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lunedì 13 luglio 2015

Recensione: Knights of Sidonia - Battle for Planet Nine

KNIGHTS OF SIDONIA: BATTLE FOR PLANET NINE
Titolo originale: Sidonia no Kishi - Dai-kyū Wakusei Seneki
Regia: Hiroyuki Seshita
Soggetto: (basato sul fumetto originale di Tsutomu Nihei)
Sceneggiatura: Sadayuki Murai
Character Design: Yuki Moriyama
Musiche: Noriyuki Asakura
Studio: POLYGON PICTURES
Formato: serie televisiva di 12 episodi (durata ep. 24 min. circa)
Anno di trasmissione: 2015


Era lecito temere molti fattori, in fondo erano altissime le probabilità che la trasposizione di Knights of Sidonia (2009) affondasse a causa di un male a caso che solitamente affligge qualsiasi trasposizione animata di una manga ancora in corso, ma che fosse proprio la sceneggiatura a distruggere quanto di buono era stato costruito nella prima stagione del 2014 era cosa abbastanza imprevedibile: solo si fosse potuto scommettere su un elemento che avrebbe resistito alle pressioni e ai delicati equilibri tra qualità e istruzioni produttive, la penna di Sadayuki Murai sarebbe stata indiscussa gemma e garanzia di sicurezza di un’opera già di suo di grande fascino, in grado di coniugare fantascienza robotica e horror come raramente si è visto in animazione. Eppure, sono proprio le enormi mazzate narrative a frantumare di episodio in episodio quel godibilissimo meccanismo fatto di battaglie tra giganti robotici e alieni lovecraftiani, avvicinando quindi la versione animata a certa pochezza dialogica e psicologica di cui già soffiva la versione cartacea.

È un notevole punto interrogativo che pesa disgraziatamente su tutto quanto, Murai preferisce spingere sulla direzione harem e slice of life, argomenti che in precedenza erano stati solo accennati o sfruttati intelligentemente per giustificare certe peculiarità dello scenario apocalittico creato da Tsutomu Nihei, abbandona quasi interamente i combattimenti spaziali relegandoli a poche parentesi di inutile e sbrigativa fattura per concentrarsi sulla noiosa vita di tutti i giorni di un personaggio come Tanikaze Nagate, che già in partenza appariva zoppo e poco interessante nella spiccia caratterizzazione sfigata attribuitagli. Poteva essere un’intrusione o un diverso insolito e dal grande potenziale, si potevano sviscerare le difficoltà giornaliere di una vita vissuta con una costante minaccia annichilente, ma gli standard narrativi su cui poggia le quotidianità del protagonista sono scarsi e ripetitivi, basati esclusivamente su un triangolo (o meglio, un rettangolo) amoroso i cui vertici rimangono costantemente fissi e immutabili, rendendo di fatto nulle e dall’importanza prossima alla zero tutte le puntate dedicate a lui, Izana, Yuata e l’ibrido Tsumugi.

Le atmosfere opprimenti e disperate della stagione uno vengono quindi sostituite da una solarità sciocca e bambinesca fatta di gag che non fanno ridere, malintesi che non producono imbarazzo, atteggiamenti provocatori che generano solo fastidioso fanservice, e in generale tutto viene appiattito da una mancanza di idee anche nella costruzione stessa di queste (lunghe, lunghissime, infinite) intromissioni personali: nessuna traccia stuzzicante con cui poter ridere degli equivoci, nessun accenno che porti a simpatizzare con personaggi che non si smuovono di una virgola dalle loro postazioni rigide e frigide, e soprattutto nessuna relazione con le tragedie che comunque continuano ad accadere nello spazio, nonostante la presenza sulla carta singolare di Tsumugi e del suo essere allo stesso tempo alieno, umano e mecha, e pertanto curiosissima di scoprire come funziona la normale realtà. L’ansia, l’attesa, lo sconforto, il dolore per un body count senza eguali sono ora temi lontani, accessori, di nessuna importanza, in quanto prevalgono i sorrisi, le faccette arrabbiate, le smorfie di dispiacere e i tratti kawaii: ciò infatti che più innervosisce è la scomposizione brusca e inverosimile tra la violenza tragica e colma di morti della lotto contro i Gauna, stilizzata in un’ormai semplice quotidianità, e l’insulsa leggerezza dei problemi casalinghi di Tanikaze fatta di piatti da lavare, letti da spartire e vestiti da scegliere. E di conseguenza anche la trama orizzontale si sfilaccia e perde di consistenza, scolorendo in maniera approssimativa e di vaga pericolosità la minaccia iniziale, lasciata poi a se stessa, e arrancando, quasi come fosse un lotto di episodi interlocutori creati per riempire il tempo, verso una parte finale ancora una volta aperta a una (probabile dato l’annuncio della conclusione del manga) terza stagione dove poter tirare tutti i fili.   


Siamo oltre la decenza, interi episodi gettati via e che vanificano la presenza, a questo punto occasionale e fortunata, di grandi combattimenti spaziali (addirittura stupefacente la quarta puntata, interamente dedicata a uno scontro con un colossale Gauna, gestito con gran dispendio di strategie militari e proiettili laser) e abissali scenari d’orrore purtroppo sprecati perché economicamente secondari alla vera natura di questa seconda serie. Non serve quindi che il neoentrato regista Hiroyuki Seshita tenti nuove strade, agevolato anche da una più malleabile CG, creando eleganti piano sequenza o furiose dribblate durante le sparatorie, occupando lo schermo intero con Gauna sempre più tentacolari e deformi e frustandolo con la feroce bellezza della Tsumugi guerriera: ogni sforzo visivo e atmosferico soccombe alla mortificante lentezza del plot sentimentale, tanto che non vale neanche la pena apprezzare il miglioramento delle animazioni e la glaciale attrattiva dei volti lunghi e pallidi dei personaggi.

Il peggior ritorno possibile per una delle più belle sorprese della primavera 2014.

Voto: 4 su 10

PREQUEL
Knights of Sidonia (2014; TV)

lunedì 7 luglio 2014

Recensione: Knights of Sidonia

KNIGHTS OF SIDONIA
Titolo originale: Sidonia no Kishi
Regia: Kobun Shizuno
Soggetto: (basato sul fumetto originale di Tsutomu Nihei)
Sceneggiatura: Sadayuki Murai
Character Design: Yuki Moriyama
Musiche: Noriyuki Asakura
Studio: POLYGON PICTURES
Formato: serie televisiva di 12 episodi (durata ep. 24 min. circa)
Anno di trasmissione: 2014


Dev’essersi fatto un bell’esame di coscienza prima di progettare un manga come Knights of Sidonia (2009), di tutto ciò che lo contraddistingueva precedentemente è rimasto molto poco e le probabili pressioni devono averlo schiacciato, per tempistiche e mire, ingabbiandolo in una serialità che non è propriamente sua. Tsutomu Nihei ha un passato come architetto, e quando esordisce come mangaka i suoi edifici chilometrici - costruzioni di impressionante minaccia che sfondano il cielo - risaltano in splash page ricchi di dettagli attraverso rifiniture millimetriche che mostrano un’anomala e spesso incredibile visionarietà strutturale. Chiedere a un architetto anche una buona scrittura è forse eccessivo, ma Nihei sa mascherare bene le sue mancanze attraverso narrazioni criptiche ed enigmatiche, spesso lasciate a simbolismi indecifrabili che paradossalmente aumentano l’immersione nelle atmosfere siderali e gigantesche dei suoi lavori. Chiaro quindi che, con opere grossomodo incomprensibili ma non per questo meno fascinose come Blame! (1998) e Biomega (2004), quando l'autore si mette al lavoro su una storia più lineare e accessibile ogni lacuna venga miseramente a galla, mostrando tutti i limiti di un mangaka che fino a quel momento aveva combattuto con certa classe. Cosa più unica che rara, grazie a Sadayuki Murai alla sceneggiatura la trasposizione animata di Knights of Sidonia arraffa tutta la bontà visiva del manga e si sbarazza della pochezza narrativa fatta di dialoghi elementari e personalità infantili. Il valore della scrittura è infatti ciò che rende l’anime un prodotto più che discreto, capace di distanziarsi dalla mediocrità imperante nel robotico e saper offrire, pur non rinunciando a cliché e certe tradizionalità, una storia coinvolgente, interessante e saggiamente rapida.

