi di yen di costi2, le cifre non sono eccessivamente distanti da quelle de La città incantata) e alcuni altisonanti premi di critica (Japan Media Arts Festival e Tokyo International Anime Fair, senza dimenticare un Leone d'oro alla carriera alla 62esima Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia3), ma a mio parere in questo momento siamo entrati in pieno periodo di "sudditanza psicologica" di critica e pubblico al regista e, alla luce di questo, certi traguardi, pur notevoli, si può prenderli meno seriamente di quello che sono - giusto ricordare, comunque, che almeno in patria ci saranno voci discordi sul valore della pellicola, dato che arriva al quarto posto nella graduatoria del Bunshun Kiichigosho, l'equivalente nipponico dei Razzie Awards4.

L'omonimo romanzo fantasy dell'autrice inglese Diana Wynne Jones, leggero, divertente e spensierato, pubblicato nel 1986 ma arrivato in Giappone solo nel 2000 e in quell'anno letto da Miyazaki5 (da lui perciò proposto come 13esimo Ghibli cinematografico), è, sotto le sue mani, reinterpretato radicalmente: l'autore se ne discosta quasi del tutto per riempirlo di suggestioni personali, inedite atmosfere cupe e risvolti narrativi assenti in origine. Elimina dall'intreccio un gran numero di sottotrame e personaggi, cambia i ruoli di quelli rimasti e rende centrale nella vicenda la guerra, appena suggerita su carta e principale motore di sviluppo della trama nel film. Modifica a tale punto lo scritto d'origine da farne una sorta (come è stata definita dai lettori) di fan fiction, improntata su un'epica storia d'amore che si sviluppa sotto le esplosioni e sulle conseguenze di morte e distruzione portate dal conflitto. Sono temi entrambi pesantemente influenzati dall'invasione americana dell'Iraq6 e dal disgusto dell'autore per un celebre, imbarazzante discorso di George W. Bush ("ogni nazione, in ogni regione del mondo, deve ora prendere una decisione. O siete con noi, o con i terroristi")7, già a loro modo "profetizzati" dalla mancata presenza di Miyazaki alla consegna dell'Oscar per La città incantata, come gesto di protesta verso la bellicosa politica estera medio-orientale degli USA8.


Snaturamenti a parte, si può ben dire che per larga parte della sua durata Howl non è solo l'opera più sognante di Miyazaki, ma anche uno splendido film. Zeppo di lunghi, infiniti momenti onirici che trasformano in immagini tanto strabilianti quanto inafferrabili numerose parentesi di rara poesia fiabesca, il lungometraggio è infatti, prima di tutto, un fantastico caleidoscopio di colori e disegni che frantumano ogni ostacolo d’animazione. Basta un primo, fugace incontro con i movimenti bizzarri del castello errante, un titanico macchinario, dalle vaghe sembianze facciali (occhi, bocca, lingua, orecchie), costituito confusamente da rotelle, ingranaggi, congegni a vapore, abitazioni e zampe, per lasciarsi meravigliare da un’inventiva visiva memorabile e stupefacente, tanto in questa spettacolare struttura semovente (uno dei due enormi motivi di fascino del romanzo, per il regista, dove l'altro è dato dalla trasformazione di Sophie in una novantenne9), quanto nell'affacinante e ottocentesca città di Kingsbury (basata sulle architetture delle città francesi di Colmar e Riquewihr e le loro distese rurali, che Miyazaki visiterà personalmente10) e quanto nel fantasioso immaginario steampunk (enormi navi volanti da guerra, tecnologie, etc.) ispirato dai disegni dell'illustratore/romanziere Albert Robida11. È decisamente nella continua stimolazione visiva a base di strutture magiche e diabolici incantesimi, che Howl trova il suo primario punto di forza e Miyazaki rinviene quella narrazione "magica" per me assente ne La città incantata: porte del castello che conducono in varie dimensioni, trasformazioni corporee di Howl, informità tortuose e attorciglianti, trovate fantasiose magari anche semplici, ma che, nell’economia generale del lungometraggio, acquisiscono carattere creativo, gustoso e accattivante... Viaggiamo negli astratti, irresistibili territori del puro sense of wonder, in cui fantasia e magnificenza di animazione si fondono in uno spaventoso impatto estetico ed emotivo che non lascia tregua.

