giovedì 31 marzo 2011

Recensione: Mobile Suit Z Gundam A New Translation

MOBILE SUIT Z GUNDAM A NEW TRANSLATION
Titoli originali: Kidō Senshi Z Gundam - Hoshi wo Tsugu Mono; Kidō Senshi Z Gundam II - Koibitotachi; Kidō Senshi Z Gundam III - Hoshi no Kodou wa Ai
Regia: Yoshiyuki Tomino
Soggetto: Hajime Yatate, Yoshiyuki Tomino
Sceneggiatura: Yoshiyuki Tomino
Character Design: Yoshikazu Yasuhiko
Mechanical Design: Kazumi Fujita, Mamoru Nagano
Musiche: Shigeaki Saegusa
Studio: Sunrise
Formato: serie di 3 lungometraggi cinematografici (durata 95 min. circa l'uno)
Anni di uscita: 2004 - 2006
Disponibilità: edizione italiana in DVD a cura di Dynit


Universal Century, anno 0087. In seguito a un colpo di stato, la fazione militare dei Titans ha assoggettato la Federazione Terrestre ai suoi voleri, instaurando una dittatura reazionaria che trova la sua legittimazione nel rigido mantenimento dell'ordine e in politiche interne razziste nei confronti degli abitanti delle colonie spaziali, per scongiurare l'insorgere di nuovi sogni indipendentisti come quello del defunto Principato di Zeon. Le crudeltà federali non possono che portare a nuove sollevazioni ribelli, che trovano sfogo nel movimento guerrigliero A.E.U.G. (Anti-Earth Union Group), capitanato, tra gli altri, da un recidivo Char Aznable sotto l'identità fittizia di Quattro Vageena. Il nuovo conflitto entra nelle fasi finali quando si unisce ai guerriglieri, sul vascello spaziale Argama, l'introverso studente terrestre Kamille Bidan, dotato di incredibili poteri Newtype come il famoso Amuro Ray...

Il tempo, si sa, spesso cambia le persone e la loro visione del mondo. Nell'universo dell'intrattenimento animato, penso che quello di Yoshiyuki Tomino sia forse uno degli esempi più illustri di tale, banale assunto. Il Peccato Originale del suo odio per Gundam scaturisce dal lavoro alla serie televisiva Mobile Suit Z Gundam, impostagli da Bandai e Sunrise nonostante lui non avesse la minima intenzione di dare un seguito a Mobile Suit Gundam (1979). Ma ai datori di lavoro non si può dire di no, e il regista, adirato con loro e con gli spettatori, come sappiamo, dirige un dramma rabbioso (e involontariamente d'autore) stracolmo di morti, carneficine e soprattutto avvenimenti e sottotrame, poiché, frustrato, riempe la trama di personaggi e sviluppi senza pensare minimamente a come amalgamarli bene, col risultato di generare un assurdo minestrone tanto carismatico in personalità indimenticabili, disegni e animazioni, quando nevrotico nella sua scomposta sceneggiatura, in cui tutto sembra accadere per caso. Il colpo di grazia della sua vendetta è rappresentato dall'infausto destino dell'eroe Kamille Bidan, che nell'ultima puntata finisce addirittura lobotomizzato e ridotto a stato vegetale, fungendo da monito metaforico alla sottocultura otaku nata in quegli anni (e che, realisticamente, è stata l'artefice maggiore della nascita della serie). Quest'opera dà origine per Tomino, come sappiamo, a tutta quella depressione che riverserà nei Gundam successivi (sempre imposti e da lui mai voluti, ricordiamolo) con sadismo, misoginia e messaggi negativi contro tutto e tutti, fino alla pacificazione che avviene nel 1999 con ∀ Gundam Called Turn "A" Gundam (1999).  Poi, accade quello che nessuno si sarebbe mai aspettato e che alcuni definirebbero addirittura fantascienza: nel 17 ottobre 2004 esce in anteprima al Tokyo International Fantastic Film Festival - distribuito poi nei cinema ufficiali solo l'anno successivo - il primo dei tre lungometraggi cinematografici che tra il 2004 e il 2006 comporranno Mobile Suit Z Gundam A New Translation, incredibile trilogia filmica che adatta al XXI secolo, rielaborandone la storia, proprio quel lavoro che Tomino odiava come la morte e da cui derivava il suo astio per il franchise. A dirigerlo e soprattutto a volerlo fare è proprio lui.

Due sono i motivi per cui questi film meritano di essere ricordati. Il primo è il loro enorme successo: coi loro faraonici incassi in madrepatria (860 milioni di yen il primo, 600 il secondo, 490 il terzo1) stupiranno un po' tutti e saranno tra quelli più remunerativi ai box office del periodo. Il secondo, ben più importante, è il fatto che con questo progetto Tomino aggiorna Z Gundam, che trova anacronistico, alla sua nuova visione di vita, più ottimista2, e per questo dà una nuova conclusione, meno tragica e più speranzosa, all'eterna diatriba tra Federazione Terrestre e Zeon, disconoscendo quanto da lui stesso detto ne Mobile Suit Gundam ZZ (1986) e Il contrattacco di Char (1988), invalidati dal nuovo finale positivo. L'autore difenderà la sua scelta annunciando pubblicamente l'inutilità del mandare messaggi particolari e indicizzati al pubblico, perché tanto esso capirà sempre e soltanto quello che gli interessa3 (le metafore anti-otaku dell'originale non sono mai state recepite o prese in considerazione), e per questo non si pone alcun problema nel rinarrare Z Gundam secondo una concezione di puro entertainment disimpegnato ed estremamente spettacolare (addirittura titoli di apertura e di coda affidati a GACKT, uno dei più affermati musicisti giapponesi del globo!) rassicurando lo spettatore più che angosciandolo come in origine e, per questo, modificando opportunamente tratti di storia per rendere il tutto meno pesante e nichilista4. Questo perché, secondo il regista, lo scopo primario del progetto A New Translation, ideato al termine della produzione di Overman King Gainer (2002) dopo gli oscuri fatti dell'11 settembre e del caos della politica mondiale da loro originati, era tempo di tranquillizzare il pubblico, incoraggiarlo, spiegargli che solo attraverso la collaborazione di tutti, di ogni popolo e cultura e mettendo da parte le differenze, si sarebbero potuti risolvere i problemi che aspettavano la società globale nell'immediato futuro5. Il modo migliore da lui individuato (approfittando di quella famosa clausola contrattuale che lo indicava come unico regista selezionabile per le eventuali versioni filmiche dei suoi lavori televisivi) - è stato di riportare  in auge  - a vent'anni suonati dalla prima trasmissione - Z Gundam, la cui trama prevedeva che Amuro Ray e Char Aznable, nemici giurati nella Guerra Di Un Anno, si alleassero contro il nemico comune rappresentato dai Titans, mettendo da parte tutti i personali dissapori6. Bandai e Sunrise, anni dopo, ripristineranno a loro volta la continuity originale disconoscendo A New Translation (con l'altrettanto fortunatissima serie OVA Mobile Suit Gundam Unicorn del 2010), ma questo nulla toglie all'importanza di questi tre film, anzi: rende ancora più affascinante l'esistenza, di fatto, di ben due "visioni" dell'Era Spaziale, una da parte del creatore originale di tutto e l'altra, ufficiale e canonica (ma chi se ne importa?) voluta dai produttori.

Non sono pochi i fan che, indispettiti dai cambiamenti operati alla timeline, apprezzeranno poco le pellicole, non mancando di criticarle anche per la loro oggettiva difficoltà nel riassumere bene l'intricatissimo  corpus narrativo di Z Gundam in poco più di 270 minuti, molto inferiori ai 420 della solita, riuscitissima e citatissima trilogia riassuntiva di Gundam del 1981: in verità, per godere di questi film nel modo migliore, basta giusto partire dalla considerazione che siano rivolti ai soli fan dell'originale e non ai profani. Questi ultimi, nonostante le buone intenzioni, riusciranno a malapena a seguire la storia, troppo ramificata in origine per venire sintetizzata bene in così poco spazio, e specialmente non proveranno alcun sentimento per gli attori secondari, in origine elementi di assoluta importanza per il loro trascinante carisma. No, ad apprezzare A New Translation saranno i soli appassionati di Z Gundam, che si esalteranno con le modifiche alla storia e all'enorme numero di scene nuove di zecca che snelliscono l'intreccio dalle molte lungaggini, rendendolo più compatto e meno dispersivo.


Tomino, dietro la sceneggiatura di tutte e tre le pellicole, riscrive tutto. Se i film di Gundam si limitavano a eliminare i punti morti della narrazione, mantenendo intatta la trama nella sua interezza, A New Translation si spinge oltre e "corregge" il più  grande difetto dell'originale: rende molto più fluide e sensate le peripezie di Kamille e Char, redigendo da capo tutti i dialoghi, eliminando senza pietà tantissime vicende e sottotrame (o magari fondendole con altre per risparmiare tempo) e creando un alto numero di scene di raccordo che enfatizzano e spiegano meglio i punti di vista, le macchinazioni e gli scopi delle numerosissime fazioni in guerra - nondimeno approfondendo meglio le motivazioni dei personaggi principali, soffermandosi in particolare sui complessi rapporti uomo/donna e giovani/adulti, come da consueta cifra poetica e filosofica tominiana. La storia di Z Gundam ne esce fuori semplificata ma risulta al contempo più sensata, oserei dire addirittura potenziata, se non fosse per l'inevitabilmente elevata velocità di narrazione e l'appiattimento di quelle personalità, forse non essenziali nella storia, che però avevano comunque un loro grande senso nella tragica teatralità dell'anime storico (Jerid Messa ed Emma Sheen i maggiori rimpianti, fondamentali nella vita di Kamille e qui ridotti al ruolo di comparse).