A dirigere Kobun Shizuno che, con una manciata di film di Detective Conan in curriculum, a mostrare abissi stellari e alieni chilometri non sembrava il più adatto, ma con Murai forma una combo ottimale che fa della velocità una virtù visiva di difficile ma invidiabile gestione: il ritmo è altissimo, mantenuto costante da una scrittura essenziale ma di enorme esperienza, che scandisce passaggi e caratteri con pochi dialoghi, calibrati con attenzione, verbalmente soppesati per esporre ciò che serve al momento più opportuno. E pur con tanti, tanti personaggi a formare un cast di piloti inesperti e impulsivi, Murai è abile venditore di caratteri, tutto viene mostrato con accenni semplici ed essenziali, e l’enorme body count che si inizia a calcolare sin dai primi episodi si arricchisce proprio per quella micidiale meccanica con cui anche i morti in secondo piano sono pregiati di personalità e un pur minimo carisma.

 

La standardizzazione di un protagonista anonimo come Nagate, tipico eroe ingenuotto ma di gran cuore e tenacia fuori dal comune, è presto inabissata dalla varietà caratteriale che lo circonda, con personaggi che spaziano in lungo e in largo dall’invidia alla tenerezza abbracciando un po’ tutte le variabili concesse. E quando si notano i vari accenni harem (con l'eroe accerchiato di volta in volta da bellezze pettorute), via via che la serie cresce si nota invece come ci sia ben altro dietro, non una semplice adeguazione a topoi dell’animazione ma un germogliare narrativo atipico e straniante che parla di clonazione, importanza femminile e giovinezza genetica per sopperire all’altissima mortalità di questo mondo.

C'è quindi grande sostanza a sorreggere una storia molto affascinante, uno strano ibrido tra space opera e puro orrore, spettacolarità robotica e hard sci-fi: la fuga dell’astronave-colonia Sidonia da una Terra distrutta secoli prima è resa in maniera cupa e drammatica dalla battaglia snervante contro i Gauna, creature aliene di vaga forma lovecraftiana e di dimensioni planetarie. Da una parte abbiamo quindi una forte accentuazione visiva data dagli scontri tra i tentacoli gauniani e gli scheletrici mecha Guardiani, dall’altra c’è una lunga serie di intuizioni fantascientifiche che distanziano l’opera dagli tipici schemi nipponici e la avvicina più a una cultura fantascientifica occidentale: l’utilizzo della fotosintesi con cui alcuni umani possono alimentarsi e rigenerarsi oppure le alterazioni genetiche/anatomiche con cui è normale amministrazione cambiare sesso a piacimento nell’ottica di una mera sopravvivenza del genere umano, ma anche squisite faccende tecniche come l’utilizzo dei booster per aumentare la velocità dell’astronave e i pericoli anche mortali che crea alle aree popolate tale smottamento gravitazionale.

Shizuno garantisce quella necessaria freschezza per alimentare la storia, la sua regia è piacevolmente precisa nelle situazioni di calma e si trasforma abilmente durante le lunghe battaglie, aprendosi a una dinamicità stordente e a bellissimi squarci di orrore cosmico, merce piuttosto rara in animazione, con una scelta cromatica vincente fatta di bui spaziali e verdi minacciosi, ben contrastati dal biancore grigiastro delle aree urbane, unica vera traccia del disegno megalitico di Nihei. Produce POLYGON PICTURES, affermato studio di CG che in passato ha lavorato a fianco di Mamoru Oshii per Ghost in the Shell 2: Innocence (2004) e The Sky Crawlers: I Cavalieri del cielo (2008) ma anche in America per produzioni legate all’universo dei Transfomers e di Star Wars, qui alla sua prima produzione originale: il risultato è dignitoso, la natura computerizzata dei disegni di Moriyama, piacevoli e giustamente freddi con quei volti lunghi e tristi ma troppo simili, a volte ne svilisce l’impatto mostrando quei tipici movimenti che tolgono la giusta umanità, ma nelle sequenze ipervitaminitiche il risultato è più che buono, con animazioni efficaci e una libertà registica concessa a Shizuno che la tradizione animata non gli avrebbe certo permesso, almeno non per standard televisivi.

 

Era quasi impossibile scommettere su un prodotto del genere - il manga ancora in corso faceva pensare a un classico strumento lucrativo incapace di dire realmente qualcosa - e invece la trasposizione, almeno in questi suoi primi dodici episodi, surclassa la carta con classe ed esperienza, facendo ben sperare per una seconda serie che, magari, possa distaccarsi dall’opera originale per fornire una chiusura adeguata evitando il solito finale aperto che non accontenta nessuno.

Voto: 7,5 su 10

SEQUEL
Knights of Sidonia: Battle for Planet Nine (2015; TV)

domenica 26 febbraio 2012

Recensione: SOS! Tokyo Metro Explorers: The Next

SOS! TOKYO METRO EXPLORERS: THE NEXT
Titolo originale: Shin SOS Dai Tokyo Tankentai
Regia: Shinji Takagi
Soggetto: (basato sul fumetto originale di Katsuhiro Otomo)
Sceneggiatura: Sadayuki Murai
Character Design: Katsuhiro Otomo (originale), Hidekazu Ohara
Musiche: Yoshihiro Ike
Studio: Sunrise
Formato: film cinematografico (durata 40 min. circa)
Anno di uscita: 2007


Estate 2006. Il giovane Ryuhei Ozaki trova un diario giovanile del padre con la mappa di un antico tesoro ubicato nelle gallerie che corrono nel sottosuolo di Tokyo. Decide così di organizzare una missione esplorativa insieme agli amici Shun, Toshio e al fratello minore Sasuke: il viaggio metterà i giovanissimi eroi a confronto con un'autentica società sotterranea, e darà il via a una grande avventura.

Quaranta minuti sono più che sufficienti all’universo di Katsuhiro Otomo per riverberare ancora una volta se stesso, le proprie ossessioni e la sua importanza all’interno del panorama dell’animazione giapponese. In effetti è sorprendente notare la compattezza della materia forgiata dall’autore, anche quando il ruolo del regista è affidato, come in questo caso, a una persona terza, a testimonianza di una concezione del racconto forte e solida. SOS! Tokyo Metro Explorers: The Next è insieme trasposizione e ideale sequel di un fumetto breve realizzato da Otomo nel 1980 e incentrato sulle avventure di un gruppo di bambini-esploratori che da più parti ha fatto muovere paragoni con il celebre film I Goonies, realizzato da Richard Donner e Steven Spielberg nel 1986. E’ un paragone calzante e per nulla peregrino pur considerando come il fumetto originale preceda il film americano, poiché va considerato la profonda cinefilia di Otomo che quindi rende ogni possibile connessione con le opere altrui come una prova del carattere virtuoso della sua produzione, capace di rimettere in circolo con tocco estremamente personale ossessioni e temi pure esplorati da altri e di stabilire legami che travalicano lo spazio e il tempo.