Non che siano comunque da disprezzare i personaggi, molto ben caratterizzati e i cui ruoli comunicano benissimo (almeno questi) i principali messaggi che il regista vuole dare: abbiamo questa tenera, adorabile vecchietta, Sophie, le cui coinvolgenti vitalità e bontà ci ricordano come la bellezza di una persona trascenda l'età, ed è la sua brillante forza a far maturare il vanitoso Howl (capace di andare in crisi esistenziale per aver perso la tinta bionda dei capelli) e una Strega delle Lande disposta a rinunciare a un corpo sano pur di non invecchiare. Importante anche la crudele e ripugnante Madame Suliman, consigliera del re e principale fautrice (dietro le quinte) della guerra per questioni meramente sadiche, la cui figura serve, nelle intenzioni del regista, a mostrare come anche nella vita reale spesso e volentieri queste carneficine siano dovute all'ego arbitrario o capriccioso di pochi potenti12. Miyazaki crede molto in Howl e dirà in tempi recenti (2013, alla 70esima Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia13) che è addirittura il film preferito tra quelli che ha diretto. Se lo straordinario reparto grafico, naturalmente, come da tradizione garantita dallo Studio Ghibli, non presenta il minimo neo, così come il cast, non si può dire la stessa cosa di un intreccio narrativo che, nonostante lo studio su personaggi, eventi e significati, e nonostante una partenza e una parte centrale magistrali, narrati con sentita semplicità, dialoghi ironici, sognanti tracce musicali e atmosfere rilassanti che contibuiscono a liberare la fantasia, a lungo andare accumula un numero sempre maggiore di lacune, vuoti schematici che non possono essere riempiti soltanto dai disegni e che strangolano la pellicola in una sensazione di smarrimento e caos che culminano in una parte finale così brusca, confusa e a tratti incomprensibile da stordire per l’arresto ritmico improvviso.

Si è buttati, a un certo punto della storia, in una confusa vicenda bellica che prende spunto dalle armi per raccontare passati di personaggi, maledizioni mai accennate prima, patti demoniaci e un marasma di avvenimenti e colpi di scena che sembrano avvenire senza un perché, e Howl si ingessa in dialoghi non molto convincenti (criptici, dozzinali e talvolta anche qualunquisti) e comportamenti inspiegabili e mentalmente sfuggenti che si avvinghiano attorno a una certa confusione complessiva che si fatica a schiarire, rendendo difficile la comprensione se non affidandosi alla fantasia. Non tutto torna, alcune domande restano volutamente o meno prive di risposta (ancora in contrapposizione al romanzo) e la curiosità si ritrova così insoddisfatta per via delle tante vicende che accadono senza un preciso motivo, come se il regista desse per scontato che lo spettatore conosca bene come lui il romanzo.


Howl può quindi essere considerato da un lato come il film in cui Miyazaki mostra il più alto livello raggiunto da quella fastosità poeticamente visiva che l’ha reso noto in tutto il mondo, mentre dall’altro come uno dei suoi lavori peggio scritti, involuto e caotico. Rimarrà comunque principalmente alla memoria come una portentosa festa per occhi e spirito a cui molti giustamente prenderanno parte e penso che questo merito, abbastanza oggettivo, sia comunque un vanto che non molti kolossal d'animazione possono rivendicare.

In Italia, Howl esce nelle sale nel settembre 2005. È il primo film Ghibli a essere distribuito da Lucky Red (quelli precedenti erano infatti a cura di Buena Vista) e sarà ricordato come la storica collaborazione di essa con il dialoghista/direttore del doppiaggio Gualtiero Cannarsi, prima di una lunga serie destinata a toccare la produzione ghibliana nella sua totalità. Cannarsi sarà ricordato, amato e anche criticato per la scelta (a parere di chi scrive, semplicemente sacrosanta) di far recitare i doppiatori con un rispetto e una fedeltà assoluta all'originale, tanto nelle voci, quanto nell'interpretazione, quanto nella loro traduzione (nessun rimaneggiamento delle linee di dialogo, insomma), al costo dell'uso di un italiano un po' innaturale e di costruzioni verbali anche desuete pur di rendere in modo fedele la ricca fraseologia nipponica. Unica critica che mi sento di fare alle successive edizioni in DVD e Blu-ray del film? La locandina, davvero inguardabile (specie se rapportata alle ben più note giapponesi, splendide).