Andando più nello specifico, del trio di film il migliore è probabilmente il primo, Eredi delle Stelle, nonostante sia quello con meno animazione inedita, un modesto 33% (ma sembra in verità molto di meno) a testimonianza di come Bandai non credesse inizialmente molto nel progetto7 (salvi ricredersi con l'incasso nelle sale e riscattandosi con le pellicole successive). Di fatto, il film è basato per la maggior parte sul riciclo delle scene e dei disegni originali, che di certo stupiscono ancora col loro stupefacente livello di cura e dettaglio (mecha, attori, movenze, fondali, tutto), ma dall'altro lato evidenziano impietosi la frustrazione di Tomino per il non aver potuto modificare di più la trama vista la carenza di un grosso budget. Di questo lungometraggio si apprezzano - come, del resto, dei primi 14 episodi che riassume - la partenza al fulmicotone,  trascinante e oscura fin da subito, i numerosi cambi di scenario, e, in generale, la grande fluidità di racconto e di sintesi operata dal regista, che rievoca numerosi avvenimenti senza peccare in stacchi brutali, ma anzi facendo sembrare il tutto estremamente coerente e sensato, dando davvero l'impressione di aver reso al meglio possibile la trama raccontandone le cose davvero importanti e con un buon ritmo. Mancano, certo, evocativi momenti dell'originale (svariate battaglie importanti, un minimo di background a Jerid e Lilla Mirra Rira o la tragica avventura nella Colonia 30 di Side 1, nel film rimpiazzata da un video immaginario visto da Emma Sheen, e altro ancora), ma non ci si può lamentare di un digest che ai fan di vecchia data ricorda, con nostalgia ed esaltazione, tutto quello di buono che c'è da rimembrare della grandiosa storia di Z Gundam, e che tra le sequenze nuove di zecca concede un ottimo momento introspettivo tra Kamille, Quattro, Reccoa ed Emma Sheen, una spettacolare battaglia con Rosamia Badam (introdotta molto in anticipo sui tempi rispetto alla serie TV, eliminando il suo legame con Kamille) e una grande enfasi sul riscatto morale di Amuro Ray (da prigioniero disilluso della Federazione Terrestre a guerrigliero della Karaba) e sul suo rapporto di pacificazione con Quattro/Char, approfondendo molto le motivazioni e i sentimenti dell'eroe della prima serie, di certo di più che nella serie (del resto, lo scopo di tutto il progetto A New Translation consiste proprio in questo!). Degne di menzione sono anche alcune sequenze prettamente dialogiche che danno vivacità e caratterizzazione ad altre vecchie glorie del First Gundam, come Hayato Kobayashi e Kai Shiden. Duole notare, in compenso, come mal si amalgamano i disegni vecchi con quelli nuovi: il livello di cura è ottimo in entrambi i casi, ma le animazioni recenti soffrono di colori saturissimi e di volti "plasticosi" che stridono parecchio se rapportati a quelli storici, specialmente in quelle numerose scene  - principalmente di battaglia - in cui sono mescolati insieme. Si poteva certamente provare a fare qualcosa di meglio e più uniforme, e la beffa è che questo squilibrio cromatico, vistosissimo e fastidioso, sarà enormemente amplificato nei titoli successivi.

Amanti (2006) è invece l'episodio più debole della trilogia, pur essendo comunque tutt'altro che disprezzabile. In esso, come preventivabile dal titolo, sono analizzate un po' tutte le storie d'amore della serie, e protagoniste in questo senso saranno Irma Beltorchika, Four Murasame, Mouar Pharaoh, Sarah Zabiarov e Reccoa Londe. Quello che delude del lungometraggio è che in generale un po' tutte le ragazze peccano di uno spazio decisamente ridotto, non riuscendo mai a bucare lo schermo poiché liquidate in poco spazio (si salvano un po' giusto Four e Sarah): il tempo di presentarle e sono già destinate a morire davanti agli occhi del proprio uomo o a sparire per altri motivi dalle scene. La maggior parte del minutaggio è dedicata, piuttosto, a un numero pressoché infinito di schermaglie tra l'A.E.U.G.e i Titans, disseminate in un po' tutto il segmento originale degli ep.15-32 e quasi tutte (escluso il breve arco narrativo di Hong Kong, segnato solo dallo scontro con l'MRX-009 Psyco Gundam, saltando tutto il resto) ambientate nello spazio, che si limitano a presentare, tra un intermezzo e l'altro, tutto il setting e tutti i nuovi personaggi che serviranno per l'esplosione di complotti e stragi della parte finale. Amanti, insomma, è un film abbastanza interlocutorio e che non trova nessun momento di chissà quale importanza, distinguendosi solo per l'enorme spazio dato a scene d'azione sontuose composte principalmente (70%) da disegni e animazioni inedite (ma, come detto, malamente amalgamate con quelle storiche). A fronte dell'appiattimento di molti personaggi, di una trama meno facile da seguire rispetto al primo film (si è tagliato un po' troppo materiale, come il rapimento di Mirai Noa, gli eventi del Kilimanjaro e dell'Operazione Apollo, etc.) e dell'assurda sparizione quasi istantanea di Rosamia e Amuro (alla faccia delle finalità dei tre film e del loro messaggio sulla collaborazione tra i due grandi rivali!), è giusto segnalare almeno l'interessantissimo destino alternativo di Four, estremamente più brutale di quello originale e narrato in una lunga scena inedita. Impossibile dimenticarselo.

La trilogia si conclude con L'Amore fa palpitare le stelle (2006), bel lungometraggio che, mutilando senza pietà le ultime 18 puntate dagli eventi sorvolabili e delle numerose (e spesso inutili) sottotrame, focalizza interamente a narrazione sulle mille cospirazioni politiche di Haman Karn e Paptimus Scirocco. La fitta, rapidissima rete di alleanze che si creano e disfano dall'oggi al domani, a seconda dei vantaggi che i due leader riescono a ricavare, offrendosi volta per volta al miglior offerente (operando al contempo mille voltafaccia), e che porterà alla rapida fine della guerra con poche battaglie sanguinose e devastanti, fa assumere all'avvincente thriller politico di Tomino le sue migliori espressioni, forte di due antagonisti affascinanti, sfuggenti e machiavellici e infarcito di grandi orazioni, furori ideologici e scontri di opposte visioni sul mondo e sulla società (magnifico il contrastato rapporto tra Haman e Char). Non era facile rendere comprensibile tutta la complessa impalcatura politica, in origine resa confusionaria dalle mille bizze di sceneggiatura che mescolavano insieme milioni di cose senza unità, e Tomino in questo caso è riuscito a farcela in modo chiaro ed epico (pur al costo di omettere momenti a mio parere bellissimi e imprescindibili come il famosissimo discorso di Char al Parlamento Federale di Dakar). Si continua un po' delusi a vedere ridotti al rango di macchiette personalità memorabili come Jerid, Emma e Reccoa e al contempo a veder dato più spazio a personaggi meno interessanti come Sarah e Katz Kobayashi, ma pazienza: alla fine, come i lavori precedenti, L'Amore fa palpitare le stelle vuole porsi come sintesi veloce e coerente dei 50 episodi in modo da rinfrescare bene la memoria ai fan storici e non vuole e non potrebbe mirare a essere altro nella sua durata non eccezionale. Ci si accontenta, si ricorda con nostalgia l'originale e si ammira l'80% delle sequenze rifatte da zero (praticamente quasi un film intero). Meritevole anche il nuovo finale, positivo come già si sapeva ma non per questo arido o deludente - del resto, a parte il nuovo destino di chi ben sappiamo, il bagno di sangue che si consuma nella battaglia finale di Gryps mantiene inalterato il suo enorme body count. Uniche perplessità consistono, nella battaglia conclusiva, nello spirito fluttuante di Rosamia, riciclato disordinatamente dalla serie e contraddittorio in quest'occasione (in A New Translation non muore, sparisce e basta senza spiegazioni!), e nel fatto che, in generale, ci si aspettava una parte maggiormente rilevante per Amuro viste le solite premesse della trilogia, cosa che non avviene proprio (alla fien rimane marginale come in origine).


Tirando le somme, il progetto A New Translation è nel complesso soddisfacente, a tratti molto buono: se Bandai avesse scommesso di più sulla sua portata stanziando più fondi, e se si fosse deciso di fare un quarto lungometraggio o di aumentare sensibilmente di durata dei tre, forse avremmo avuto dei titoloni in grado di rivaleggiare con quelli che riassumono la prima serie: una o due orette di durata in più avrebbero permesso di caratterizzare ancora meglio il cast e di includere alcuni eventi molto significativi del passato andati eliminati, e questo forse avrebbe davvero permesso all'opera di porsi come valida alternativa alla visione dell'originale. Così, invece, abbiamo "solo" dei bei film che rinfrescano la memoria ai fan dando loro un sacco di battaglie e dialoghi rigirati e riscritti da capo: sempre una gran cosa (e la critica se ne accorgerà, Eredi delle Stelle vincerà il premio di miglior film all'Animation Kobe del 2005, Tomino quello di miglior regista al Tokyo International Anime Fair del 20068), ma con un qualcosina di più avremmo avuto qualcosa davvero di gran livello.