Nel caso specifico, poi, risaltano evidenti l’importanza del contesto e dello stile con cui l’avventura viene narrata, tipici dell’opera di Otomo: immergendosi nel sottosuolo di Tokyo, infatti, i giovanissimi protagonisti sanciscono ancora una volta l’importanza primaria dell’ambiente urbano come cartina di tornasole per comprendere i caratteri dei personaggi e per radiografare gli umori che serpeggiano nella società tutta. Il mondo “di sotto” nel quale il gruppo si imbatte è quindi costruito attentamente come divertita parodia della società nipponica, dove emergono scontri di parte e una latente conflittualità tra antico e moderno, con tanto di vetusto carro armato a costituire il tesoro intorno al quale ruota tutta la vicenda. I legami che la sceneggiatura stabilisce fra i personaggi (e che fino alla fine riveleranno l’estrema interconnessione del mondo “di sotto” con quello “di sopra”) trova nell’isolamento degli stessi la chiave di volta per descrivere con una certa minuzia e molto divertimento gli atteggiamenti tipici delle microcomunità che animano una società complessa e stratificata come può essere appunto quella della grande megalopoli giapponese: lo sguardo innocente dei bambini permette allo spettatore di essere guidato e di ritrovare il gusto per la scoperta di un mondo del quale non si sospettava l’esistenza e che riverbera perciò, accanto alla componente più squisitamente satirica, anche il gusto per l’avventura in senso puramente spielberghiano, permettendo al cerchio di chiudersi.


Passato e presente dunque si mescolano nel resoconto di un’incredibile avventura, ma anche lo stile si adegua a questo approccio optando per una coesistenza di tecniche di animazione tradizionali e 3-D, secondo un modello che si può trovare nello splendido KakuRenBo (sul quale certamente si tornerà): ecco dunque che le figure, sebbene realizzate con programmi di grafica digitale, tentano di riprodurre lo stile “disegnato” tipico del 2-D. Il risultato è altalenante: fluido e molto spesso realistico nell’interazione dei personaggi, appare a tratti forzato e denuncia la sua natura di sintesi, ma nel complesso permette alla spettacolarità pure cara a Otomo di palesarsi in modo riuscito. D’altronde il regista Shinji Takagi si è fatto le ossa su kolossal del calibro di Steamboy, per il quale è stato direttore dell’animazione, e quindi dimostra di conoscere bene le regole dello spettacolo e sa costruire le sequenze con buon gusto, trasmettendo divertimento e un pizzico di tensione. Il tratto tondeggiante e i colori morbidi seguono ovviamente lo stile caro al maestro Otomo e contribuiscono a rendere l’insieme molto accattivante. Presentato al Future Film Festival 2009.

Voto: 7 su 10

mercoledì 28 settembre 2011

Recensione: Moryo's Box

MORYO'S BOX
Titolo originale: Mouryou no Hako
Regia: Ryousuke Nakamura
Soggetto: (basato sul romanzo originale di Natsuhiko Kyogoku)
Sceneggiatura: Sadayuki Murai
Character Design: CLAMP (originale), Asako Nishida
Musiche: Shusei Miurai
Studio: Mad House
Formato: serie televisiva di di 13 episodi (durata ep. 24 min. circa)
Anno di uscita: 2008

 
L’agente Kiba è incaricato di indagare su uno strano caso: una ragazza è morta investita da un treno, e l’assassino gira a piede libero. Unico indizio per incastrarlo, un paio di guanti neri. Nient’altro. Nessuna motivazione sembra infatti esserci dietro alla spinta fatale con cui la giovane ha perso la vita. Allo stesso tempo, in città iniziano ad apparire arti mutilati, ricomposti in bizzarre statue di carne. Cosa collega i due crimini? E perché tutto sembra ricondurre a un immenso ospedale/laboratorio a forma di cubo costruito nel mezzo di un bosco?

Sadayuki Murai era il maggior sceneggiatore di Boogiepop Phantom (2000), serie minore e con ben più di una pecca, ma ricca di inquietudine e bizzarro fascino nel suo saltellare tra i generi con una gestione niente male del carico d’orrore. Già al lavoro con boss dell’animazione come Satoshi Kon e Katsuhiro Otomo, lo ritroviamo anni dopo a capo del progetto Moryo's Box (2008), ambizioso e intricatissimo giallo-horror tratto dal romanzo omonimo di Natsuhiko Kyogoku (Star Comics ha pubblicato in Italia l'adattamento manga in 5 volumi): stessa produzione Mad House, stessa tortuosa non linearità nella progressione della trama e stesse atmosfere di Boogiepop Phantom, fatte di silenzi sinistri, tenebrosi rintocchi di campane e una cappa di tetra oscurità a soffocare ogni cosa, ma tutto acquista un nuovo valore, tutto risulta scritto meglio, disegnato meglio, diretto meglio: libero di agire come gli pare, Murai ha un controllo ben definito anche sul più piccolo dei dettagli, e crea un piccolo capolavoro.

Grazie a una maggior compattezza nel pescare da un’infinità di generi, Moryo's Box riesce a evitare meravigliosamente le tipiche imperfezioni di certa animazione nipponica, quella dettata da una facile voglia di strafare nella creazione di colpi di scena e cliffhanger (che tanto bene si prestano alla serializzazione episodica) per poi rovinare tutto con una brusca accelerazione nella parte finale per tirare, spesso malamente e con qualche toppa di troppo, tutti i fili intrecciati: dal suicidio iniziale della giovane e viziata ragazza scaturisce un’imprevedibile vicenda che sbanda gustosamente ovunque toccando una moltitudine impressionante di elementi (oltre ai generi madre come noir, horror e sci-fi, troviamo occultismo, religione, spiritismo e ingegneria genetica), e che raggiunge una perfetta, perfetta conclusione dando una risposta precisa e completa alle tonnellate di interrogativi sollevati. Chiaro dunque che, a visione ultimata, è facile provare un senso di estrema soddisfazione nel riconoscere a Murai di aver tracciato uno script magistrale, capace di mutare forma e genere, rivoltandosi su se stesso e rincorrendosi con flashback splendidamente aggrovigliati, salti temporali spiazzanti, pazzie narrative, clamorosi duelli verbali, miscugli impossibili eppure favolosamente efficaci.


L’inizio è dei più pacati e disorientanti, con un intero episodio sul versante drammatico-romantico al quale segue un’equilibrata doppia indagine: entrambe sature di visioni cupe e angoscianti, morti inaspettate e misteri di hitchcockiana risoluzione, la differenza sta sostanzialmente nei metodi d’indagine. La prima si ancora a una strutturazione più classica, con la componente thriller che si fonde all’horror per mezzo di omicidi inspiegabili e sparizioni incomprensibili (e dove il poliziotto Kiba cerca i sospetti, li interroga e formula ipotesi), mentre la seconda si sgancia dalle tradizionali osservazioni per fornire, sullo sfondo di un pazzo che dissemina la città di arti mutilati, un’appassionante analisi, in larga parte dialogica, di modus operandi criminali e relative spiegazioni. È qui che Moryo's Box acquista allo stesso tempo originalità e criptica comprensione, in quanto se da una parte si rimane stregati dal carisma del medium/investigatore e dal modo in cui collega certi aspetti soprannaturali all’indagine, dall’altra diventa difficile seguire le sue arzigolate elucubrazioni basate quasi interamente su religioni orientali, folklore locale, geometria mistica, metodi per evocare gli spiriti e complicate ricette per scacciarli. Dialoghi d’acciaio, ragionamenti verosimili, credibili false piste inseguite e altrettanto credibili baratri che costringono a ricominciare da zero, e poi tanti, tanti personaggi coinvolti e caratterizzati con una delicata sensibilità, oppure con una fascinosa supponenza, inseriti perfettamente nel contesto del dopoguerra in cui si svolge la vicenda, sapientemente rievocato grazie agli ambienti e ai costumi (tanto che anche gli innesti proto-fantascientifici come l’immenso cubo-ospedale paiono naturali e possibili), e ben ombreggiato da una fotografia che risalta il presente e dona spessore simbolico ai numerosi flashback.