(scritto da Simone Corà e Jacopo Mistè)

Voto del Corà: 6,5 su 10
Voto del Mistè: 7 su 10


FONTI
1 L'intero retroscena proviene dalla "fusione" delle informazioni contenute nel saggio "Storia dell'animazione giapponese" (Guido Tavassi, Tunuè, 2012, pag. 416) e l'articolo "È lui o non è lui? Certo che è lui!" pubblicato sul sito Yamato Video alla pagina http://www.yamatovideo.com/news_int.asp?idEntita=559&evidenzia=Hosoda. La notizia del secondo "ritiro" di Miyazaki viene dalla pagina web http://www.nausicaa.net/miyazaki/ghibli/ghibli101.html#retirement
2 "Storia dell'animazione giapponese", pag. 417-418
3 Come sopra, a pag. 419
4 Vedere punto 2, a pag. 417
5 Vedere punto 2, a pag. 416
6 Sito Internet, "Electronic Journal of Contemporany Japanese Studies", specializzato nella pubblicazione di ricerche accademiche di tutto il mondo a tema di società, arte e cultura giapponese. Alla pagina http://www.japanesestudies.org.uk/ejcjs/vol14/iss2/akimoto.html è presente un dettagliato articolo (firmato da Daisuke Akimoto) del rapporto tra "Il castello errante di Howl" e la guerra in Iraq, ricco di riferimenti e citazioni a interviste e articoli  giapponesi
7 Come sopra
8 Miyazaki lo riferisce al quotidiano Times in un'intervista concessa al Comic-Con del 2009. L'intervento è pubblicato sul sito Hero Complex alla pagina http://herocomplex.latimes.com/animation/comiccon-miyazaki-breaks-his-boycott-of-us/
9 Vedere punto 2, a pag. 416
10 Dani Cavallaro, "The Animé Art of Hayao Miyazaki", McFarland, 2006, pag. 167
11 Vedere punto 2, a pag. 417
12 Dani Cavallaro, "Hayao Miyazaki's World Picture", McFarland, 2015, pag. 8
13 Come sopra, a pag. 171-172

lunedì 8 marzo 2010

Recensione: The Wings of Rean

THE WINGS OF REAN
Titolo originale: Rean no Tsubasa
Regia: Yoshiyuki Tomino
Soggetto: Yoshiyuki Tomino (basato sui suoi romanzi originali)
Sceneggiatura: Jiro Takayama, Yoshiyuki Tomino
Character Design: Masashi Kudo
Mechanical Design: Takumi Sakura, Tamotsu Shinohara
Musiche: Yasuo Higuchi
Studio: Sunrise
Formato: serie ONA di 6 episodi (durata ep. 24 min. circa)
Anni di trasmissione: 2005 - 2006


Yoshiyuki Tomino è un folle. Dai tempi di Space Runaway Ideon (1980), chi lo conosce sa benissimo che dialoghi asciutti e realistici, disseminati di parole-chiave fondamentali per decifrare impressionanti background fantascientifici e/o situazioni (tutto da ricavare implicitamente!), e il rifiuto quasi religioso di uno stile di racconto coinvolgente ed emotivo che accompagni lo spettatore a empatizzare coi personaggi, sono la filosofia su cui si regge quasi tutta "l'animegrafia" del regista dopo Mobile Suit Gundam (1979). Tutto questo già è stato detto nelle recensioni di Brain Powerd (1998) e Overman King Gainer (2002), serie TV davvero molto rappresentative di suddette caratteristiche. Tomino proseguirà con questa "poetica" portandola, nel 2014, fino alle più estreme conseguenze con lo "scioccante" Gundam: Reconguista in G, ma non bisogna dimenticare che un esempio davvero illustre, mai così vicino a quell'anime post-postmoderno, l'autore era riuscito a tirarlo fuori già nel 2005, in una miniserie di 6 episodi vista da pochi, dimenticata da tutti e passata internazionalmente in sordina (in Giappone invece deve aver avuto un buon successo, se ha vinto nel 2006 il premio di miglior video al Kobe Animation1 e se tempo dopo ne è addirittura uscito un fanbook). Parlo di The Wings of Rean, produzione web (ONA, Original Net Animation) di Bandai Visual con cui Tomino, tra un film di Mobile Suit Z Gundam A New Translation e l'altro, tornava a raccontare storie basate sulla sua saga letteraria fantasy I racconti di Byston Well, iniziata nel 1983 e da cui erano stati tratti Aura Battler Dunbine (id.) e gli orripilanti The Tale of Neo Byston Well (1988) e Garzey's Wing (1996).

