lunedì 27 gennaio 2014

Recensione: Kemonozume

KEMONOZUME
Titolo originale: Kemonozume
Regia: Masaaki Yuasa
Soggetto & sceneggiatura: Masaaki Yuasa
Character Design: Nobutake Ito
Musiche: Kei Wakakusa
Studio: Mad House
Formato: serie televisiva di 13 episodi (durata ep. 24 min. circa)
Anno di trasmissione: 2006


Personaggio tra i più eclettici nel mondo dell’animazione, artista in senso totale data la grande personalità tanto nella scrittura quanto nella regia, l’originalità di Masaaki Yuasa spicca soprattutto nel disegno, strambo e sregolato, schizzoide e bozzato, uno stile così poco giapponese, nel suo idealizzarsi in un occidentalismo tipico di certa fumettistica, da trovare in animazione uno spazio esemplare tutto suo, in cui già da solo farebbe scuola (piacendo o meno, ovviamente) se non fosse per la preziosità e la grottesca profondità concettuale con le quali nelle sue opere trova ideale compimento.

Tra i suoi lavori meno conosciuti, nonché prima regia televisiva vera e propria dopo la solita gavetta e l’esordio cinematografico con Mind Game (2004), nel 2006 Kemonozume mostra tutti gli aspetti prediletti del papà di The Tatami Galaxy (2010), che, nonostante l’importanza dell’elemento horror e ciò che ne consegue a livello visivo (il bestiario di creature dentate, l’alto tasso di splatter, ma anche l’insistita presenza di sequenze erotiche), emergono vigorosamente attraverso un’attenzione ai personaggi e un dettaglio nei dialoghi magistralmente curati: non è questione di ciò di cui tratta, ma di come lo tratta, e i forti, complessi dubbi che vivono i suoi protagonisti permettono la creazione di figure credibili, in preda a preoccupazioni umane nonostante uno sfondo tipico da action-horror di serie B, con intelligenti riflessioni sull’amore e sulla solitudine. Tutti elementi, questi, che paradossalmente risaltano nonostante il continuo sperimentalismo di Yuasa, tanto visivo nei disegni deliranti e nelle scelte cromatiche quanto narrativo nelle continue intromissioni non-sense (la scimmia, il gigante) e nei grotteschi siparietti ironici (su tutti forse il momento in cui Yuka paralizza Toshihiko), che altro non rappresentano che il lato più spiazzante e umano della realtà.

C’è quindi molto substrato, molto concetto che affiora grazie a un sopraffino lavoro di scrittura – difficile infatti amalgamare tante forme così distanti, ma basterebbe anche soltanto vedere la splendida gestione di uno spunto iniziale di sciocca prevedibilità per capire quanto interessante e quanto dettagliata sia la visione di Yuasa. Nel raccontare una sorta di travagliata versione di un Romeo e Giulietta in cui lui è un cacciatore di mostri e lei si trasforma in una bestiale divoratrice di carne umana quando si eccita sessualmente, Yuasa non solo definisce personaggi assai singolari sia nei principali (tanto Toshihiko è confuso, indeciso e perso quanto Yuka è solare, sbarazzina e felicemente ma non stupidamente superficiale) sia, forse ancora di più, nei secondari (la bella e grintosa Rie innamorata di Toshihiko, il fratello Kazuma, tanto deciso quanto grossolano e un po’ scemo, il triste Umeda, protagonista di un intero, bellissimo episodio che racconta del suo amore per una prostituta), ma crea un contesto/background di inaspettato spessore: da una parte il dojo Kifuuken, che addestra i più valorosi cacciatori di mostri, viene mostrato attraverso le tante regole che lo strutturano e le modifiche organizzative imposte dal naturale avvicendarsi generazionale e/o dalle scalate al potere, dall’altra gli Shokunjiki, o Flesh Eaters, creature brutali e mostruose che da sempre hanno vissuto nell’ombra accanto agli umani di cui si cibano, vengono presentati con la stessa precisione corale, sottolineando le difficoltà nel gestire la parte umana con quella mostruosa e la dinamica politica con cui coesistono e sopravvivono.  

 

Il taglio registico ne è naturale integrazione: Yuasa mostra molto e racconta poco, a dimostrarlo basterebbe la grazia con cui è impostato l’episodio flashback sull’infanzia di Toshihiko, e inventa continuamente attraverso splendide intuizioni (il dialogo iniziale, la componente comica, ma anche le molte scene d’azione, visualizzate con ingegno e personalità) che rendono una storia, in fondo semplice e lineare, in realtà ricchissima e colma di meraviglia, dove ogni inquadratura viene pensata e calibrata per ottenere il massimo da un punto di vista puramente estetico ma anche di raffinata narrazione (quando Toshihiko si innamora di Yuka, lo zoom su Rie all’interno della giostra). Delude soltanto, ma è puro parere personale, una OST jazzata che ho trovato non sempre adatta e talvolta fuoriposto nelle sue sassofonate fumose e nere.

Kemonozume è sicuramente un’opera difficile, che potrebbe allontanare per il suo aspetto visivo stralunato e ben lontano dagli standard tipici, sicuramente non bello ma piacevolmente eccentrico, ma è l’ideale per chi cerca una storia matura e brillante che trae la propria forza anche dai mille sperimentalismi.

Voto: 8,5 su 10

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