Nota: i film sono distribuiti in Italia in DVD da Dynit. Sarebbe molto più gradita una versione in Blu-ray (chissà che un giorno...), ma per ora accontentiamoci, visto che quest'edizione contempla un booklet contenente approfondimenti e soprattutto interviste a Tomino, al produttore Keiichi Matsumura e al mecha designer Kunio Okawara (nonostante questi ultimi due non dicano nulla di realmente interessante visto il loro coinvolgimento molto relativo). Per quello che riguarda i DVD, si segnalano dialoghi molto fedelmente tradotti e soprattutto una perfetta, davvero ineccepibile distribuzione di un po' tutte le voci, a fronte però di una recitazione talvolta ingessata e spaesata. I lungometraggi di A New Translation sono, ad oggi, l'unico materiale animato dell'Era Spaziale a rinominare questa, anche in originale, con la sua nomenclatura internazionale, Universal Century).

Voto a Mobile Suit Z Gundam A New Translation - Eredi delle Stelle: 7 su 10
Voto a Mobile Suit Z Gundam A New Translation II - Amanti: 6,5 su 10
Voto a Mobile Suit Z Gundam A New Translation III - L'Amore fa palpitare le Stelle: 7 su 10

RIFERIMENTO 
Mobile Suit Gundam (1979-1980; TV)
Mobile Suit Gundam The Movie I (1981; film)
Mobile Suit Gundam The Movie II: Soldati del dolore (1981; film)
Mobile Suit Gundam The Movie III: Incontro nello spazio (1982; film)
Mobile Suit Z Gundam (1985-1986; TV)


FONTI
1 Consulenza di Garion-Oh (Cristian Giorgi, traduttore GP Publishing/J-Pop/Magic Press e articolista Dynit)
2 Come sopra
3 Come sopra
4 Intervista a Yoshiyuki Tomino pubblicata nel booklet del film "Mobile Suit Z Gundam A New Translation: Eredi delle Stelle" (Dynit, 2011)
5 Consulenza di Garion-Oh. Confermato a pag. 429 del saggio "Storia dell'animazione giapponese" (Guido Tavassi, Tunuè, 2012)
6 Vedere punto 1
7 Come sopra
8 "Storia dell'animazione giapponese", pag. 430

martedì 29 marzo 2011

Comprereste questo libro?


Io sicuramente no, non solo per il titolo ma anche perché scritto da quell'omuncolo che bazzica su questi lidi in cerca di gloria con le più brutte recensioni del blog (ma avete letto quella di Dokuro-chan 2? Cioè dai...).

Rimane la speranza che Edizioni XII abbiano editato e revisionato per bene il suo primo romanzo, all'occorrenza stravolgendolo per renderlo migliore di quello che è. Al massimo si può leggerlo in chiave comica, apprezzando l'innato talento comico di questo poveraccio che abita a Nanto (dove sta? Bella domanda) e che scrive di zanzare assassine che ronzano sul Brenta.

Costa all'incirca quanto un Naruto, se avete soldi da buttare per quello potete buttarli anche qui. Ah, ed è un e-book. Per reperirlo e sbefeggiarlo a dovere, rivolgetevi all'apposito link presente nel sito della casa editrice.

lunedì 28 marzo 2011

Recensione: High School of the Dead

HIGH SCHOOL OF THE DEAD
Titolo originale: Gakuen Mokushiroku
Regia: Tetsuro Araki
Soggetto: (basato sul fumetto originale di Daisuke Sato & Shouji Sato)
Sceneggiatura: Yousuke Kuroda, Tatsuya Takahashi
Musiche: Takafumi Wada
Studio: Mad House
Formato: serie televisiva di 12 episodi (durata ep. 24 min. circa)
Anno di trasmissione: 2010
Disponibilità: edizione italiana in dvd a cura di Yamato Video

In una tranquilla giornata primaverile scoppia la fine del mondo: una misteriosa epidemia trasforma gli uomini in cannibaleschi zombi, che iniziano così a sbranare e contagiare gli esseri umani portando a una diffusione rapidissima del morbo. In poco tempo l'intero mondo si trova a fronteggiare la tremenda minaccia: assistiamo alle avventure di Takashi Komuro, studente delle superiori che, insieme ad altre quattro ragazze salvate nella sua scuola, inziai una lunga, disperata fuga per raggiungere i suoi familiari...

Difficile commentare un anime come High School of the Dead, uscito l'anno scorso e subito assurto a capolavoro nel genere, senza fare diverse considerazioni. Basato sull'omonimo manga di Daisuke e Shoji Sato (pubblicato in Italia in modo vergognoso da Panini) High School è, essenzialmente, la celebrazione nippofila degli zombie-movie americani, splatterone che richiama e omaggia, già dal titolo, l'esalogia cinematografica grandguignolesca di Romero. Compendio di scene splatter (pur non indugiando nel gore) e divertenti dialoghi da b-movie, ma sopratutto di orde di morti viventi, tette ballonzolanti e audaci strizzatine ecchi à la Ikkitousen.

Spiegarne l'assoluto successo è semplice: High School rappresenta lo stato supremo della nobile arte del fanservice. Nessuna trama di sottofondo, nessuna caratterizzazione forte dei personaggi, puntate generalmente identiche l'una all'altra (il gruppo continua a fuggire massacrando orde di famelici zombi e Takashi, sporadicamente, finisce con l'isolarsi insieme a una delle bellezze mozzafiato del gruppo scoprendo che se la farebbe volentieri); il senso del tutto si riconduce alle stragi di zombi, ai generosi fiotti di sangue che schizzano dal primo all'ultimo episodio, alla morte di un gran numero di macchiette insopportabili, alla sfacciata bellezza delle quattro ragazze che sembrano fotomodelle e, soprattutto, alle loro grazie generosamente sbandierate in ogni dove e quando, in questo Giappone alternativo dove ogni studentessa delle superiori porta la quinta o sesta (evidente retaggio dei trascorsi nel fumetto erotico del disegnatore originale Shouji Sato).


Divertirci è compito di Mad House, che con il solito alto budget realizza una confezione tecnica/visiva sopraffina data da un chara super sexy, fedele all'eccitante tratto originale, strepitose animazioni e un'adrenalinica regia action di un ritrovato Tetsuro "Death Note" Araki. A impreziosire il tutto, l'affascinante gusto estetico in location depressive e apocalittiche (con l'uso intenso di ombreggiature e filtri violacei) e ben dodici ending, tutte cantate dallo stesso Maon Kurosaki e volte ad abbracciare ogni forma di heavy/alternative rock. E così, tra ogni genere di armi utilizzate per squartare zombi (shotgun, fucili da cecchino.... anche gli omaggi alla saga videoludica di Resident Evil si sprecano), civili allegramente sgranocchiati, ragazze talmente hot da far tremare la sedia e tette che si muovono in bullet time (per far passare in mezzo loro le pallottole, impara Matrix!), High School of the Dead si ritaglia un posto nell'Olimpo delle più geniali serie spiccatamente fanservice di ogni era. Purtroppo questo non basta a garantirgli l'impunità da ogni critica.

Il problema non è che High School si deve prendere solo come divertito omaggio al genere e quindi sorvolare sull'esilità della trama; è che, pur breve, questa serie sembra essere addirittura troppo lunga per quel che offre. Nonostante il ritmo, nonostante le tette, nonostante lo splatter, tutti e tre fonti iniziali di grande esaltazione, presto il gioco inizia a mostrare la corda. Dopo già, diciamo, i primi tre episodi, si inizia timidamente a sperare in qualche minimo risvolto di trama che spezzetti la ripetitività dell'azione. Purtroppo nessun risvolto coglie la trama che, linearmente (e seguendo abbastanza fedelmente i primi 4 volumi del manga), continua a trascinarsi mostrando sempre le stesse cose: cambieranno le ambientazioni, aumenterà il body count, avverrà qualche raro momento di critica sociale, marchio del genere (le immancabili riflessioni sul dover diventare cinici ed egoisti per sopravvivere in situazioni di estremo pericolo), ma la minestra è sempre la stessa. Sempre e solo azione fine a se stessa.


Vero che questo è anche il succo di un zombie-movie qualsiasi, ma penso che anche Dawn of the Dead, con una durata di 300 minuti, finirebbe con lo stancarci. Decisamente preferibile il fumetto: più spigliato, veloce, meno noioso nell'enfatizzare in ogni momento le curve del cast di modelle. Inutile comunque fare troppo le pulci a una serie di puro cazzeggio come questa: c'è brio ed è pieno di pupe semi-nude, per molti può bastare. Dedicato sopratutto agli amanti dell'horror seriale e senza pretese alla Friday the 13th.