Nel 2005, Tomino ci riprova, e con sole 6 puntate concesse dal produttore, dirige un indimenticabile monumento all'austerità narrativa e al disprezzo totale verso lo spettatore medio, che ben riflettte il suo dichiarato disinteresse per il progetto2, lui che ama l'originalità ed è designato dai piani alti a trasporre un suo romanzo scritto anni prima: The Wings of Rean si incarica in così poco spazio di trasporre interamente, al prezzo di tagli mostruosi, l'intero ciclo narrativo I racconti di Byston Well - Le ali di Rean3, i 6 romanzi che rappresentano la quarta parte della saga letteraria. Evidentemente, pur di non consegnare al pubblico una storia raccontata meglio ma incompleta, l'autore preferisce comprimere una mole mostruosa di pagine in poco più di due ore totali di girato, riuscendo in extremis a filmare l'agognata conclusione. Arrivare, però, a essa non sarà proprio la cosa più facile del mondo, sia per un pubblico non avvezzo allo stile di racconto del regista sia per quello che ben lo conosce. Quasi non c'è da stupirsi che, ad oggi, il titolo rappresenti l'ultima produzione animata ambientata nel mondo di Byston Well.


The Wings of Rean gronda informazioni da ogni dialogo, scambio di battute, scena. Ogni episodio si compone di un gran numero di avvenimenti che si susseguono uno dopo l'altro con ritmo indiavolato, lasciando a importanti frasette gli esili indizi per dare una caratterizzazione al cast (immancabilmente enorme, come di consueto per Tomino), al background e alla moltitudine di temi accennati ma non trattati (evidentemente hanno uno spazio maggiore nei romanzi, ma era impossibile soffermarcisi). L'occupazione militare americana del Giappone, la globalizzazione che ha distrutto l'identità della penisola, gli episodi di razzismo di cui è stato vittima l'eroe della vicenda, il burrascoso rapporto tra quest'ultimo e suo padre (comandante dei marines), la corruzione del precedente Sacro Guerriero di Byston Well che da eroe è diventato un monarca vendicativo, gli immancabili scontri generazionali tominiani... Sono fin troppi gli spunti riversati nella trama che tentano di arricchirla, ma sono appena percepibili (citati in un dialogo e mai più ripresi) nell'esile minutaggio a loro disposizione, dato che tutto il tempo è usato per narrare una storia già di suo altrettanto compressa all'inverosimile.