Un’opera che si basa su una tale possanza dialogica, costringendosi spesso a un’immobilità necessaria a rilasciare le complesse informazioni concepite, avrebbe ingiustamente perso l’incanto narrativo se non fosse stata supportata dalla sorprendente regia dell’esordiente Ryousuke Nakamura, abilissimo nel dare dinamismo alla generale calma per mezzo di inquadrature ispirate, andamenti schizoidi, infiltrazioni disturbanti, improvvise accelerazioni, tagli strategici e maestose trovate visive per sottolineare i flashback (dalle semplici differenze di colorazione all’uso di filtri danneggiati e insolite soluzioni visive). Eccellente oltre ogni aspettativa, inoltre, il reparto tecnico, con animazioni fluide e ricche di dettagli (soprattutto durante i lunghi scambi di battute, nei quali i personaggi compiono piccoli movimenti aumentando la componente realistica) e alcuni interventi di CG, per automobili e in generale i mezzi di trasporto, tutto sommato ben amalgamati con il resto.


Impossibile consigliare pienamente l'opera, servono pazienza necessaria per assimilare concetti estranei alla cultura europea ed estrema attenzione per cogliere dettagli e seguire i tortuosi ragionamenti in scambi dialogici lunghissimi (in un caso durano addirittura un intero episodio!). La bontà dell’intreccio e l’ottima dose di inquietudine sono stati però per me stimolo a divorare la serie: concedetevi magari un paio di episodi, se possibile con il funsub in italiano se non masticate adeguatamente l’inglese.

Voto: 8,5 su 10

mercoledì 6 ottobre 2010

Recensione: Millennium Actress

MILLENIUM ACTRESS
Titolo originale: Sennen Joyū
Regia: Satoshi Kon
Soggetto: Satoshi Kon
Sceneggiatura: Satoshi Kon, Sadayuki Murai
Character Design: Satoshi Kon, Takeshi Honda
Musiche: Susumu Hirasawa
Studio: Mad House
Formato: film cinematografico (durata 87 min. circa)
Anno di uscita: 2001
Disponibilità: edizione italiana in dvd a cura di Passworld

 
La ristrutturazione di alcuni studios televisivi, da parte del presidente Gen'ya Tachibana, porta alla scoperta di una misteriosa chiave appartenuta all'attrice Chiyoko Fujiwara, da decenni ritiratisi a vita privata. Da sempre infatuato di Chiyoko, Gen'ya decide di sfruttare l'occasione per girare un documentario su di lei, organizzando un'intervista-fiume. Il film si risolve con lei, ormai 74enne, che racconta l'incredibile storia della sua vita, in cui realtà e fantasia si intrecciano: quella chiave è legata alla sua giovinezza, quando da bambina decise di fare l'attrice per inseguire un tormentato sogno d'amore con un ribelle antigovernativo...

Al suo solo secondo lavoro da regista Satoshi Kon realizza certamente, con Millennium Actress, il film più rappresentativo della carriera e della sua poetica, una storia dove dare libero sfogo al suo estro visionario nell'intrecciare realtà, tempo e spazio in sequenze visionarie che sono una gioia per gli occhi. L'idea del racconto dell'anziana attrice è il pretesto per un affettuoso tuffo nel mondo del cinema, dove la giovinezza di Chiyoko è vissuta attraverso tutti i set cinematografici nei quali ha lavorato. Se il lungo racconto ha inizio negli anni 30, quelli dell'imperialismo giapponese dove lei è ancora una ragazzina, successivamente, nel suo prosieguo - quando cioè si sposta a Taiwan per inseguire il suo sogno lavorativo - le ambientazioni vengono calate nell'epoca feudale Meiji, focus del suo primo film, per poi abbracciare visioni da noir, science fiction e così via, in un intrigante seguirsi di visioni celebrative della sua carriera. Un resoconto che spazia tra più epoche, in cui realtà e immaginazione si fondono frammentando passato e presente in un originale gioco di specchi. Intrigante, sopratutto visto che in questi flashback "a tema" non solo Chiyoko, ma anche Gen' ya e il suo aiutante cameramen appaiono e interagiscono, segno che nel presente stanno vivendo l'intenso racconto dell'anziana attrice. Quello che però rappresenta la vera anima di Millennium Actress, più della visionarietà, più delle straordinarie immagini, più della commovente colonna sonora elettronica di Susumu Hirasawa, più dell'inedito sguardo moderno con cui il Giappone odierno rivede il periodo Shōwa, è la delicatezza del suo messaggio. Non è solo la storia di Chiyoko, è la storia dell'Amore visto nella sua sfaccettatura più insolita, quello del sentimento amato in quanto tale. La donna insegue per tutta la vita il suo amato anche quando ha ormai capito che non avrà più alcuna speranza di poterlo abbracciare. La sua è una vita dedicata all'inseguimento di un sogno, e sarà proprio la chiave ad aprire i ricordi del suo cuore facendola arrivare a tale scoperta.


Millennium Actress è film che parla di amore e si fa amare, uno di quei lavori d'autore per cui è facile spiegarsi perché il cinema è arte. Commovente nei suoi messaggi, commovente negli spunti di riflessione di cui è costellato (la vecchiaia, la gioventù, ma anche il ritratto storico di più epoche), commovente nel design elegantissimo e curato in fondali e personaggi, con il chara design di Kon e Takeshi Honda che scolpisce visi, rigorosamente orientaleggianti, di estrema bellezza e umanità. La sensazione interiore che evoca il film è di tranquillità e pace assoluta, una serenità dell'animo che dà ottimismo e mette in pace con se stessi e con il mondo, le qualità più importanti di un autore che, come Kon, fino alla fine ha amato la vita: nonostante i dolori che dà, è bella per chi sa accettarne la durezza e le eventuali ingiustizie come quella che distrugge l'amore di Chiyoko. Anche se è difficile essere completamente d'accordo con una simile visione, non si può non invidiare chi come Kon ha detto, pensato e ribadito questo credendoci fino alla fine, morendo anch'esso in modo ingiusto a un'età così giovane.

Un film, Millennium Actress, di una bellezza tale da annichilire le piccolezze di sceneggiatura, come le difficoltà che talvolta si provano a seguire il dramma di Chiyoko attraverso le mille ambientazioni storiche e i continui siparietti umoristici, talvolta stucchevoli, di Gen' ya e del suo cameramen. Ma rimangono giusto quisquilie. Non è forse il capolavoro del regista ma poco ci manca, e trasuda ugualmente umanità e poesia come nelle sue opere migliori, senza contare le animazioni Mad House che, coerentemente con le ambizioni della pellicola, sono come di consueto di magnifica fludità e realismo. Al punto che rinunciare a una visione simile sarebbe davvero triste, per qualsiasi appassionato di cinema. Lavoro che giustamente ha meritato il suo successo di pubblico e sopratutto di critica, vincendo svariati premi tra cui quello di miglior film d'animazione al Fantasia Film Festival di Montreal (secondo riconoscimento dopo quello di Perfect Blue) e il rinomato Ofuji Award al Mainichi Film Awards.