Voto: 6,5 su 10

SEQUEL
High School of the Dead: Drifters of the Dead (2011; ova)

giovedì 24 marzo 2011

Recensione: Armored Trooper Votoms - Case; Irvine

ARMORED TROOPER VOTOMS: CASE; IRVINE
Titolo originale: Sōkō Kihei Votoms - Case; Irvine
Regia: Shisho Igarashi
Soggetto: Hajime Yatate
Sceneggiatura: Takuya Sato
Character Design: Hirokazu Hisayuki
Mechanical Design: Kunio Okawara, Kenji Teraoka
Musiche: Yoshihiro Ike
Studio: Sunrise
Formato: OVA (durata 49 min. circa)
Anno di uscita: 2010


Non si può certo negare che il 2010 sia stato di grande interesse per il futuro del franchise Votoms. Non si spiegherebbero, altrimenti, l'uscita della miniserie Phantom Arc e l'annuncio di tre nuovi OVA, a testimonianza dell'interesse che a tutt'oggi il pubblico nipponico nutre per il primo vero Real Robot della Storia, creato a inizio anni 80 da Ryousuke Takahashi. Di questi, però, a parte il nuovo capitolo diretto da Takahashi (Alone, again), gli altri due, Case; Irvine e Votoms Finder, rappresentano l'infausta idea di Sunrise di trasformare Votoms in un nuovo Gundam, creando i presupposti per un franchise commerciale, adatto alle nuove generazioni, non più diretto e disegnato dalla coppia Takahashio/Shioyama ma affidato ai più noti registi e chara designer moderni. Il tempo dirà se questo nuovo avvio della saga, purtroppo non rappresentante un reboot (i nuovi progetti saranno disgraziatamente considerati in continuity, pur non azzeccandoci nulla con le atmosfere classiche), avrà fortuna o si tramuterà nell'epitaffio definitivo a una storia che ormai lo stesso creatore ammette di non saper più come continuare. Quello che conta è che il primo passo del revival, Case; Irvine, è assolutamente da bocciare.

Ambientato in un anno dell'Astragius History che curiosamente non è dato sapere (visto che fa riferimento alla fine della guerra Gilgamesh-Balarant ho ritenuto opportuno considerarlo una side-story dell'anno di pace narrato nell'ultimo episodio della serie tv originale, come Big Battle), Case; Irvine narra le vicissitudini di questo giovane reduce biondo che, per badare a se stesso e alla sorella, si guadagna da vivere combattendo con gli AT in arene clandestine. Il villain è rappresentato da uno dei suoi avversari, lo psicopatico lottatore Paegan, che in questi scontri criminali si è guadagnato il temuto soprannome di Shinigami uccidendo tutti i suoi avversari. Scontato dire che l'animale sarà sconfitto e risparmiato da Irvine (nella sequenza d'apertura), così come che prenderà la cosa parecchio male, andando di matto e distruggendo tutti fino alla scontro finale con l'eroe. Poco da dire su un soggetto talmente esile e banale da sembrare un affronto: Case; Irvine è proprio un riempitivo allungato a dismisura per stare in 50 minuti, comprensivo di personaggi fatti con lo stampino, temi potenzialmente interessanti buttati qua e là tanto per (il soldato che ha compiuto orribili azioni in guerra ed è perseguitato dal rimorso, peccato Irvine non abbia la profondità di Chirico) e confezionato con una patina ultra-commerciale insopportabile.


Si rivolevano gli Armored Trooper non fatti interamente in CG? Si è stati accontentati (ovviamente con colorazioni e ombreggiature ultra-moderne: i modelli "sporchi", artigianali e disegnati a mano degli anni 80 scordiamoceli una volta per tutte), ma i robot sono calati in ambientazioni che sono un pugno in un occhio, dove prevalgono cromatismi pacchiani e sgargianti come rosa, fucsia e giallo, un Votoms scandalosamente truzzo che nessuno avrebbe mai voluto vedere. Idem il chara del neo entrato Hirokazu Hisayuki: chi scrive ha decantato l'espressività del suo tratto in My-Hime, ma poco da fare, i suoi volti gommosi sono tremendamente fuori posto nel contesto serioso della serie, rappresentando solo altro motivo di sdegno per lo sputtanamento di una delle saghe più drammatiche di Sunrise.

Per concludere, se la produzione tutto sommato si lascia guardare senza troppa noia nonostante la prevedibilità totale e tutti i suoi momenti telefonati, riesce a irritare, se possibile ancora di più, l'assenza di scene particolarmente esplicite, in questa "storia" di un folle che si mette a dare vita a massacri per divertimento: mancano sangue, cattiveria, atmosfera... Case; Irvine è proprio rivolto a una fascia di ragazzini che non hanno mai visto Votoms e, come tutti i revival atti ad addolcire le serie classiche per espanderle a un pubblico più variegato possibile, riesce solo a disgustare i fan storici e a non comunicare niente alle nuove generazioni.

Voto: 4 su 10

PREQUEL
Armored Trooper Votoms: Red Shoulder Document - Roots of Ambition (1988; ova)
Armored Trooper Votoms: Pailsen Files (2007-2008; ova)
Armored Trooper Votoms Pailsen Files: The Movie (2009; film)
Amor Hunter Mellowlink (1988-1989; ova)
Armored Trooper Votoms (1983-1984; tv)
Armored Trooper Votoms: The Last Red Shoulder (1985; ova)
Armored Trooper Votoms: Big Battle (1986; ova)

SEQUEL
Armored Trooper Votoms: The Heretic Saint (1994; ova)
Armored Trooper Votoms: Alone, again (2011; ova)
Armored Trooper Votoms: Phantom Arc (2010; ova)

martedì 22 marzo 2011

Recensione: Armored Trooper Votoms - Phantom Arc

ARMORED TROOPER VOTOMS: PHANTOM ARC
Titolo originale: Sōkō Kihei Votoms - Gen-ei Hen
Regia: Ryousuke Takahashi
Soggetto: Hajime Yatate
Sceneggiatura: Yoshitake Suzuki
Character Design: Norio Shioyama
Mechanical Design: Kunio Okawara
Musiche: Hiroki Inui, Yasuaki Maejima
Studio: Sunrise
Formato: serie OVA di 6 episodi (durata ep. 24 min. circa)
Anno di uscita: 2010

 
Siamo nuovamente fermi a trent'anni dopo la fine della serie tv di Votoms, poco dopo gli avvenimenti di Heretic Saint e Alone, again. Per rinsaldare un rapporto di coppia in crisi, Vanilla e Coconna decidono, insieme al'inseparabile Gotho, di rivisitare tutti i luoghi delle loro avventure, in modo da eventualmente ritrovare Chirico le cui tracce si disperdono nel nulla da mesi. È l'inizio di un'insolita vicenda che li porta successivamente a ritrovare l'amico e a combattere insieme a lui, e a vecchi alleati,  contro forze religiose che vogliono impedire la nascita di un nuovo messia che subentri al divino Wiseman...

Phantom Arc è un sentito tributo alla fantastica serie televisiva degli anni '80, ma anche, rappresentandone l'epilogo definitivo, uno dei tasselli più importanti dell'universo creato da Ryousuke Takahashi. Sfortunatamente, però, i posteri lo ricorderanno come una miniserie qualitativamente altalenante, di quelle proverbiali occasioni mancate. Offre una storia che, sì, si caratterizza per un finale compiuto che chiude senza danni la saga, avulsa da stonature eclatanti, ma che è anche raccontata in modo troppo sbrigativo per stamparsi adeguatamente alla memoria, con scelte narrative senza fantasia unite e una cura tecnica irrispettosa, ancora una volta, del costoso formato di destinazione. Una delusione, pensando anche ai motivi di esaltazione iniziali offerti dallo script di Yoshitake Suzuki: il suo soggetto converge persone, fatti e luoghi dei mille capitoli precedenti in un unico showdown finale, trasformando quello che è conti fatti un seguito in un'opera di celebrazione dei trent'anni del franchise. Restituisce lustro a personalità "dimenticate" come Potaria, Ru Shakko, il papa Montewells e la vendicativa Zophie, al prezzo però di renderle protagoniste di una vicenda estremamente banale, che ripete senza fantasia l'incipit di Heretic Saint e la conclusione della serie storica, non si sa se per operazione nostalgia o mancanza di ispirazione. Fa storcere il naso un capitolo finale sui generis e privo di intrecci realmente originali, tanto da sembrare addirittura un riempitivo, ma non abbastanza da intaccare gli elementi di interesse che da sempre sono costanti nella saga, come il rigore maniacale in dialoghi e la curata caratterizzazione del background politico/religioso. Il solito mestiere, anche se dietro a una storia non eccezionale.


Il principale motivo di interesse di Phantom Arc è sicuramente rappresentato dalle strizzatine d'occhio con cui sono rievocate le atmosfere dell'originale televisivo. Non solo nel ritorno, ai sensi di trama, di luoghi e personaggi "mitici" scomparsi nei numerosi OVA post-1984, ma anche per il riutilizzo delle indimenticabili opening/ending televisive della serie tv cantate dal "preistorico" Tetsuro Oda, e l'uso, nella colonna sonora, di sonorità estremamente "vintage" degli anni Ottanta che riportano la mente a quel periodo. Nulla da dire, Ryousuke Takahashi riesce a far commuovere lo spettatore, con questi artifizi, facendolo pensare a come quei 52 indimenticabili, corposissimi episodi formino oggi, con tutti gli spin-off realizzati negli anni successivi e culminanti in questo, un carismatico, gigantesco mosaico che abbraccia un immaginario arco temporale di quasi un secolo e mezzo.