Abbiamo il giovane mezzosangue nippo-americano Aesap Suzuki che cerca di fermare i suoi amici che, nel porto di Yokohama, inscenano un violenta protesta attaccando con un bazooka una base statunitense. Poi, dal fondo del mare emergono, trasportate fin lì dal magico potere delle Ali di Rean posseduto dal ragazzo (il consueto Sacro Guerriero), svariate navi da guerra, che fanno proseguire sulla Terra una guerra civile scoppiata a Byston Well, nel regno di Hojo. Aesap si unisce alla fazione dei ribelli guidata dalla principessa Luxe Sakomizu, figlia del regnante Shinjiro Sakomizu, che affronta suo padre per fermare le sue ambizioni guerrafondaie. Poi, gli amici di Aesap si schierano invece con gli imperiali, per sfruttare i loro potenti Aura Battler come arma personale per fare la guerra agli americani, poi alcune fazioni iniziano ad allearsi con altre degli eserciti terrestri per chissà quali finalità, poi scopriamo che il re di Hojo è un giapponese ed è stato pure il precedente Sacro Guerriero di Byston Well, diventato malvagio per effetto della sua sete di vendetta verso Zio Sam (durante la Seconda Guerra Mondiale era un kamikaze, ma non riuscì a fare il suo dovere e assistette impotente allo scoppio delle due Atomiche), ed è perché è diventato cattivo che non può più usare le Ali di Rean da lui possedute in passato, poi scopriamo che in verità il sovrano è stato plagiato dalla seconda moglie approfittatrice, poi scopriamo che lei ha pure altri piani misteriosi ancora, poi le navi tornano a Byston Well, poi ritornano ancora sulla Terra, e poi continuano le battaglie, e poi Aesap passa da uno schieramento all'altro, e poi i viaggi nel tempo, e poi le ferario che governano l'eco-sistema di Byston Well prendono parte alle ostilità, e poi un tentativo di colpo di stato sulla Terra, e poi la minaccia atomica... Mi fermo qui perché ritengo possa bastare a dare una sommaria idea di quanto sia infarcito il piatto, affrontato sciaguratamente (come dichiara4 il regista, ammettendo anche di essere stato influenzato dei film di Z Gundam che realizzava in contemporanea) con tempi cinematografici piuttosto che con quelli televisivi che più si sarebbero adattati a una così complessa vicenda. Lo scoglio più duro sono i 2 episodi iniziali in cui succede davvero DI TUTTO, a livello tale da generare piccoli shock mentali: solo dopo la storia inizia a scorrere con un filo più di leggerezza, pur senza farsi mancare mai una densità di contenuti da potenziale mal di testa per chi non riesce fin da subito a cogliere i fatti e gli avvenimenti principali, riuscendo almeno a farsi un disegno mentale dei due schieramenti e delle loro motivazioni.

Nessuna speranza di flashback che ricordino dialoghi cruciali, di una voce narrante che riepiloghi scrupolosamente la storia, o di momenti di calma che permettano di dare colore ai personaggi: tutto vola - letteralmente - senza una pausa, Tomino se ne infischia di qualunque attrattiva commerciale del titolo, gli basta dare i messaggi che gli interessano e per questo va per la sua strada, dirigendo un'opera che probabilmente saprà apprezzare solo lui. Se ancora non bastasse tutto questo, come ai tempi di ∀ Gundam Called Turn "A" Gundam (1999) opta per un chara design glabro, essenziale e minimalista che di più si muore, quasi inguardabile, che rende ancora più pesanti due ore di dialoghi fittissimi di terminologie tecniche, personaggi aridi come deserto e musiche che non dicono nulla. Chiaro che con queste premesse non ce n'è quasi per nessuno e poco importano le ottime animazioni e l'eccellente connubio tra CG e 2D negli Aura Battler e nei macchinari (caratterizzati da uno strabiliante livello di dettagli) se diventa così arduo riuscire a seguire una trama così fredda e al contempo articolata.


Solo i fan più religiosi del regista riusciranno a guardare fino in fondo l'opera e ad apprezzare i meriti della trama, adulta e poetica nel complesso, seppur del tutto priva di emozioni ed empatia. È un tipico lavoro di cui si stima il soggetto nudo e crudo più che l'effettiva sceneggiatura, capendo fin da subito l'impossibilità di Tomino di rendere coinvolgente un intreccio così disumano, come minimo degno di una serie TV da 13 o 26 episodi. Ritengo che, a meno di non essere mentalmente proprio negati, si possa riuscire senza problemi a seguire la storia e a capirla facendo combaciare quasi tutto: basta essere pronti a immolare, sull'altare delle visioni d'autore, 120 minuti di disegni ignobili e dialoghi pesanti, ben prevedendo una visione a cervello attivo che non può permettersi un secondo di distrazione. Tutto sommato, però, questo è un prezzo da pagare forse eccessivo per una produzione tutt'altro che memorabile.

Voto: 6 su 10


FONTI
1 Guido Tavassi, "Storia dell'animazione giapponese", Tunuè, 2012, pag. 420
2 Intervista a Yoshiyuki Tomino proveniente dal secondo DVD americano di "The Wings of Rean", trascritta su 4chan alla pagina http://boards.4chan.org/m/thread/14446408/the-wings-of-rean-tomino-interview-part-2
3 Consulenza di Garion-Oh (Cristian Giorgi, traduttore GP Publishing/J-Pop/Magic Press e articolista Dynit)
4 Vedere punto 2

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