Uscito in Italia grazie a Passoworld, con un colpevole ritardo di sette anni rispetto al Paese d'origine. Può almeno usufruire di un adattamento perfetto e di un gran lavoro di doppiaggio, una localizzazione una volta tanto di elevato livello che non fa perdere di un'unghia in pathos la forza espressiva del racconto.

Voto: 8 su 10

venerdì 24 settembre 2010

Recensione: Boogiepop Phantom

BOOGIEPOP PHANTOM
Titolo originale: Boogiepop wa Warawanai
Regia: Takashi Watanabe
Soggetto: (basato sui romanzi originali di Kouhei Kadono)
Sceneggiatura: Sadayuki Murai, Seishi Minakami, Yasuyuki Nojiri
Character Design: Shigeyuki Suga
Musiche: Yota Tsuruoka
Studio: Mad House
Formato: serie televisiva di 12 episodi (durata ep. 24 min. circa)
Anno di trasmissione: 2000
Disponibilità: edizione italiana in DVD a cura di Dynit

 

Una strana, improvvisa luminescenza rischiara il cielo notturno di una piccola cittadina. È un potente raggio di energia, ma nessuno sa da cosa possa essere generato. Forse è un segnale, o meglio, un richiamo, perché nei pressi del suo luogo d’origine accadano fatti inspiegabili: ragazzi che acquisiscono poteri soprannaturali, droghe allucinanti che danno vita a bizzarre creature, sparizioni misteriose, serial killer che tornano a uccidere, esseri divini in lotta tra loro, e sopra tutto, una semplice domanda… chi è in realtà Boogiepop Phantom?

Potrebbe sembrare un invito a passare oltre, ma l’unico modo per vedere Boogiepop Phantom e gustarselo appieno consiste in una valigia di pazienza e soprattutto in un blocco per gli appunti, e per chi scrive è grande pregio, caratteristica assai invidiabile nonostante la palese difficoltà di comprensione. Non v'è una sola storia, in Boogiepop Phantom, bensì 12, tratte dalle light novel di Kouhei Kadono, che confluiscono in una contorta, disumana, complicatissima trama generale. Ogni episodio racconta infatti di personaggi, eventi e contesti soprannaturali sempre nuovi, a sé stanti, che si collegano poi nell’affresco complessivo per via di piccoli o grandi tasselli che si incontrano lungo l’intero anime.

Arduo però venire a capo dei moltissimi quesiti che nascono puntata dopo puntata, enorme è la mole di informazioni, a tratti inesplicabile, e le ramificazioni dell’intreccio generale sono sempre più vaste, in un continuo aggiungere carne al fuoco che quasi mai si riesce a tenere sotto controllo. In un quotidiano contesto scolastico, infatti, si attorcigliano le vite di numerosi studenti, genitori, giornalisti e poliziotti, tutti alle prese con spiazzanti intromissioni soprannaturali: ragni invisibili che crescono sul petto delle persone, farfalle create con le mani, elaborazioni mentali che diventano realtà, bambini che rubano le anime dei ragazzi… Non c’è limite agli ingredienti di questo calderone, un horror che spesso si tinge di gore e che non disdegna alcune puntate nel cyberpunk. Chiaro che un simile, tortuoso collage non poteva essere equilibrato con assoluta precisione, e sicuramente bisognava concedere più spazio a quella manciata di episodi chiarificatori, su tutti l’8, che condensano in pochi minuti avvenimenti che necessitavano di almeno due, se non tre puntate per essere sviscerati appieno. Riassumere eccessivamente conduce a un’irritante confusione, e non sempre rivedere i momenti clou porta luce sulle domande più buie. Se a ciò si aggiunge l’apprezzato ma ancora più intricato scomponimento temporale di ogni episodio, con frequenti stacchi tra passato e presente, nonché molteplici punti di vista narrativi, si può capire quanta attenzione si debba riporre anche alla scena in apparenza meno significativa.


Ma se l’impalcatura narrativa è estremamente suggestiva, lo stesso non si può dire della qualità visiva, con un chara design semplice e pulito ma penalizzato da animazioni inesistenti: Boogiepop Phantom è ahimè un anime votato al risparmio, e se si apprezza la patina opaca che avvolge 11 episodi su 12, donando atmosfere ancora più tetre e cupe, è impossibile chiudere un occhio sulla staticità generale, sui personaggi immobili che quando si muovono sembrano farlo a scatti. Talvolta, per fortuna, la paralisi visiva è ravvivata da abbondanti scene splatter, unici frizzanti momenti di una monolitica lentezza, ma è purtroppo assai poco rispetto alla non perfetta eppure stregante sceneggiatura. Doppiaggio italiano come sempre non all’altezza, e vuoto: i DVD si trovano a un prezzo decisamente contenuto (anche se è imperativo rivolgersi alla sola versione in Box unico: i dischi sfusi soffrono purtroppo della censura nelle scene di sangue, rese in b/n), ma poi settate i sottotitoli e godetevi le voci originali.

Voto: 6,5 su 10

lunedì 30 agosto 2010

Recensione: Space Pirate Captain Herlock - The Endless Odyssey

SPACE PIRATE CAPTAIN HERLOCK: THE ENDLESS ODYSSEY
Titolo originale: Uchū Kaizoku Captain Herlock - The Endless Odyssey
Regia: Rintaro
Soggetto: (basato sul fumetto originale di Leiji Matsumoto)
Sceneggiatura: Sadayuki Murai
Character Design: Nobuteru Yuki
Mechanical Design: Masami Ozone, Katsuya Yamada
Musiche: Takayuki Hattori
Studio: Mad House
Formato: serie OVA di 13 episodi (durata ep. 24 min. circa)
Anni di trasmissione: 2002 - 2003
Disponibilità: edizione italiana in dvd a cura di Shin Vision

 
Qual è il mistero dei Noo, inquietanti alieni legati alle origini della nascita della Terra? Perché stanno eliminando tutti coloro che vengono a conoscenza della loro esistenza? Capitan Herlock e il fedele equipaggio dell'Arcadia tentano di scoprirlo per poter far fronte alla loro enigmatica minaccia, trovandosi però costretti anche ad affrontare le forze federali terrestri che li ricercano da tempo...

Capitan Harlock è un mito, non si discute. Così come è innegabile il contributo del suo autore Leiji Matsumoto al mondo dell'animazione dagli occhi a mandorla, che col suo imponente affresco spaziale e lo stile di narrazione lirico ha scritto in esso pagine della Storia della fantascienza. Inutile, però, provare a ricondurre una produzione come Endless Odyssey ai suoi meriti, sopratutto se da lui rinnegata e ricondotta a semplice creazione del collaboratore/regista Rintaro.

Endless Odyssey nasce inizialmente come media serie televisiva, ma ritardi nella produzione la portano a trasformarsi in una serie OVA di 13 puntate, troppe poche per contenere la mole di materiale inizialmente prevista. A metà tra seguito della famosa serie televisiva - ha luogo tempo dopo che l'equipaggio dell'Arcadia si è sciolto - e rifacimento/rivistazione vero e proprio - viste le consuete contraddizioni del Leijiverse e la scelta di sostituire la "a" del nome del protagonista con una "e" -, Endless Odyssey pone tutte le frecce del suo arco nella celebrazione dell'indimenticabile pirata spaziale. Celebrazione che se si limitasse al solo, epico e maestoso brano d'apertura strumentale andrebbe bene, ma, basata ripetutamente sul suo primissimo piano sbandierato in ogni episodio, irrita e basta. Non è un buon segno. Dietro la colonna sonora di alto livello e lo splendido chara design del veterano Nobuteru Yuki, rispecchiante il classico stile romantico-barocco di Matsumoto (ragazze altissime e slanciate dagli occhi giganteschi, protagonista dall'aspetto malinconico e decadente, personaggi secondari piccoli, tozzi e grotteschi a simboleggiare la loro insignificanza morale), si nasconde una storia noiosa e priva di interesse. Endless Odyssey è la sagra dell'autocompiacimento registico, talmente eccessivo da portare presto all'irritazione. Non si spiegherebbe altrimenti il letargico ritmo narrativo, perenne susseguirsi di atmosfere rarefatte, lunghi e infiniti silenzi, visioni oniriche e un didascalismo così esagerati da portare all'auto-punizione.