A contribuire al risultato purtroppo modesto - che però, inaspettatamente, sembra essere andato sufficientemente bene in madrepatria, tanto da convincere Sunrise, lo stesso anno, a tentare uno spiazzante revival della saga, rivolgendo Votoms a un pubblico più giovane con gli orribili Case; Irvine e Finder -, ci pensa oltretutto una mediocre confezione. Inutile rivangare quanto fossero belli gli anni Ottanta e quanto più realistici, fisici e "corposi" sembravano i mecha di Gundam o Votoms quand'erano disegnati unicamente a mano e in modo tradizionale... A dispetto della rievocazione storica delle atmosfere, in Phantom Arc i verdi robot bipedi tornano a essere realizzati interamente al PC, in una cel-shading modaiola che, anche se superiore alla pacchiana CG del precedente Pailsen Files, continua a disgustare e irritare, perché Sunrise persevera nel lavorare al risparmio su una delle sue serie più iconiche, facendo ripercuotere il low budget non solo nella bruttura dei robot ma anche nella qualità altalenante delle animazioni dei personaggi e nell'approssimativa amalgama tra disegni e mano e computer, che annacquano il chara design d'autore di Norio Shioyama che è ormai quasi irriconoscibile.


Un grande peccato che la realizzazione dell'episodio conclusivo di Votoms venga fuori così, tecnicamente a (sopratutto) narrativamente migliorabile, ma è inutile stare a rimuginarci troppo sopra. A dispetto di questo Phantom Arc è guardabile, per i maniaci della continuity addirittura commovente, e, pur facendosi ricordare come un'occasione riuscita solo a metà, rimane una prova sufficiente, da parte di Ryousuke Takahashi, per la creatura alla quale deve molta della sua fama.

Voto: 6 su 10

PREQUEL
Armored Trooper Votoms: Red Shoulder Document - Roots of Ambition (1988; ova)

venerdì 18 marzo 2011

Recensione: FLCL

FLCL
Titolo originale: Furi Kuri
Regia: Kazuya Tsurumaki
Soggetto: Kazuya Tsurumaki
Sceneggiatura: Yoji Enokido
Character Design: Yoshiyuki Sadamoto
Mechanical Design: Yoshiyuki Sadamoto, Yoshitsune Izuna
Musiche: Shinkichi Mitsumune, The Pillows
Studio: GAINAX, Production I.G
Formato: serie OVA di 6 episodi (durata ep. 30 min. circa)
Anni di uscita: 2000 - 2001
Disponibilità: edizione italiana in DVD a cura di Dynit


Timido e taciturno, il giovane Naota abita in una strana città, sovrastata da una gigantesco edificio a forma di ferro da stiro che rilascia impressionanti nubi di vapore. Abita con il padre, folle otaku, e passa tutto il tempo con Manimi, la ragazza di suo fratello, che compensa la lontananza del fidanzato, partito per l’America per giocare a baseball, provocandolo continuamente. Come se non bastasse, un giorno Naota viene investito da Haruto, una pazza scriteriata che guida una vespa e suona il basso. Lei tuttavia non lo soccorre, bensì torna indietro e lo colpisce in testa con il manico dello strumento musicale. Sulla fronte di Naota, contro ogni logica naturale, cresce un bernoccolo smisurato, tanto che, una sera, ne fuoriesce addirittura un robot, Canti…

Forse l’opera più rappresentativa, o quantomeno la più singolare, dello studio GAINAX, per ambizioni, mire, successo, FLCL (2000) incarna una filosofia demenziale totalmente priva di limiti. Ostico descrivere l’incontenibile squilibrio che sprigiona questa mini-serie di 6 episodi, e alquanto difficile anche solo approcciarsi a tanta pazzia. Viene infatti immediato accostare una certa demenzialità a qualcosa di paradossale, che garantisca facili risate, spensierate, magari anche stupide, di pancia (pensiamo per esempio, senza andare tanto lontano, ad Abenobashi - Il quartiere commerciale di magia, 2002). Ma con FLCL è necessaria una visione attenta e dettagliata, la follia narrativa e registica è talmente stralunata che senza un giusto approccio il rischio di disprezzare l’opera, svilendone lo spirito, è piuttosto alto. D’altro canto, il ricorso a un non-sense urlato e delirante è un aspetto delicato e pericoloso che potrebbe rivelarsi controproducente, se mal gestito o mal sopportato.

Ma FLCL non si fa alcun problema, butta nel calderone qualsiasi cosa, dalle citazioni più impensabili (persino un richiamo a South Park) alle trovate visive più impossibili (due lunghe sequenze sotto forma di manga, rappresentate però a velocità rapidissime tanto da far attorcigliare gli occhi), imbastisce una storia sci-fi/robotica che vede cospirazioni aliene per la conquista della Terra attraverso una stimolazione neurale che cancella il cervello per aprire varchi in dimensioni parallele (!!!), e sommerge il tutto con un umorismo spesso illogico, privo di fondamenta, ma non per questo meno divertente, così esagerato da rimanere storditi (sfido chiunque a trattenere un’espressione sbalordita quando il bernoccolo di Naota diventa grande come una moto e partorisce un robot di due metri).


La comicità non è sempre a fuoco, capita sovente di smarrirsi e chiedersi chi-abbia-fatto-cosa, e l’esasperazione caricaturale a volte annichilisce, obbligando a seguire interi passaggi immotivati, che paiono crearsi dal nulla. La trama principale affiora e si inabissa, splende e scompare, sembra prima componente fondamentale e poi soltanto un pretesto e viceversa, vive insomma di alti e bassi impossibili da attribuire a precise scelte narrative o buchi di sceneggiatura. E se presenta un’invidiabile, enorme mole di stuzzicanti elementi sci-fi, trovate geniali che lasciano di stucco e sviluppi assolutamente febbricitanti, ne tira poi assurdamente i fili senza perdere troppo tempo a dare spiegazioni adeguate privilegiando, sempre, la componente comica e fracassona e spesso insensata (esemplare l’episodio in cui Naota sconfigge un potente nemico colpendolo con un basso quando avrebbe potuto usare qualsiasi tipo di arma). Complicato quindi poterne parlare francamente: si tratta di strategie narrative e demenziali che, più di qualsiasi altro anime, vanno provate in prima persona. Potranno piacere o meno, ma di certo non lasciano indifferenti.

Due sono però le caratteristiche che rendono FLCL un’opera di cui si consiglia caldamente la visione: i personaggi e la colonna sonora. I primi vengono infatti tratteggiati in maniera strabiliante, e pur non scostandosi molto dalle classiche psicologie del genere (il ragazzetto un po’ timido a cui succede di tutto e la pazza urlatrice, giusto per citare i due principali), nella loro contestuale assurdità sono talmente veri e profondi da provare, sin da subito, un grande affetto verso di loro (su tutti, Manimi e il suo anomalo attaccamento a Naota). La colonna sonora, invece, interamente costituita da trascinanti brani rock scritti ed eseguiti dai The Pillows, funge da magnifico, magnifico amalgama, incollandosi, ora malinconica e triste, ora agguerrita e roboante, alle disavventure di Naota e compari. Splendido infine il comparto tecnico, con il caratteristico e colorato chara di Sadamoto, impreziosito dal furbo, visionario tocco erotico di Kazuya Tsurumaki alla regia (qui al suo primo vero esordio da "titolare", dopo Le situazioni di Lui e Lei, 1998), che vive attraverso sfavillanti animazioni.


Squinternato e incoerente, eppure esilarante e intelligente, FLCL è una scheggia anomala dell’animazione nipponica, un’opera che potreste lodare, schifare o che potrebbe semplicemente lasciarvi perplessi. Mai è stato così arduo dare un giudizio, il voto là sotto è puramente indicativo, l’unico equilibrio possibile tra i mille pregi, o difetti, o entrambe le cose di questa schizofrenia visiva.

Voto: 6 su 10

mercoledì 16 marzo 2011

Recensione: The Squid Girl - The Invader Comes From the Bottom of the Sea!

THE SQUID GIRL: THE INVADER COMES FROM THE BOTTOM OF THE SEA!
Titolo originale: Shinryaku! Ika Musume
Regia: Tsutomu Mizushima
Soggetto: (basato sul fumetto originale di Masahiro Anbe)
Sceneggiatura: Michiko Yokote
Character Design: Masakazu Ishikawa
Musiche: Tomoki Kikuya
Studio: Diomedea
Formato: serie televisiva di 12 episodi (durata ep. 24 min. circa)
Anno di trasmissione: 2010

 
Adirata per l'inquinamento umano che rischia di distruggere il regno marino, Squid Girl, ragazza-totano, decide di conquistare la Terra con i suoi micidiali poteri. Distrutto parte di un bar sulla spiaggia come monito agli umani, si trova costretta da Eiko e Chizuru, giovani proprietarie del locale, a ripagare i danni lavorando per loro...

Io stimo il regista Tsutomu Mizushima. Mi ha ucciso dalle risate con le due serie di Dokuro-chan, e diversi altri suoi lavori sono spesso dipinti nell'ambiente come opere di grande comicità (Haré+Guu, Kemeko Deluxe!), o partono quantomeno da ottime premesse (Girls und Panzer). Talvolta lo si è ritrovato sottotono (Punie-chan), ma comunque ai livelli di saper garantire grasse risate in più frangenti, con il suo portentoso e macabro senso di comicità demenzial-splatter e qualche zampata da leone nei dialoghi. Nel 2010 dirige, basato su un manga 4-koma, Squid-Girl, le avventure di una ragazza-totano col pallino di conquistare il mondo, ed è facile esaltarsi pensando ai ben dodici episodi previsti. Se possibile ancora di più al momento dell'ascolto della strepitosa opening Shinryaku no Susume, allegrissima e demenziale canzonetta che ricorda tanto quella dell'adorata Dokuro-chan. Eppure Mizushima delude come mai prima, con una serie mediocre che non riesce in alcun modo a far ridere, un anticipo del risultato altrettanto catastrofico che lo coglie l'anno successivo con il terribile Blood-C. Il regista ha tra le mani una ragazzina che vomita inchiostro, dotata di capelli tentacolosi con cui molestare gli sventurati che le capitano a tiro, insieme a un cast felicemente allucinato (tra folli scienziati del MIT, lesbichette inopportune e bagnini idioti), e tutto quello che riesce a tirar fuori sono sorrisetti stentati qua e là.

In qualche rara occasione, bisogna riconoscerlo, Squid-Girl riesce a far centro, tipo quando il getto d'inchiostro della bizzarra protagonista è usato in modo politicamente scorretto (un paio di volte in tutto però, che amarezza...), in occasione dell'orrorifico episodio delle bambole, o anche in alcune trovate isolate tipo il primo giorno di scuola dell'eroina, le diaboliche invenzioni dei professori del MIT o lo scontro con la grottesca ragazza-totano meccanica, ma è troppo poco per riscattare l'opera. Tira troppo la corda, davvero troppo, Mizushima, con faccine kawaii, gag puerili ripetute all'infinito (gli "assalti" della lesbica Sanae), l'uso marginale dei migliori elementi del cast, e numerose trovate di comicità davvero di lega infantilissima.


È una mediocre opera di sceneggiatura quella dello staff Michiko Yokote, la riproposizione di buona parte degli episodi del manga riportati sottoforma di brevi sketch (5/6 minuti ciascuno) ma senza alcun tentativo di migliorarli, sfruttando la nota vena politically scorrect del regista. Quest'ultimo ha abituato i suoi fan a gag frenetiche, violenza immotivata e dissacrante, disavventure varie con urla disumane ogni tre secondi: qui non c'è nulla, se non una insopportabile donna-calamaro che ripete ogni volta che conquisterà il mondo e si ritrova a ripetere all'infinito le stesse azioni, come meravigliarsi per ogni oggetto umano di cui non conosce il significato, commuoversi quando gli umani si impauriscono di lei, pensare terrorizzata e Chizuru (uno dei suoi datori di lavori, che dietro la facciata tranquillissima nasconde arti marziali assassine), giocare a comandare dei bambini... C'è tanto di quel buonismo che neanche si riconosce più il regista. La sua eroina è fiacca, senz'anima, fuori posto in una produzione scadente per cui ogni episodio fa attendere ansiosamente di giungere al termine. Direi che non c'è altro da dire.

Voto: 5 su 10

SEQUEL
The Squid Girl: The Invader Comes From the Bottom of the Sea 2 (2011; tv)

lunedì 14 marzo 2011

Recensione: The Disappearance of Haruhi Suzumiya

THE DISAPPEARANCE OF HARUHI SUZUMIYA
Titolo originale: Suzumiya Haruhi no Shōshitsu
Regia: Yasuhiro Takemoto
Soggetto: (basato sui romanzi originali di Nagaru Tanigawa)
Sceneggiatura: Fumihiko Shimo
Character Design: Shoko Ikeda
Musiche: Satoru Kousaki
Studio: Kyoto Animation
Formato: film cinematografico (durata 163 min. circa)
Anno di uscita: 2010

 
Ci avviciniamo a Natale e, come sempre e con gran dispiacere del povero Kyon, Haruhi è in fermento con i preparativi per i festeggiamenti. Il ragazzo non immagina quanto rimpiangerà questi momenti quando, il 18 dicembre, si risveglia in una realtà alternativa dove la ragazza non c'è più, gli altri membri della Brigata SOS non si conoscono e Asakura è ancora nella sua classe. È finito nel passato? Nel futuro? In un nuovo presente? Completamente solo, Kyon cerca di indagare per trovare un modo di tornare alla sua realtà...

Lo ammetto, chi scrive è stato fra i primi ad approcciarsi malamente al film di Haruhi temendo un mattone. Non dimenticando l'originalità della prima serie (seppur rovinata, e non di poco, dalla soppressione dell'ordine casuale di trasmissione degli episodi nei dvd "canon"), ma neanche la delusione della seconda stagione dove, Endless Eight a parte (che si può solo amare o odiare, più la seconda), il tutto si riduce a un generico e inutile allungamento di brodo. Si arriva così a The Disappearance of Haruhi Suzumiya, filmone di quasi tre ore basato sulla vicenda portante della quarta light novel. A dispetto della vittoria all'Animation Kobe (come miglior lungometraggio del 2010), iniziando il film è facile temere le solite atmosfere solari alla slice of life protratte per un tempo spropositato, e invece The Disappearance è, probabilmente, il miglior prodotto animato in assoluto dedicato a Haruhi. Film lunghissimo che vola via senza neanche accorgersene, con una trama appassionante che, e qui sta l'ennesima follia di Kyoto Animation, non ha nulla a che spartire con le atmosfere a cui si è abituati. Il succo del racconto è infatti la drammatica storia di un Kyon abbandonato a se stesso, alla disperata ricerca di indizi che possano fargli capire come è riuscito a finire in una realtà parallela (sarà davvero così?) dove la Brigata SOS non esiste. Un'incursione curiosa nel genere sci-fi puro, quello di viaggi nel tempo, timeline alterate e paradossi temporali, dove non mancano onnipresenti atmosfere drammatiche e malinconiche, addirittura cupe nel ritrarre questo ragazzo sull'orlo di una crisi depressiva. Stralunante sotto ogni punto di vista, The Disappearance è il miglior epilogo possibile (difficile pensare verranno trasposti anche i restanti volumi della light novel, quasi tutti riconosciuti come flop) delle assurde avventure di Haruhi, spiazzante cambio di scenario interessato più a far luce sul rapporto di amicizia che lega i ragazzi piuttosto che ritrarre per l'ennesima volta le loro solari avventure quotidiane.

Inutile tessere nuovamente le lodi ad animazioni e doppiaggio, se possibile addirittura superiori alle serie tv, così come alla perizia tecnica Kyoto Animation nel mescolare CG e disegni tradizionali con un'armonia tale da far sembrare tutt'uno. Di diverso dal solito, oltre al cambio di concept, ci sono le musiche, sonorità inedite in tema con la serietà della storia e di buon livello, con alcune composizioni addirittura epiche nei momenti decisivi.


Eccelsa la sceneggiatura: come accennato la lunghezza del film neanche si sente grazie a uno script perfetto. Tutto è basato unicamente su dialoghi, dialoghi e ancora dialoghi, ma il soggetto è così intrigante e la messa in scena così ottima, senza tempi morti e fluida, che le due ore e quaranta non si sentono rispetto alla mole di rivelazioni e genialità che tengono col fiato sospeso (tra cui una inedita super-moe Yuki Nagato e una certa "scelta" che dovrà compiere Kyon a fine film) fino all'incredibilmente sanguinoso (!!) finale. Nessuno spazio purtroppo per disquisire maggiormente sui plot twist di questa assurda storia (qualsiasi spoiler distruggerebbe l'intero impianto misterioso su cui si basa); l'ultima considerazione che mi permetto di fare è che questo film è praticamente scevro da difetti rilevanti. Non c'è nulla fuori posto, neanche un minuto di animazione superflua visto che solo con un simile minutaggio Kyoto Animation riesce a far empatizzare lo spettatore con le vicissitudini interiori di Kyon, addirittura portandolo quasi a commuoversi con lui nei momenti più evocativi. Davvero un lavoro di grande livello, che chiude nel modo migliore, rispettandone le regole "folli", uno dei franchise più originali degli ultimi anni. Applausi, e anche tanta amarezza per l'inevitabile magone che viene ogni qual volta si arriva al capolinea delle avventure di un gruppo di ben caratterizzati personaggi.

Voto: 8,5 su 10

PREQUEL
La malinconia di Haruhi Suzumiya (2006; tv)
The Melanchony of Haruhi Suzumiya (2009; tv)

mercoledì 9 marzo 2011

Recensione: Blue Gender

BLUE GENDER
Titolo originale: Blue Gender
Regia: Masashi Abe
Soggetto: Ryousuke Takahashi
Sceneggiatura: Katsumi Hasegawa
Character Design: Fuminori Kizaki, Koji Watanabe
Mechanical Design: Koji Watanabe
Musiche: Kuniaki Haishima
Studio: AIC
Formato: serie televisiva di 26 episodi (durata ep. 24 min. circa)
Anni di trasmissione: 1999 - 2000

 

Affetto da un male incurabile, Yuji Kaido viene ibernato in modo da essere salvato, quando la scienza farà progressi, in un lontano futuro. Si risveglia invece in un mondo in rovina e invaso dai Blue, insettoni alieni famelici di carne umana. Unitosi a una task force militare sopravissuta all'invasione dei Blue e dotata di avanzati mecha da battaglia, scopre che una parte della popolazione umana esiste ancora e risiede nella Second Earth, gigantesca stazione scientifica orbitante sopra la Terra. Insieme ai compagni il ragazzo inizia quindi una pericolosa odissea per raggiungerla...

Se peccare di originalità dovesse essere un difetto, sarebbero poche, pochissime le produzioni artistiche che si salverebbero da una stroncatura. Ma fortunatamente un conto è clonare nel modo più banale, un altro con classe. Solo così è possibile apprezzare lavori come un Blue Gender qualsiasi, ideato dal maestro delle storie robotiche/militari Ryousuke Takahashi e che debutta nelle tv giapponesi nell'ottobre 1999 ritagliandosi presto un buon nugolo di fan, entusiasi da come l'autore riesce a farsi produrre da AIC una serie televisiva insolitamente adulta nei temi e nelle immagini. Votoms con gli insettoni alieni? Starship Troopers coi mecha? Un po' entrambi, ma scritto e diretto in modo dignitoso, nonostante puzzi di stantìo già dal primo episodio.