Quella presentata da Rintaro è una visione pesante come un macigno, fastidiosa e insopportabile, sopratutto perché si nota benissimo che i primi piani, le inquadrature fisse e i dialoghi lunghissimi e colmi di oratoria, che si presentano con chissà che ambizioni autoriali, vogliono solo mascherare la cura essenziale in sfondi e animazioni della produzione, appena sufficienti e retaggio di un budget non certo irresistibile, abbastanza indegno per il formato home video. Non ci vorrebbe niente a tagliare qualcuno degli infiniti dialoghi teatrali e ridondanti (rappresentanti il 95% di ogni puntata) per mandare avanti la storia senza mille lungaggini, ma così non è. Tutto è verboso e narcotico a livelli impossibili, causando così tanta noia da non permettere di seguire bene il lento dipanarsi della goffa trama, mix di horror e sci-fi per nulla in linea con la serie classica, che né affascina né inquieta da quant'è contorto, patinato e mal narrato il tutto. Colpa sicuramente da rinfacciare agli iniziali problemi produttivi che portano l'equivalente di 26 episodi a venire sintetizzati in soli 13, ma non si possono sorvolare sulle responsabilità e le deficienze narrative dello sceneggiatore Sadayuki Murai,  solitamente bravo ma in quest'occasione privo di idee, che scrive un horror superficiale e perfettino infarcito di retorica e gran discorsi che suonano come la fiera delle banalità, con villain insignificanti a livelli impossibili e che scade criminalmente proprio nel disegno psicologico degli eroi, freddissimi e indecifrabili a meno che non si conosca veramente bene la serie televisiva di riferimento. Un pasticcio. S'è visto decisamente di meglio in giro e, anche se il mito di Harlock certo non decaderà per merito di questa serie OVA, la delusione, inutile dirlo, è alta.

Voto: 5 su 10

venerdì 7 maggio 2010

Recensione: Perfect Blue

PERFECT BLUE
Titolo originale: Perfect Blue
Regia: Satoshi Kon
Soggetto: (basato sul romanzo originale di Yoshikazu Takeuchi)
Sceneggiatura: Sadayuki Murai
Character Design: Hisashi Eguchi (originale), Hideki Hamasu, Satoshi Kon
Musiche: Masahiro Ikumi
Studio: Mad House
Formato: lungometraggio cinematografico (durata 80 min. circa)
Anno di uscita: 1997
Disponibilità: edizione italiana in DVD a cura di Yamato Video

 
Mima Kirigoe, idol affermata, decide di ritirarsi dal mondo musicale per tentare una carriera cinematografica. Nonostante molti fan critichino una scelta così azzardata la ragazza ottiene una piccola parte in una serie tv dalle atmosfere lugubri e violente. E mentre, per esigenze di trama, si ritrova a posare per molte, difficili scene di nudo, alcuni sanguinari omicidi sconvolgono la sua vita: sembra che l’assassino stia prendendo di mira la crew del serial, ma tutti brancolano nel buio, e lei, terrorizzata dal comportamento di un terribile ammiratore stalker, non sa più distinguere la realtà dalla fantasia...

L’acclamato esordio di Satoshi Kon del 1997 è pellicola che potrebbe apparentemente prendere in contropiede per certi spunti di partenza alquanto banali: una cantante di successo che decide di vestire nuovi ruoli; un orrendo, disgustoso fan che sembra pedinarla ovunque lei vada, e terribili omicidi sul set di lavoro, che colpiscono proprio chi la costringe alle parti più scomode. Siamo però su campi narrativi di estrema raffinatezza, dove un soggetto, tratto dal romanzo omonimo di Yoshikazu Takeuchi, per quanto semplice e derivativo, è scheletro essenziale nonché funzionale di una coralità di registri e soluzioni che rendono Perfect Blue forte e sicuro fin dai primi minuti.

Grande spessore psicologico e potente resa visiva permettono così di lasciarsi affascinare da questi temi che, sebbene prevedibili, colpiscono per rara eccellenza dialogica e per notevole estro registico. Merito di Sadayuki Murai, sceneggiatore del film che dopo Perfect Blue si incammina in una strada costellata di soddisfazioni e riconoscimenti. Ma sono sopratutto le sfumature oniriche, che nella seconda metà del film prendono il sopravvento, ad arricchire l'accento visionario, già di suo incontenibile. Kon vi lega la sua poetica, immergendo i suoi attori - quasi sempre i protagonisti - in una dimensione sospesa tra realtà e sogno: stratagemma sì classico ma realizzato però con furba maestria nel trasmettere la psiche vicina al tracollo dell'angosciata Mima. Interessante notare poi come il regista non freni dinanzi a ghiotte esplosioni di sangue e lunghe scene di nudo, entrambe costruite con un certo, disturbante tocco poetico che confluisce in un’atmosfera perennemente cupa e minacciosa, risaltata anche da un montaggio incalzante. La discesa oscura in cui precipita Mima è garantita infatti da un crescendo opprimente, dapprima bilanciato da sequenze ariose, che poi sfumano totalmente in un tono grigio, denso come nebbia. Stupisce infine la rivelazione conclusiva e la scoperta dell’assassino, identità a parere di chi scrive tenuta magistralmente nascosta per tutta la pellicola: era facile aspettarsi, timorosi o meno, una potente esplosione onirica che portasse completo disordine mentale e visivo, ma si è scelto invece per un vincente esito realistico che sciolga tutti i nodi intrecciati. Finale che, splendido, collega la pellicola ai migliori film di De Palma e Argento, come riconosciuto in tutti i festival in cui l'opera primeggia, compreso il Fantasia International Film Festival di Montreal dove quell'anno è premiata come miglior lungometraggio asiatico.


Poco da dire sul comparto tecnico: splendido il chara design di Kon e Hamasu, armonioso e preciso e che scivola piacevolmente sul grottesco caricaturale nell’accentuare alcune personalità, ed eccellenti le animazioni fornite da Mad House. Film intenso e magnetico nonostante un’idea iniziale che, a quindici anni dalla sua realizzazione, potrebbe non incuriosire a sufficienza, Perfect Blue merita visione attenta e vissuta. Unico rammarico, e non da poco, l'elemento horror che risalterebbe tanto, tanto di più in un film con bravi attori in carne e ossa. L'opera nasce ufficialmente così nel 1995, salvo trasformarsi in una serie OVA affidata alle mani di Katsuhiro Otomo dopo il terremoto di Kobe che rende impraticabili i teatri di posa. Alla fine l'autore decide di trasformare ulteriormente la serie in un film d'animazione, affidandone la regia al suo assistente Kon e limitandosi alla supervisione. Il film-live uscirà finalmente nel 2002 (Perfect Blue: Yume nara samete), penalizzato però da una forte piattezza interpretativa.

Voto: 7 su 10

lunedì 4 gennaio 2010

Recensione: Steamboy

STEAMBOY
Titolo originale: Steamboy
Regia: Katsuhiro Otomo
Soggetto: Katsuhiro Otomo
Sceneggiatura: Katsuhiro Otomo, Sadayuki Murai
Mechanical Design: Makoto Kobayashi
Musiche: Steve Jablonsky
Studio: Studio 4°C
Formato: lungometraggio cinematografico (durata 122 min. circa)
Anno di uscita: 2004
Disponibilità: edizione italiana in DVD a cura di Sony

 
Manchester, 1866. Le ricerche scientifiche e tecnologiche mostrano progressi sempre più all’avanguardia e il giovane Ray Steam, piccolo genio meccanico, riceve una misteriosa sfera di metallo dalle qualità tecniche rivoluzionarie. L’oggetto è infatti molto ambito, sia dai ricercatori senza scrupoli che lavorano per Eddy, padre di Ray, che dagli scienziati che lavorano per lo stato. Ray, costretto a fuggire, viene però catturato e imprigionato nella gigantesca fabbrica di suo padre, dove vengono costruite incredibili macchine da guerra, pronte per essere vendute ai maggiori acquirenti di tutto il mondo. Alleatosi con suo nonno, Ray riesce a liberarsi ed è pronto a mettere fine, in un modo o nell’altro, alla follia del genitore.

Calato in un’insolita ambientazione anglosassone, Steamboy (2004), come suggerisce il titolo stesso, è il contributo nipponico, da parte del guru dell'animazione Katsuhiro Otomo, a un genere, lo steampunk, che sa sempre offrire trovate ingegnose e di fresca curiosità. E di intuizioni, Steamboy ne cattura molte, per poi frullarle e rilasciarle in una sensazionale meraviglia visiva, che permette alla tecnica animativa dagli occhi a mandorla di raggiungere uno dei suoi vertici massimi.

Lo stupore di fronte a un simile incanto colorato è continuo, un inarrestabile crescendo di animazioni strepitose che più di una volta sbalordiscono per tecnica, precisione, esuberanza. Sequenze impressionanti come l’inseguimento della motrice, l’assalto degli androidi di latta o ancora la ventata di fumi ghiacciati che ibernano Manchester sono momenti che fanno brillare gli occhi grazie a una resa visiva, e a un vincente connubio di disegni e creatività, che addirittura annichilisce, stordisce, ubriaca. È il risultato di un film che assume, sedici anni dopo Akira (1988), il primato di essere il più costoso kolossal della Storia dell'animazione nipponica, con 180.000 disegni, 440 sequenze in CG e un budget di quasi 2 miliardi e mezzo di yen. Otomo già dai tempi di Memories (1995) comincia a pensare a una storia ambientata nella Londra vittoriana che parli di macchine a vapore, e deve lavorare dieci anni per permettere al sogno di diventare realtà, mettendo insieme uno staff artistico di livello clamoroso (addirittura Steve Jablonsky alle musiche, il pupillo del compositore hollywoodiano Hans Zimmer) e le più avveniristiche tecnologie per riprodurre in modo perfetto gli sbuffi di fumo, veri protagonisti della pellicola nel trionfo tecnico della parte finale. Ma se la straordinaria perfezione visiva è caratteristica fondamentale e, per certi versi, prevedibile in un lavoro cinematografico targato Otomo, è lecito aspettarsi una maggior solidità narrativa, che permetta a Steamboy di garantire incredulità anche laddove l’eccellente animazione deve scansarsi per far posto alla trama. E così, purtroppo, non avviene, ben giustificando all'epoca la tiepida accoglienza di critica e pubblico.


Il lavoro a quattro mani di Otomo e Sadayuki Murai riesce solo in parte, e questo grazie a un soggetto di per sé insolito, che a una riuscita prima metà avventurosa fa seguire un secondo tempo spiazzante dove si ribaltano i ruoli (niente più buoni con cui schierarsi e cattivi da odiare, ma solo due perfide facce della stessa medaglia sociale) e l’azione diventa necessaria per rappresentare una lunghissima battaglia tra androidi di terra, androidi subacquei, aeroplani, navi da guerra, cannoni e molto, molto altro ancora. Ciò che non sempre scorre con la dovuta fluidità è un intreccio che, complice il montaggio terribilmente incerto di Takeshi Seyama, che taglia e incolla scene con imbarazzante dondolio, lascia un leggero amaro in bocca per una certa superficialità nel marchiare i caratteri (impossibile, in questo caso, la coerenza nella progressione intellettiva di Scarlett o nella follia del padre di Ray) e nel mordere laddove la stupore animativo ruba ogni centimetro di pellicola (la macchina da guerra definitiva).

Non che questo aspetto influisca poi molto in un film che, inutile negarlo, punta quasi tutto soltanto sulla resa grafica, e infatti la piacevolezza nel seguire queste due ore abbondanti è sempre garantita, ma dispiace percepire una certa esitazione narrativa, soprattutto perché si tratta di una lacuna che, dati i nomi coinvolti, poteva essere facilmente evitata. Un lungometraggio visivamente magnificente che, però, pur con le sue aspirazioni adulte (con le classiche morale sul potere cinico della scienza che non si pone limiti nello stuprare la natura), paga tutto lo splendore tecnico nei riguardi di una storia che non decolla praticamente mai.

Voto: 6 su 10

mercoledì 23 dicembre 2009

Recensione: Alexander - The Movie

ALEXANDER: THE MOVIE
Titolo originale: Alexander Senki - The Movie
Regia: Yoshinori Kanemori, Rintaro
Soggetto: (basato sul romanzo originale di Hiroshi Aramata)
Sceneggiatura: Sadayuki Murai
Character Design: Peter Chung
Musiche: Ken Ishii
Studio: Mad House
Formato: film cinematografico (durata 97 min. circa)
Anno di uscita: 2000
Disponibilità: edizione italiana in dvd a cura di Dynit

Anno 356 a.C.: figlio di Filippo II, re di Macedonia, Alessandro è un principe carismatico, ambizioso, di raffinato genio strategico; l'uomo designato, secondo un'antica profezia, a conquistare e distruggere l'ordine del mondo finora conosciuto. Vedendo i suoi ripetuti successi militari e timoroso del suo crescente prestigio verso le masse, il padre cercherà di allontanarlo dai luoghi di potere, ma presto la Storia porterà il ragazzo a succedergli e a iniziare l'opera di conquista per unificare e civilizzare il pianeta. Dovrà scontrarsi con il re di Persia Dario III, ma sopratutto sopravvivere alle frequenti congiure da parte di filosofi timorosi delle sue ambizioni...

Sì, come state pensando il film di Alexander è una truzzata di cui non si sentiva il bisogno.

Serviva il recap movie di una serie televisiva così corta, bella e sperimentale? Serviva rovinare il lato artistico ed elitario di Alexander cercando di diffonderlo alla grande massa? Misteri del marketing di Mad House. Quel che conta davvero è che questa triste mungitura non solo è inutile, ma anche scadente. Inutile perché non ha senso rivolgere al grande pubblico una storia nata per le nicchie (i disegni anticonformisti di Chung, gli intermezzi onirici, le frequenti e importanti digressioni filosofiche, la necessità di avere un'infarinatura storica per conoscere bene il personaggio...); scadente perché pure realizzata alla membro di segugio.