A scanso di equivoci: se per l'eventuale spettatore non è un problema guardare una serie di cui intuisce subito dove andrà a parare, lo attende una visione estremamente piacevole. Impossibile aspettarsi qualcosa di diverso dalla classica storia post-apocalittica dove il protagonista debole, idealistica e impacciato si ritrova a viaggiare insieme a una militare dura, cinica e bellissima per giungere alla salvezza. Inevitabili la love story, lo sbattere il grugno dell'eroe contro la disumana logica dell' "arte della sopravvivenza", i suoi classici scruopoli di coscienza che porteranno gravi conseguenze a chi gli sta intorno... Si viaggia sui binari del più classico survival, solo con robot bipedi usati per sconfiggere l'affamato Blue di turno invece di fucili a pompa. Clichè che tornano a colpire la storia anche dopo il primo arco narrativo, quando fanno capolino esperimenti militari atti a creare super uomini, deliri di onnipotenza di chi vuole diventare divinità del nuovo mondo, il "mostro di Frankenstein" che si ribella al creatore, la scoperta di come la Terra torni al benessere ecologico dopo che buona parte dell'umanità è spazzata via... Chiaro che con tutti questi stereotipi non si può sperare neanche una volta in una qualche svolta che tiri fuori qualcosa di nuovo, ma nonostante tutto questo, appunto, Blue Gender è una serie televisiva che ha i suoi meriti.


Pur con i suoi limiti, già dal primo episodio cattura l'attenzione per non lasciarla più, calando lo spettatore nell'azione e rendendolo partecipe dell'iniziale smarrimento dello sfortunato Yuji, appena svegliatosi dal lungo sonno in una base medica invasa dei Blue. L'empatia che si instaura con lui e le sue emozioni è sincera, tanto che ci si ritrova immediatamente a vivere il suo terrore e a trovare come lui speranza e seduzione nella bella Marlene che diventa la sua guida per la sopravvivenza. Pur vestendo panni abbastanza banali i due sono piacevolmente caratterizzati, stesso discorso per la compagnia di comprimari. Blue Gender è un ottimo esempio di serie televisiva che scorre benissimo, senza mai perdersi in punti morti e tenendo desta l'attenzione con dialoghi semplici e realistici, azione, scene horror ed esplosioni di violenza, splatter e cinismo, ingredienti rari in una produzione televisiva e che per questo giungono inaspettati accrescendo il suo carisma. Addirittura non mancano accenni sessuali anche pesanti come orgie e rapporti sessuali, scene che, pur accennate più che mostrate esplicitamente, fanno il loro dovere nel suggerire la natura adulta della produzione.

Seppure infarcita di luoghi comuni, l'opera di Takahashi, lontana non solo dai complessi intrecci dell'autore ma anche dai suoi rigosissimi apparati politici/militari, si fa guardare senza mai stancare. Sarà la bellezza dell'azzeccatissima opening rock Tokihanate!, saranno i temi adulti, saranno i disegni piacevoli, la sceneggiatura scorrevole, i personaggi gradevoli, il fattore di politically uncorrect di truci scene di violenza sui bambini.... Qualsiasi sia il principale ingrediente segreto dell'opera, riesce nell'intento di convincere chi visiona a trascurare la banalità del soggetto, le animazioni giusto sufficienti, il mecha design anonimissimo e la regia che più patinata di così si muore. Notevole. Visione favolosa a cervello spento, Blue Gender pur non non avendo assolutamente nulla di memorabile fa il suo onesto mestiere di intrattenere bene, benissimo, e il brio con cui è scritto e confezionato garantisce lunghe, classiche maratone di episodi che scorrono via come un fiume. Chi cerca una storia sci-fi/robotica senza alcuna pretesa, accattivante e user friendly al massimo e dalle gustose spruzzate horror, deve seriamente prenderlo in considerazione.


Degno di nota, una volta tanto, anche il cosidetto film di montaggio realizzato due anni dopo, The Warrior. Un recap fatto con gran classe, visionabile anche autonomamente, che a dispetto della sua natura riassuntiva stupisce con numerose sequenze inedite, un aumento del lato gore e una pesante modifica al secondo arco narrativo, contemplando un finale nuovo di zecca. E ancora, a testimonianza dell'impegno profuso dallo studio, The Warrior si fa ricordare anche per un meticoloso aggiornamento grafico di quasi ogni singolo fotogramma della serie tv, con molti elementi visivi ridisegnati (ad esempio i capelli di Yuji), a fornire quasi l'impressione di vedere una nuova storia. Un grande lavoro che consiglio caldamente un po' a tutti, per apprezzare uno delle poche Special Edition fatte col cuore, per grande merito di AIC.

Voto: 7 su 10

ALTERNATE RETELLING
Blue Gender: The Warrior (2002; film)

lunedì 7 marzo 2011

Recensione: Il nostro gioco (Bokurano)

IL NOSTRO GIOCO
Titolo originale: Bokurano
Regia: Hiroyuki Morita
Soggetto: (basato sul fumetto originale di Mohiro Kitoh)
Character Design: Kenichi Konishi
Mechanical Design: Shingo Natsume
Musiche: Yuuji Nomi
Studio: GONZO
Formato: serie televisiva di 24 episodi (durata ep. 24 min. circa)
Anno di trasmissione: 2007

 
In un futuro non molto lontano alcuni ragazzini, dopo aver incontrato un individuo misterioso in una grotta in riva al mare, vengono scelti per pilotare un colossale mecha da combattimento. Creduto dapprima di partecipare a un videogame interattivo, i ragazzi, imprudentemente, accettano l’incarico di sfidare quindici mecha alieni. Ma non è di certo un gioco, quello in cui si ritrovano coinvolti: di scontro in scontro, infatti, il ragazzino assegnato di turno alla guida dello Zearth, nome da loro dato al veicolo, viene prosciugato delle energie vitali andando incontro a morte. Sapendo quindi dell’inevitabile destino che li attende, i ragazzi cercano di vivere pienamente le ultime ore che rimangono loro…

Bisogna avere del fegato per sopravvivere alla tragica crudeltà che anima Il nostro gioco. Non è infatti nello spietato, terribile colpo di scena che l’anime di Hiroyuki Morita e, prima di lui, il manga di Mohiro Kitoh, cerca di colpire lo spettatore, non è nella morte improvvisa dei protagonista che l’opera vuole traumatizzare, bensì nell’angosciosa consapevolezza con cui i giovani piloti dello Zearth sanno di non avere speranza alcuna, di non poter sottrarsi in nessun modo al vincolo che li lega al mecha, di essere costretti a combattere e quindi a morire. E se, inizialmente, lo shock per la prima morte è feroce quanto lo straziante, straziante funerale che ne segue, si apprezza con sollievo la scelta narrativa di Morita, che predilige drammatica funzionalità alla storia piuttosto che uno studio particolareggiato di ansie, timori e dolori che dovrebbero portare i ragazzi a un unico, possibile esito: pazzia.

Non era infatti possibile dare totale credibilità alla vicenda – pur incatenati dal legame con lo Zearth per un importante snodo di trama, dei protagonisti così giovani difficilmente potrebbero reagire con tale sangue freddo e caparbia coscienza al loro mero destino – eppure non si sente mai la necessità di maggior realismo psicologico. Le costruzioni caratteriali di ogni singolo personaggio, nella loro giustissima praticità alla storia complessiva, offrono sempre risvolti diversificati e verosimili, e se nella prima metà è decisamente arduo poter percepire lo spettro di differenze interiori (troppi i personaggi e troppo veloce la puntualità dei decessi), nella seconda parte, con meno ragazzi da seguire, si colgono con più completezza le sensibilità, le delicatezze, i nervosismi, i rancori e i dispiaceri anche di alcuni comprimari come l’eccezionale yakuza Sakakibara, figura davvero insolita e carismatica nel farsi peso di qualsiasi responsabilità sempre con il sorriso sulle labbra.


I 24 episodi seguono più o meno fedelmente lo schema del monster-of-the-week, presentando di puntata in puntata la vicenda personale del personaggio in esame e concludendo con un solitamente breve duello finale tra mecha. Appare chiara la propensione a un dispendio minimo di mazzate tra colossi di metallo (a volte vengono risicate in meno di un minuto) per privilegiare sensazioni e stati d’animo, dialoghi e riflessioni, toccando spesso temi di non facile gestione come pedofilia, isolamento, prostituzione anche minorile, mancanza dei genitori o loro disinteressamento nei confronti dei figli. La forte struttura episodica non sempre centra il bersaglio, a volte alcuni comprimari e certe situazioni presentate si esauriscono con la puntata in questione quando avrebbero potuto offrire interessanti relazioni con il prosieguo della trama generale, ma gli argomenti sviscerati sono insoliti e coraggiosi, e piace molto questa scelta introspettiva.