Sfido chiunque a trovare solidità narrativa in quest'approssimativa sintesi dalla durata di poco più di un'ora e mezza che rinarra, con montaggio discreto ma sopprimendo intere sequenze di dialoghi e avvenimenti importanti, la vita di Alessandro. Senza contare poi il finale tronco, orribile, che arriva di punto in bianco e chiude il tutto saltando gli ultimi episodi televisivi, lasciando la fortissima impressione che Mad House neanche ci credeva più e si era scazzata di perdere tempo con una simile operazione.


Alla luce di queste considerazioni è facile domandarsi a chi è rivolto il film: agli spettatori occasionali certamente no, visto che si troveranno a sprecare 90 minuti della loro esistenza nel guardare un riassunto senza nè capo nè coda orfano delle sequenze più importanti; ai fan men che meno, visto che avendo già visto la serie non avranno motivo di guardare un lungometraggio che la sintetizza malamente e che, sopratutto, ha la faccia tosta di non inserire praticamente nessuna sequenza inedita per differenziarlo e a dargli più spessore.

Il tutto si rivela proprio quello che è, una mediocre operazione commerciale di cui nessuno sentiva il bisogno. Verrà ricordato solo per aver banalizzato l'originalità di Alexander, dimostrando l'avidità di Mad House di sfruttare il nome di uno dei suoi titoli di punta per ingannare i sempliciotti con un film fatto in modo essenziale, con zero costi e qualche aspettativa economica.

Voto: 4,5 su 10

RIFERIMENTO
Alexander: Cronache di Guerra di Alessandro il Grande (1999; tv)

martedì 22 dicembre 2009

Recensione: Alexander - Cronache di guerra di Alessandro il Grande

ALEXANDER: CRONACHE DI GUERRA DI ALESSANDRO IL GRANDE
Titolo originale: Alexander Senki
Regia: Yoshinori Kanemori
Soggetto: (basato sul romanzo originale di Hiroshi Aramata)
Sceneggiatura: Sadayuki Murai
Character Design: Peter Chung
Musiche: Ken Ishii
Studio: Mad House
Formato: serie televisiva di 13 episodi (durata ep. 24 min. circa)
Anno di trasmissione: 1999
Disponibilità: edizione italiana in dvd a cura di Dynit


Anno 356 a.C.: figlio di Filippo II, re di Macedonia, Alessandro è un principe carismatico, ambizioso, di raffinato genio strategico. L'uomo designato, secondo un'antica profezia, a conquistare e distruggere l'ordine del mondo finora conosciuto. Assistendo ai suoi successi militari e timoroso del suo crescente prestigio verso le masse, il padre cerca di allontanarlo dai luoghi di potere, ma presto la Storia porta il ragazzo a succedergli e a iniziare l'opera di conquista per unificare e civilizzare il pianeta. Dovrà scontrarsi con il re di Persia Dario III, ma sopratutto sopravvivere alle frequenti congiure da parte di filosofi timorosi delle sue ambizioni...

Dei primi, storici anime a guadagnare la nomea di cult, in Italia, grazie al passaggio sull'allora alternativa MTV, Alexander riveste certo il ruolo di uno di quelli più intriganti. Oggetto le gesta di Alessandro Magno, il grande condottiero macedone dell'Età Antica, dai primi successi militari fino al massimo momento di gloria, in una straniante rilettura, basata sul romanzo di Hiroshi Aramata, di stampo fantascientifico. Una produzione che effettivamente ha avuto tutte le carte in regola per imprimersi nella memoria, con il suo soggetto ambizioso e il chara design straniante ma d'autore del sudcoreano Peter "Æon Flux" Chung. Quando ci si domanda qual'è l'espressività che può raggiungere l'animazione giapponese, è illuminante la visione di opere come Alexander.

Improponibile, viste le premesse, attendersi un quadro di grande fedeltà storica: le esili e carnosissime figure di Chung si muovono in un mondo alieno dove navi volanti, zombi e negromanti incorporei sono all'ordine del giorno, con ambientazioni date da elementi naturali dalle reminiscenze steampunk fusi con elementi meccanici dalle strutture architettoniche sofisticatissime e impossibili. Se le battaglie e gli avvenimenti legati all'espansione territoriale dell'impero macedone rispecchiano quelli reali, mancano però le basi storiche su cui si fonda la vita dei protagonisti: la madre di Alessandro, Olimpiade, veste i panni di una mostruosa strega, Clito trova un destino del tutto diverso da quello reale, addirittura il maestro Aristotele è tra coloro che complottano per uccidere l'eroe... Cambiamenti che si rendono necessari per dare maggiore risalto a quella che nei fatti è una rielaborazione narrativa e filosofica delle imprese del condottiero: Alessandro Magno visto come il distruttore dell'ordine cosmico non è un'idea messa per ingannare lo spettatore dietro false premesse intellettualoidi, ma il focus di una storia di intrighi e tradimenti dove il sovrano deve affrontare inediti discepoli di Pitagora e sacerdoti di Zarathustra motivati a ucciderlo in quanto portatore di caos, nemico dell'ordine sociale garantito dal Solido Platonico.


La distruzione delle polis (le società politiche della Grecia ellenica, costruite sul modello della collettività vista come un cosmo ordinato), operata realmente dall'Alessandro storico per dare unità al suo impero, diventa in Alexander lo spauracchio che porta agli attentati contro il sovrano da parte dei filosofi. L'opera trova così modo, nello sviluppo del suo intreccio, di dare risalto al pensiero filosofico/politico dei grandi pensatori dell'epoca, passando per Pitagora, Platone, Aristotele, Zarathustra, Diogene... Tutti (o quasi) a interagire con il sovrano, in veste amichevole o nemica, rinfacciandogli ciò che può o non deve fare per assecondare il disegno ordinato dell'universo. Decisamente una produzione che piacerà molto agli amanti della filosofia, che in più riprese, insieme alle azioni di guerra di Alessandro e la trattazione del pensiero dei grandi filosofi, si concede addirittura anche sequenze visionarie in piena linea coi temi affrontati, come quella, meravigliosa, in cui il sovrano interagisce con una raffigurazione materiale dell'universo, una polis in scala ridotta nel quale entra dentro lui stesso. Da applausi.

Alexander è una storia intrigante, scritta benissimo dal veterano Sadayuki Murai, e che non si fa problemi, per le finalità del racconto, a scomodare anche amplessi e scene di nudo, dimostrando una maturità e un coraggio che ben si sposano con l'adulta trama, a prescindere dalla dissacrazione storica operata dove convivono, oltre a elementi storici, anche elementi horror e fantascientifici come entità extraterrestri, zombi, spade possedute dai fulmini e chi più ne ha più ne metta. E tra avventure, combattimenti e complotti, la serie si conclude in modo più che soddisfacente, peccato solo per un finale senza troppo mordente e la scelta di non affrontare la caduta del grande condottiero, profetizzata per larghi strati di serie ma alla fine lasciata solo intuire. Nonostante tutto la grandezza del soggetto, l'affascinante chara design, la CG utilizzata benissimo nella creazione delle belle scene di battaglia e le buone animazioni generali regalano una versione carismatica delle avventure del grande re, spiazzante e intrigante rilettura di fantascienza, Storia e filosofia. Ottima visione per chi, dal mondo dell'animazione, cerca qualcosa di diverso dal solito.

 
Consigliata l'edizione in dvd a cura Dynit, oggi rimediabile a prezzi bassissimi e che può vantare ottimi adattamento e doppiaggio. Evitabilissimo il film riassuntivo da loro stessi distribuito, squallida mungitura, oltretutto mal fatta e incompleta, priva di aggiunte di rilievo, che non ha alcun senso d'esistere al cospetto di una serie televisiva così corta e riuscita.

Voto: 8 su 10

ALTERNATE RETELLING
Alexander: The Movie (2000; film)

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