A far da sfondo e da legame alle singole avventure, è presente un complesso background politico e sociale, voluto dal regista per differenziarsi dal manga originale, da lui detestato per non meglio precisate motivazioni. La natura dello Zearth diventa teatro di una guerra tra governo, scienziati, stampa e semplici cittadini: l’opportunità energetica del mecha permette infatti credibili dibattiti che mostrano varie facciate dell’egoismo politico e del cinismo scientifico, sleali trucchetti per infangare l’avversario compresi. Tale aspetto narrativo emerge più che altro nella seconda parte, quando viene un po’ meno la natura episodica dell’opera in favore di una più profonda analisi dei sopravvissuti. Si inizia così a pronosticare verso quali lidi possa muoversi la trama generale, e su quali personaggi preferisca soffermarsi per dare mordente e insieme ordinato all’intera impalcatura narrativa. Appaiono forse un poco posticci e ingabbiati i due lunghi riassunti che permettono di capire il funzionamento dell’universo e svelano fondamentali retroscena, ma si possono finalmente comprendere gli scopi che hanno dato il via al massacro giovanile e, nonostante una conclusione sicuramente troppo comoda e didascalica (che si può comunque perdonare), porre fine a questo viaggio tanto triste.


Splendido il semplicissimo chara design di Kenichi Konishi, che, sebbene volti di adulti e ragazzi tendano a volte ad assomigliarsi un po’ troppo, è ideale per porre la giusta attenzione, complici anche le animazioni di certo non esemplari, sulla vicenda e non sul mero aspetto grafico. Immaginifico e ambizioso invece il mecha design di Tsutomu Suzuki, che crea questi giganti dalle sembianze lievemente insettoidi e sfrutta, attraverso le loro enormi dimensioni e una buona CG, lentissimi movimenti decisamente realistici. Chiude il quadro una delicata OST introdotta da una magnifica opener squisitamente pop, dove meste orchestrazioni e sofferti arpeggi pianistici guidano i destini dei giovani protagonisti. Per una volta tanto, un plauso alla GONZO, che pur con qualche leggerezza e ricaduta, ha saputo dare il giusto risalto alle modifiche del manga originale per ottenere una ben riuscita opera malinconica e drammatica.

Voto: 7,5 su 10

venerdì 4 marzo 2011

Recensione: Wolf's Rain

WOLF'S RAIN
Titolo originale: Wolf's Rain
Regia: Tensai Okamura
Soggetto: BONES, Keiko Nobumoto
Sceneggiatura: Keiko Nobumoto
Character Design: Toshihiro Kawamoto
Mechanical Design: Shinji Aramaki
Musiche: Yoko Kanno
Studio: BONES
Formato: serie televisiva di 26 episodi (durata ep. 24 min. circa)
Anno di trasmissione: 2003
Disponibilità: edizione italiana in DVD a cura di Yamato Video

 
In un luogo senza tempo dove tecnologia e magia sembrano convivere da sempre, dove le profezie sono temute e le astronavi solcano i cieli, nessuno crede più ai lupi, creature ormai leggendarie che si dice siano estinte. In realtà molti esemplari sono ancora in vita, all’ombra di tutti: predati, odiati, i pochi lupi viventi sono esseri al tempo stesso uomo e animale, e le vicende di quattro di loro sono destinate a incrociarsi. Kiba è alla ricerca del misterioso Paradiso, culla divina in cui i lupi possono vivere in pace, e viene presto affiancato da Hige, Tsume, Toboe e dalla indecifrabile Cheza, ragazza a cui tutti danno la caccia. Sulle loro tracce, i perfidi Nobili…

Difficile credere che in ventisei episodi sia il nulla più assoluto il vero protagonista di Wolf’s Rain, eppure è impresa tremenda, vana, inutile trovare qualche speranzosa qualità in questa famosa serie BONES del 2003. Potenziale bomba narrativa in virtù di uno staff produttivo semplicemente stellare, Wolf’s Rain è in possesso di elementi cardine di indubbio fascino, capaci di stuzzicare adeguatamente l’appetito in tre puntate iniziali di pregevole incanto. Navi volanti, treni ultra-tecnologici, braccia meccaniche, culle criogeniche, e ancora splendidi, cupissimi scenari incastonati in brame dark-fantasy, paesaggi marciti dall’abbandono umano e costruzioni decadenti, un mondo in guerra, distrutto dalla rivalità battagliera di due fazioni ancora oscure, un libro contenente orrori profetici, un singolare individuo mascherato che sfrutta lungimiranti dottrine high-tech in un contesto di povertà prettamente fantastica. E soprattutto loro, i lupi, queste creature che con una semplicissima, paradossalmente naturale trovata appaiono in una sorprendente originalità caratteriale: non licantropi, non fiabeschi esseri che mutano la propria forma, bensì animali e uomini allo stesso tempo e nello stesso tempo. Una splendida finezza registica dona infatti loro un magnifico aspetto bipolare, inquadrandoli ora in calme sembianze umane, ora in ruggenti fattezze canine, cala sulle loro figure un magico alone di meraviglia e inventiva, uno sbalorditivo biglietto da visita per un’opera che sembra partire subito in quarta. Ma tolto tutto questo Wolf’s Rain crolla miseramente, per poi non risollevarsi più.


In una narrazione pachidermica e incostante, esageratamente tentata da lungaggini, sfasamenti, sfocature, perdite di tempo in superflue sottotrame, Wolf’s Rain non riesce mai, mai a decollare dopo i primi tre eccellenti episodi, che seminano germogli fantasy/sci-fi lasciati poi a se stessi, in balia della pessima sceneggiatura di una Keiko Nobumoto irriconoscibile. L’opera soffre infatti di una soporifera mancanza di scopo, un’agonizzante, continuo sbandamento che la porta ad accennare fatti e personaggi senza mai spiegarli, costringendo quindi il povero spettatore a pazientare se niente è dato sapere del background politico, e a tenere duro se situazioni, eventi e colpi di scena accadono per motivi inspiegabili. Wolf’s Rain illude, illude che vi sia un quadro preciso dietro a tutto, quando invece lo sfondo della vicenda è sempre confuso, approssimativo, distante, impalpabile, e a poco, pochissimo serve che la storia, nella sua brevissima conclusione, trovi pur corretto compimento: i fili vengano tirati troppo tardi e dietro estenuanti forzature, a un ritmo che di colpo progredisce con velocità inaudite quando la triste rilassatezza aveva mezzo narcotizzato spirito e forza di volontà, e si accetta senza alcuno scossone che la serie volga finalmente a termine (almeno fino ai successivi quattro episodi OVA, che danno completa, anche se non necessaria, conclusione al tutto). D’altronde, nient’altro esito può dare la banale rivelazione della natura del Paradiso tanto cercato da Kiba e compari (cioè, tutto questo per dire che…?).

Durante il prosieguo della storia, mentre le vicende si dilatano in mistiche digressioni e stanche lotte tra bestie che nessuno aveva desiderato, è assai prevedibile che, all’orizzonte, si verifichi questa orribile scelta strutturale, eppure si tende a credere, a credere fortemente che vi sia un senso ultimo all’infinito peregrinare dei quattro odiosi protagonisti, quattro pezzi di legno ingabbiati in dozzinali caratterizzazioni (il leader silenzioso, il ragazzetto timido, il saggio cinico e il bonario simpaticone) che per l’intera serie camminano di luogo in luogo con l’unico scopo di raggiungere una meta di cui nessuno sa nulla. Che siano inseguiti dai Nobili o da antagonisti momentanei, Kiba e compari proseguono il loro assurdo vagabondare senza mai incontrare alcuna difficoltà, verso questo Paradiso privo di garanzie, che forse addirittura non esiste. Troppo perfetti nella loro banalità, troppi imbattibili nel loro ridicolo carisma, non esiste scontro che li metta seriamente in ginocchio, perché a fine episodio, o quasi, potranno sempre ricongiungersi e continuare così, per l’incredibile gioia di tutti gli spettatori, a camminare nella puntata successiva, in una storia fastidiosamente episodica collegata da una continuità assai rarefatta e fragile. Viene pertanto minato l’aspetto drammatico, su cui l’atmosfera pesante e truce sembra puntare molto, e ogni speranza di pathos svanisce in storielle ripetitive e inefficaci, fatte di cacce, duelli con animali giganteschi e sporadici momenti di guerra, mentre sullo sfondo seguiamo altre sterili tragedie come quella del ridicolo cacciatore e una quantomeno dignitosa storia d’amore. Resta quindi l’irritazione, un prurito furioso se consideriamo non solo gli ottimi spunti iniziali, ma anche la presenza di una OST maestosa a opera della celebre Yoko Kanno, dolciastra e magniloquente, teatrale e grintosa, di una bellezza commovente nel suo variare da sofferti pezzi orchestrali a toccanti interventi acustici.


Non serve infine soffermarsi sull’eccellente reparto tecnico, marchio di fabbrica dello studio BONES: la qualità delle animazioni, il morbido, dolcissimo chara design di Toshihiro Kawamoto e lo splendore dei colori sono aspetti che però passano in secondo piano di fronte a una così malmessa, annacquata sceneggiatura, ulteriormente penalizzata, come se non ci fosse già noia a sufficienza, dal suo inserire controvoglia ben quattro, e dico QUATTRO, episodi riassuntivi DI SEGUITO, visti ritardi di produzione che costringono Fuji TV a spostare ripetutamente l'orario della messa in onda rovinando l'originale pianificazione della storia in 26 puntate. Scelta che costringe BONES a far uscire successivamente degli OVA che la chiudano definitivamente.

Voto: 4,5 su 10

SEQUEL
Wolf's Rain (2004; serie OVA)

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